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    .Eucaristia: Passione

    di Dio per l’uomo

    Lectio Divina di Gv 6,1-15

    Gregorio Vivaldelli



    Dal Vangelo secondo Giovanni

    1Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, 2e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. 3Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. 4Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
    5Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». 6Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. 7Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». 8Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9«C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». 10Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. 11Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. 12E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 13Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
    14Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». 15Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

    Invocazione dello Spirito
    Spirito Santo, tu che sei l’amore tra il Padre e il Figlio, donaci la grazia di lasciarci leggere con umiltà dalle parole del Vangelo.

    La moltiplicazione dei pani
    Senza ombra di dubbio il miracolo della moltiplicazione dei pani è stato il prodigio compiuto da Gesù che ha suscitato negli evangelisti maggior interesse. Per ben sei volte, infatti, i quattro Vangeli registrano tale evento (cf Mt 14,13-21; 15,32-39; Mc 6,30-44; 8,1-8; Lc 9,10-17 e il nostro). Giovanni intende il miracolo della moltiplicazione dei pani come un segno della messianicità regale e profetica di Gesù (cf v.14).
    Nel nostro brano vi sono gli stessi termini usati nei racconti dell’istituzione dell’Eucaristia: «prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede…», v.11 (cf Mt 26,26-28; Mc 14,22-24; 1Cor 11,23-25). È questo il motivo principale per cui la tradizione cristiana ha letto nel segno giovanneo della moltiplicazione dei pani un significato che rimanda al banchetto eucaristico, attorno al quale l’uomo può saziare la propria fame di Dio, di eternità: mangiando il «Pane della vita» (Gv 6,35).

    «Salì/si ritirò sul monte» (vv.3 e 15)
    All’inizio e alla fine del nostro brano è menzionato il monte. La gente non è ancora in grado di comprendere appieno la modalità con cui Gesù ha deciso di essere il Messia. Gesù, per evitare ogni trionfalismo fuori luogo, si ritira di nuovo sulla montagna, tutto solo. Per Gesù il monte è il luogo dove cercare la comunione con il Padre. Sul monte Gesù rivela come il suo agire si origini nel «dialogo ininterrotto con il Padre, un dialogo che è la sua vita» (J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, I, 309). Se il segno del pane vuole portare a Gesù, con il suo andare sul monte Gesù vuole attirare la nostra attenzione sul Padre.
    È dal monte che Gesù vede la folla affamata. È grazie alla comunione con il Padre che Gesù si preoccupa della folla. La comunione con il Padre genera in Gesù l’attenzione per gli altri e le loro necessità.
    La nostra comunione con Gesù Eucaristia ci porterà a scoprire in Dio Padre la sorgente delle nostre relazioni quotidiane, del nostro essere sposi, genitori, figli e fratelli.
    Gesù si è preso cura degli altri perché ha curato il proprio rapporto personale con il Padre. La comunione con il Padre è la radice profonda della missione del Figlio. Come un albero: più profonde sono le sue radici, più estesi possono essere i rami sotto i quali si può trovare rifugio e conforto. È grazie a questa comunione con il Padre che Gesù accoglie le persone come un dono del Padre (cf Gv 6,37-40).
    Se, come famiglie, ci aiutiamo a trovare nel nostro quotidiano la capacità di “ritirarci” sul monte come ha fatto Gesù (che non significa fuggire dalla realtà, ma andare alla fonte stessa della realtà, per riuscire a viverla in pienezza e non lasciarci travolgere da essa), saremo capaci di avere uno sguardo più profondo sulla nostra realtà affettiva, scoprendo nel nostro coniuge e nei nostri figli il dono più prezioso che il Padre ci ha affidato.
    Il Padre è quel “dove” – presente nella domanda che Gesù rivolge a Filippo (cf v.5) – nel quale possiamo conoscere e sperimentare la forza vitale che anima il vero Pane, Gesù di Nazaret, il quale può affermare: «Io so da dove vengo» (Gv 8,14).
    Per l’evangelista Giovanni, è nel Padre, rivelato dal Figlio, che possiamo saziare la nostra radicale fame di senso e significato. Il senso della vita si manifesta nella capacità di dare un nome alle proprie esperienze, alle proprie relazioni, così da poter scoprire il “tutto portante” del proprio vivere. La nostra dedizione per gli altri non si ridurrà a mera filantropia, ma sarà vera carità, amore fattivo che sgorga dalla comunione con il Padre.
    Racconta il commediografo irlandese George Bernard Shaw (Dublino 1856-1950) che un giorno, in treno, il controllore gli chiese il biglietto. Shaw si frugò nelle tasche, ma il biglietto non saltò fuori. «Va bene lo stesso – fece il controllore, che nel frattempo riconobbe il celebre scrittore – l’avrete smarrito!». «Andrà bene per voi, giovanotto, – replicò Shaw – ma io come faccio ora a sapere dove sono diretto?».
    Sulla scorta dell’apologo appena raccontato, potremmo dire che il rischio è vivere i nostri affetti come “viaggiatori dimentichi della meta”. Si nasce perché si nasce, si ride perché si ride, si piange perché si piange, si muore perché si muore: tutto finisce lì, in un vissuto inconsapevole e superficiale. «Nessuno è più perso di chi non sa dove si trova: non sa né da dove viene né verso dove va» (S. Fausti).
    Secondo il Vangelo che stiamo meditando, invece, la prima forma di carità che Dio vuole farci è il dono della verità complessiva su noi stessi, il dono di una luce che renda definitivamente comprensibile la nostra vicenda terrena.
    Gesù, andando sul monte, vuole condurci al Padre per scoprire il vero significato della nostra intima essenza vitale: essere figli amati nel Figlio amato. Questa è la verità donataci dal Vangelo. Non siamo “viaggiatori dimentichi della meta”. Si tratta di una verità in grado di rivelarci la direzione, l’orientamento della nostra esistenza, soprattutto quella affettiva. Il Padre, e quindi il nostro essere figli amati nel Figlio, è quel “tutto portante” che ci impedisce di vivere la banalità di un’esistenza livellata sul presente. Ritirarsi sul monte apre il mondo dei nostri affetti all’eternità nascosta nelle piccole cose di ogni giorno.
    Per lasciarsi plasmare da questa verità è necessaria la sapienza del raccoglimento, la capacità di sapersi “ritirare”, come ci insegna Gesù (cf v.15). Tuttavia, non si tratta di una scelta facile, soprattutto per noi famiglie immerse nel ritmo del mondo contemporaneo. Scrive il Papa: «Il nostro tempo non favorisce il raccoglimento e a volte si ha l’impressione che ci sia quasi timore a staccarsi, anche per un momento, dagli strumenti di comunicazione di massa» (Benedetto XVI, Verbum Domini, n.66). Potremmo pensare all’adorazione eucaristica come alla capacità di staccare le connessioni che ci tengono schiavi, per riuscire a entrare “in rete” con Dio, con gli altri e con noi stessi. A tal riguardo, nella Bibbia c’è un libro – tra l’altro molto utilizzato nelle catechesi per i fidanzati – che contiene un invito che “punta in alto”; un padre, Tobi, propone a suo figlio Tobia: «Ogni giorno, o figlio, ricordati del Signore» (Tb 4,5). Con questa esortazione il libro di Tobia può suscitare una positiva inquietudine: come trasmettere ai nostri figli il valore della preghiera? Scrive Marina Corradi: «I nostri figli sono liberi. Non decidiamo noi della loro fede. Ma non possiamo andarcene, senza avere allungato loro il testimone, in uno sfiorarsi fugace di mani, quasi in un gesto di preghiera» (Avvenire, 19 giugno 2011).

