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    Eucaristia fonte

    dell’accoglienza

    Mimmo Battaglia


    In città si incontrano persone e famiglie deboli, fragili, povere, malate, depresse, lontano da casa e tra essi molti giovani. Come l’Eucaristia ispira la relazione d’aiuto, l’accompagnamento, la cura?
    Vorrei partire, per rispondere, dalla bruciante corporeità e relazionalità dell’Eucaristia. Mani che prendono, bocca che assapora. Voci che si fondono, quella del celebrante e quella di Cristo: “Questo è il mio corpo”.
    Non è possibile capire l’Eucaristia senza ritornare all’incarnazione e alla vita di Gesù in un corpo simile al nostro, come la descrive il Vangelo. Gesù tocca e si lascia toccare, accarezza e si lascia accarezzare, vede e fa vedere, sente e fa sentire, suda, mangia, beve. Come ogni ebreo, Gesù non separa e non confonde ciò che è carnale da ciò che è spirituale. Ma l’amore di Dio (“Dio è amore”) prende corpo e si prende cura dell’altro perfino nel suo corpo.
    Da sempre siamo stati educati a cercare il cielo oltre la terra, in un dopo, in un fuori, ma nelle nostre comunità, abbiamo voluto rovesciare questa prospettiva e cercare il cielo non oltre la vita, ma dentro la terra. Qui, qualcuno di noi ha scelto di fermarsi, di sporcarsi le mani, di sporcarsi di terra e di cercare, anche dove è più buio, l’azzurro di un cielo in cui fa capolino la speranza. Abbiamo fatto amicizia con volti che, senza paure, si sono avvicinati per cercare senso e giustizia. Abbiamo conosciuto volti, occhi, mani e nomi, anime! Una grazia di Dio! Perché da quei volti, dalla loro fatica, dal loro disagio, dalla loro povertà, dalla loro ricerca di senso, dalla loro voglia di vivere, ci si lascia “convertire” continuamente.
    Prendersi cura del corpo altrui non è molto diverso dal condividere il pane. L’accompagnamento è inerente l’Eucaristia nella sua realtà profonda, perché accompagnare qualcuno è farsi suo compagno, ossia condividere il pane con lui (compagno = cum -pane).
    Il pane eucaristico non è soltanto per il mio sostentamento, la mia crescita, ma mi spinge verso l’altro perché abbia il pane in comune con me, soprattutto verso colui che, più di me, ha bisogno di cura, di forza, di nutrimento.
    Nella mia vita quel Pane mi ha portato all’incontro con tante persone che, in un dato momento della loro vita, hanno scelto di nutrirsi di “pane sbagliato” (Is 55.1-2), in una società che fa tante vittime quando propone in modo dirompente i miti dell’apparire più che la fiducia, l’autenticità, la concretezza dell’essere. Nelle nostre comunità si incontrano persone che, nella fame di affetti e nella ricerca di cammini interiori, hanno scelto, in solitudine, scorciatoie in cui si sono smarrite …
    Quanti incontri, quante famiglie fragili, quante donne e uomini che combattono le tante depressioni di oggi con troppi psicofarmaci (ancora pane sbagliato!), quante persone con profonde ferite affettive, quante separazioni e divorzi, quanti disoccupati, quanti precari … talvolta a vita. Tanto dolore, e tante notti di abisso che suscitano voglia di colmarlo con la passione, anzi com-passione, cioè assieme ad altri in un progetto di cammino verso la luce, di ripartenza per abitare la casa della vita con fecondità, e partendo proprio dalla strada: per uscire dalla trincea, con umiltà e coraggio, nel nome della speranza che si incontra negli occhi e nel cuore di chi abita la strada e che è capace di parlare di Dio senza bisogno di parole. Il Signore si lascia afferrare da tutti, ma non si lascia imprigionare da nessuno.