    «Era vicina la Pasqua» (v.4)
    Nel cuore del pio israelita, il tempo di Pasqua evoca tanti ricordi: l’epopea esodica; il più grande dei profeti in Israele, Mosé, principale testimone della passione di Dio per il suo popolo (Gesù stesso, al termine del nostro brano, sarà definito “profeta”, cf v.14); l’esperienza sorprendente del dono della manna nel deserto…
    La Pasqua è il ringraziamento per la liberazione dalla schiavitù egiziana. Fa memoria dell’evento fondativo della fede di Israele. Con questa festa, è come se Israele dicesse: “a tal punto Dio è appassionato per l’uomo che Egli stesso è passato nella nostra storia concreta e ci ha liberati dalla schiavitù”.
    Essere famiglie pasquali, avere relazioni affettive eucaristiche, significa non esitare a mostrare come Dio desideri “attraversare” la nostra vita quotidiana, per donarci la libertà di trasformare il Pane Eucaristico in vita reale.
    Alcuni esempi pratici di relazioni pasquali, eucaristiche, a partire dalla Parola di Dio:

    «Dopo aver reso grazie» (v.11): liberi di dire grazie al nostro coniuge; liberi di educare i nostri figli ringraziando.
    «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10): liberi di riconoscere il valore e le qualità di chi ci vive accanto; liberi di anticiparci nel parlare bene del nostro coniuge davanti ai nostri figli…
    «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12,15): liberi di mettere la gioia di mio figlio o del mio coniuge al primo posto rispetto alle mie… tristezze.

    Il dialogo tra Gesù, Filippo e Andrea
    Attirano l’attenzione le reazioni dei due discepoli alla domanda di Gesù (cf v.5): «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure…» (v.7); «cos’è questo per tanta gente?» (v.9). Il Vangelo ci mostra due collaboratori di Gesù che, anziché “contare” su di Lui, “contano” seguendo un’altra logica, più umana. Troppo umana. Manzoni direbbe che Filippo e Andrea sono stati troppo “lesti nel sentenziare” (cf I Promessi Sposi, cap.38). Il rischio è quello di arrivare a pensare che se non si hanno abbastanza tempo, forza, risorse umane ed economiche ecc., non si possiede niente e quindi non si può fare nulla. Non dobbiamo limitarci a contare ciò che abbiamo (meglio: ciò che siamo), ma valutare se siamo disposti come famiglie ad investirlo (investirci) totalmente a favore degli altri, a partire da chi ci vive accanto ogni giorno: «se io do tutto quello che ho, il mio prossimo riceverà tutto quello che desidera. Il “se avessi di più” viene spazzato via da questa operazione» (Paul Beauchamp).
    Il gesto eucaristico di Gesù mira a trasformare la mente e il cuore di Filippo e Andrea e di tutti coloro che desiderano porsi alla sequela del «Pane di vita». Stando con Gesù le risorse si moltiplicano all’inverosimile: quel poco che si constata di avere può essere moltissimo se messo in mano a Gesù Eucaristia. È come se Gesù, con la sua domanda e il successivo gesto della moltiplicazione, ci dicesse: “Io sento compassione per questa folla Quanto riuscite ancora a lasciarvi coinvolgere da quello che succede nel mondo intorno a voi? Quanta compassione avete, quanto vi appassiona la situazione di coloro che vi vivono accanto? Non chiedo i vostri soldi. Vi chiedo di assistere insieme al miracolo che Io compio per voi e per loro. Desidero che voi mi doniate quello che siete perché possiate comprendere, voi e loro, che io non solo moltiplico il pane, ma offro la mia vita per molti. Ciò che io vi offro è la possibilità di vivere da figli di Dio, non i numeri dei conti e le cifre esatte del problema”.
    Gesù Eucaristia ci educa a comprendere che l’autentica misura dell’amore è il dono totale di sé. Anche san Paolo, che si è lasciato coinvolgere dallo stile di Gesù, non esita a dire: «Offrite voi stessi» (cf Rm 6), «Offrite i vostri corpi» (cf Rm 12). San Paolo, dando voce ad ogni discepolo di Cristo, sperimentò l’urgenza di vivere la vita come dono per potersi dire cristiani, a tal punto da considerare la propria esistenza con-crocifissa con quella di Gesù: «Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io ma Cristo vive in me» (Gal 2,19-20).
    Perché Gesù Eucaristia vive in noi possiamo diventare strumenti di perdono e di riconciliazione; vivere da figli, vale a dire da testimoni visibili e credibili della tenerezza misericordiosa del Padre; abitare la nostra quotidianità come sposi e genitori di pace, gioia e carità; avere un cuore pacificato, per poter essere umili e liberi ricercatori di rapporti riconciliati con chi ci vive accanto ogni giorno.

    I dodici canestri
    Nulla, dell’offerta di Gesù, va perduto: dodici canestri per raccogliere i pezzi avanzati. Uno per ogni tribù di Israele. Il dono che Gesù fa di se stesso è per il popolo intero, radunato in unità proprio dall’Eucaristia, «perché nulla vada perduto» (v.12): «questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (Gv 6,39). Sembra quasi paradossale, perché alla fine del capitolo 6 di Giovanni veniamo a sapere che, oltre alla folla e ai Giudei, molti dei suoi discepoli lo lasciarono. Rimangono solo i Dodici, e anche in essi c’è «un diavolo» (v.70).
    In che modo Gesù compie la volontà del Padre? Rimangono i canestri pieni della sua offerta. Rimangono il suo Corpo donato e il suo Sangue versato. Rimane la presenza eucaristica di Gesù, rimane la sua offerta irrevocabile che ci permette la relazione buona con il Padre. La nostra comunione con il Padre è assicurata dal dono di sé di Gesù Eucaristia. La nostra “fedeltà eucaristica” (vale a dire: la possibilità di non “perderci”) non si basa sui nostri sforzi, ma sulla fedeltà di Gesù alla sua promessa di essere in mezzo a noi tutti i giorni attraverso l’Eucaristia.
    Gesù Eucaristia non ci dà solo l’esempio di cosa significhi offrire se stessi per amore. L’Eucaristia ci rende capaci, ci abilita, ci nobilita a vivere un’esistenza eucaristica.
    Gesù Eucaristia ci nobilita e abilita a essere sposi e genitori santi; a vivere una santità quotidiana, feriale e affettiva, in grado di mettere ordine alla nostra vita, di dare senso alle nostre giornate.
    Gesù Eucaristia non ci abilita a diventare degli eroi. Gli eroi sono coloro che mostrano cosa l’uomo può fare di straordinario. I santi, invece, sono coloro che mostrano le cose straordinarie che Dio riesce a compiere nell’ordinarietà della nostra vita quotidiana. Santi, vale a dire sposi e genitori che amano la vita reale (real life) e non lo show della realtà (reality show).


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