    Ed io vedo un Dio geloso fino alla follia delle sue creature: noi uomini siamo grandi perché siamo stati da sempre il pensiero di Dio, ma portiamo la contraddizione dentro di noi. Io sono innamorato dell’uomo e della sua impotenza, perché so che Dio è più grande del suo cuore. Non mi meraviglia che il volto dell’uomo si trasformi in tante maniere diverse; mi meraviglia che Dio pretenda sempre e comunque di assomigliargli. Dalla strada è più facile vedere e respirare le stelle. E’ più facile alzare lo sguardo, cambiare vita, risorgere. Non solo per solidarietà, per offrire a chi è costretto ai margini l’opportunità di risollevarsi, ma anche per aiutare noi stessi, noi comunità di credenti, a ripensarci, ad abbandonare i timori e i rifugi:
    in questi anni ho visto morire tanti ragazzi, molti stroncati dall’AIDS, proprio mentre stavano gustando e apprezzando il dono della vita. Sotto la loro maglietta, nel profondo del loro cuore, c’era sempre una ricerca infinita di vita e perciò anche di Dio. Ma davanti alla loro agonia, e alla loro morte, ero io che mi sentivo lontano, ero io che mi chiedevo se Dio li avesse abbandonati. Questo terribile dubbio che s’impadroniva della mia mente abituata alle certezze, questo terribile travaglio che scuoteva la mia coscienza, questo sentimento di fragilità e di povertà interiore, mi ha fatto comprendere e vivere il senso dell’ abbandono in Dio, mi ha fatto cogliere il dono della conversione continua e dell’eterno ritorno a Lui. Non so se io sono stato strumento di conversione per qualcuno di questi ragazzi, lo sa solo il Dio della vita. So per certo, però, che ciascuno di loro è stato strumento di conversione per me.
    Anche nella vita è sempre così: sicurezza e certezza devono confrontarsi con il dolore dell’uomo e perciò con il dolore di Dio.
    È incredibile come droga , carcere, prostituzione , delinquenza, solitudine e voglia di morire, uniformano i volti e li rimandano ad evanescenti tratti infantili. Durezza e tenerezza si mescolano, delusione e speranza si confondono e ti trovi tra le mani bambini timorosi della loro scorza di uomini alla deriva. E tu immergi ancora una volta le mani nella vita e le ritiri esperte di ciò che a te non appartiene: le mani di un prete, come quelle di ogni persona consacrata, come quelle di chi ha fatto della gratuità il senso della sua vita, Dio le riconosce subito, perché sono sempre sgombre, vuote, disponibili all’inutilità. Mani che devono svuotarsi … lasciare tutto.
    “Lasciare tutto”, per non perdere quel pezzo di Regno di Dio, è il senso di un gesto, non soltanto compiuto una volta, ma del gesto ripetuto per sempre, ed è anche il senso della nostra fatica.
    È attraverso l’Eucarestia che l’esistenza tocca ed entra nell’essere; è nell’Eucarestia che l’amore trova il suo compimento: con essa è vinta per sempre la solitudine, sia di Dio che dell’uomo. È per questo che la vita stessa chiede di farsi Eucarestia ( D. Turoldo), comunione. E ciò significa, anche, assumere, giorno dopo giorno, le sembianze devastate di chi il Signore ti ha messo accanto, e prendere in carico il dolore, l’emarginazione, come se ti appartenessero.
    Ed è, soprattutto, attraverso le ferite dell’altro, specchio delle mie ferite, che posso scorgere la luce che indica la strada. Nelle ferite dei miei ragazzi, nel dolore dei fratelli senza lavoro, nei nostri immigrati senza più patria e senza ancora speranze, nei nostri compagni di viaggio.
    “Neanche Gesù ha voluto nascondere le sue ferite. Sono piaghe che non ci saremmo aspettate, convinti magari che la resurrezione le avrebbe rimarginate, cancellate per sempre. Invece no, le piaghe restano, per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è stato resuscitato. L’amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazareno con la scrittura delle ferite: amore incancellabile, ferite incancellabili. Ma luminose: dalle piaghe del risorto non sgorga più sangue, ma luce.
    Allora capiamo che il cuore ferito con le sue cicatrici può diventare più capace di amore e di guarigione, possiamo tutti diventare dei guaritori feriti. Proprio attraverso quelle ferite, che ci parevano colpi duri o insensati della vita, diventiamo capaci di comprendere altri, di venire in aiuto ad altri, nell’attraversare le stesse tempeste”.
    È la grande lezione che ogni giorno impariamo: “la vita fragile non è condannata, l’uomo non è spezzato. È invece il cielo che si spezza, che si apre, che si lacera. Dio non condanna la fragilità ma l’ipocrisia dei pii e dei potenti. Non punisce i nostri inverni, ma soffia la sua primavera! Perché l’uomo non coincide con i suoi peccati, né la vita con le sue fratture.”(Ermes Ronchi)
    Penso all’icona dell’ultima Cena, immagine di una comunità di discepoli che fanno casa insieme, fraternità, che fanno Chiesa che non esclude ma include, dove convivono zizzania e buon grano. Una Chiesa come una tavola di famiglia.
    Lì, Gesù lava i piedi dei suoi discepoli. Tutto sembra molto semplice ma … è immenso: il servizio del fratello non è un’applicazione ma l’essenza stessa dell’Eucaristia.
    Per lavare i piedi Gesù lascia le sue vesti. Il suo proposito è di farci capire che si va a Dio innanzitutto dal basso, dall’umiltà.
    Celebrare l’Eucaristia è innanzitutto svestirsi e prendere nelle proprie mani l’esistenza degli uomini. È afferrare la pena e la gioia, la violenza e la dolcezza, la carne e il sangue … e farli traghettare. Perché si tratta di varcare una frontiera, di entrare in una nuova terra, di piantarvi dei germi di trasfigurazione.
    “Questo è il mio corpo …”. Il suo corpo è più del suo; è anche il tuo, è anche il mio, è il corpo degli uomini che piangono, soffrono, gridano …
    Ma la trasfigurazione avviene: da un pane si fa un altro pane. Il pane non è più soltanto pane. Così il corpo degli uomini offerto sulla patena è cambiato, non è più soltanto il loro corpo, la loro carne ferita, c’è in loro un germe di novità, di eternità.
    Nell’Eucaristia si afferra il “qui e ora” per farne già l’aldilà. L’Eucarestia è la forza che trasforma la notte in giorno, il tradimento in dono d’amore, Giuda in Giovanni. L’Eucarestia non è dolciastra, ma è vera quanto più è drammatica: non è quella celebrata con il pane degli angeli ed astrattamente incensata, ma l’Eucarestia più vera è quella che coinvolge le tue lacrime, le tue fatiche, i tuoi dolori, i tuoi drammi.
    Solo nutrendoci di questa verità possiamo davvero incarnare il Cristo e lasciarci abitare, possiamo dare un senso alla nostra vita e alle nostre opere, che vuol dire anche mettere in discussione il nostro modo di fare carità.
    Il vero rischio della carità non comincia quando si mette in gioco la propria vita ma quando si fa elemosina senza lasciarsi coinvolgere, quando si offre solidarietà senza reciprocità, scegliendo le povertà meno scomode e selezionando i bisognosi secondo i propri bisogni. La carità non è una questione di scelte, perché non si possono scegliere le persone che bussano alle nostre porte.
    Gesù ha detto che la pietra scartata dai costruttori sarebbe divenuta testata d’angolo. Sento il bisogno di chiedere, a cominciare da me stesso: come mai abbiamo proclamato al mondo una chiesa dei poveri ed i nostri poveri continuano a rimanere sull’uscio delle nostre chiese, senza entrare, senza trovare spazi ? Forse perché sono rumorosi e non sanno parlare?
    Anche i bambini attorno a Gesù erano rumorosi e gli apostoli cercavano di allontanarli, ma Egli li accolse. Anche il cieco urlava e tutti cercavano di zittirlo perché disturbava, ma Gesù, a quel grido, si fermò. Anche la prostituta disturbò la cena lavando con le sue lacrime i piedi di Gesù , ma con il suo modo di parlare e di agire Gesù ha capovolto tutti i canoni di un galateo che mette i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Anche il figlio maggiore di quel padre si lamentava perché lui era stato bravo, non aveva sprecato le sostanze, eppure la festa, le lacrime sul viso, il vitello grasso, il vestito più bello e le danze erano state riservate per l’incontro tra il padre e il figlio che era perduto.
    Dire nelle celebrazioni che il Dio di Gesù Cristo è il Dio degli uomini, dei deboli, dei poveri, esige il coraggio della coerenza. Chiede la forza di ripetere le stesse cose fuori dal tempio, testimoni oculari del grande messaggio che lo Spirito ci dona e ci consegna: è il messaggio che ci invita ad uscire allo scoperto, ad uscire fuori dalle nostre prudenze e comode certezze.
    Solo quando la fede esce dalle sacrestie, a servizio dell’uomo, nel nome del Vangelo, recuperando la grazia della chiarezza, senza sfumare le finali per paura del quieto vivere, è credibile.
    L’Eucaristia, allora, non suggerisce una cura, ma il contesto della Cena in cui questo segno ci è stato consegnato, diventa un invito a riconoscersi bisognosi di lavarsi i piedi gli uni gli altri … Ispira una vicinanza: il corpo è offerto … il sangue è versato … la legge dell’esistenza è il dono di sé.
    Tante volte di fronte alle nuove povertà, agli arrivi massicci di persone nuove nella città, c’è tanto disorientamento, paura, diffidenza, chiusura. Come le opere della Chiesa sono una traduzione della contemplazione e adorazione eucaristica e aiutano a vedere la presenza reale di Gesù in tante nuove e deboli persone?
    Mi verrebbe naturale cambiare un po’ il senso della domanda: non tanto come la Chiesa possa tradurre in azioni la propria contemplazione eucaristica ma, prima ancora, come attraverso l’incontro con gli ultimi possa convertirsi, per essere più Chiesa, essere realmente popolo delle beatitudini.
    Come ci suggerisce la domanda di Gesù , al termine della parabola del buon samaritano, non si tratta di sapere chi è il mio prossimo, ma di farsi prossimo all’uomo ferito. Al cuore della comunità cristiana c’è l’abbraccio del diverso, dell’altro.
    L’accoglienza dell’altro, del nuovo, non può essere vissuta in verità se non c’è una vera conversione dello sguardo, se non c’è purezza dello sguardo. Nello stesso modo, per incontrare Gesù, devo aprirmi al suo mistero di uomo che viene dall’Altro, dall’Alto, e che non corrisponde per nulla alle mie solite esperienze. Di fronte a Gesù che si dona nel pane e nel vino eucaristici sono costretto a uscire dalla mia visione ristretta a ciò che capisco e di cui posso impossessarmi.
    Così, in presenza di un altro che suscita in me disorientamento, devo convertire lo sguardo e scoprire, nel volto del diverso, la bellezza della creatura di Dio, fatta a sua immagine, lo splendore di colui per amore del quale Gesù ha donato il suo corpo e il suo sangue. Quando tale scoperta accade la paura scompare.
    Penso a Mosè che, avvicinandosi al monte di Dio, si sente dire, anzi gridare, da Dio “Togliti i sandali … perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!”(Es 3,5). Deporre le vesti, togliersi i sandali, non è forse l’invito di Dio oggi presente nell’Eucaristia a deporre ogni pregiudizio, ogni diffidenza, ogni stereotipo sul diverso, ogni corteccia che ci chiude, ogni sovrastruttura mentale e ideologica?
    L’altro è terra santa. Avvicinati a lui con delicatezza, con i tuoi passi nudi, con devozione.
    Il roveto ardente non è solo lassù, sulla cima dell’Oreb: c’è un roveto ardente in ogni essere umano, un roveto che arde e non si consuma, un roveto davanti al quale occorre davvero denudarsi i piedi, togliersi i sandali e ciò che essi simboleggiano: la rinuncia ad ogni forma di dominio e di supremazia.
    Siamo chiamati cioè a entrare nella Terra Santa della relazione a piedi nudi. Occorre nudità di piedi e di anima, delicatezza e massimo rispetto per ascoltare l’altro nella sua diversità e unicità. Per ascoltarne il grido sommerso. Occorre entrare a piedi nudi e come sui carboni ardenti nel mondo interiore dell’altro.
    L’altro è da conoscere nella sua storia, nei suoi percorsi, nelle sue ferite e nelle sue speranze. Lo stile eucaristico è proprio quell’avvicinarsi a lui con altri occhi, oltre la prima impressione o il primo contatto, con occhi “contemplativi” e con cuore sgombro o, come dice la beatitudine, con “viscere di madre”, “beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt5,7), sentendo e guardando l’altro con l’antenna della mia fragilità, della povertà di cui ho fatto esperienza.
    Stare accanto ai poveri è perciò un dono, un dono di conversione prima di tutto; ma perché questo dono non si disperda, è necessario mantenere la purezza che abita la fedeltà di colui che serve: “noi serviamo i poveri o ci serviamo dei poveri? Nell’ottica cristiana, la fede in Cristo, il povero per eccellenza, può aprire il rapporto chiuso, di bisogno, tra me e il povero. Come? Ricordandomi che l’altro, nella sua alterità e il povero nella sua povertà, li posso incontrare grazie ad un mio spostamento, a un mio decentramento, a un mio esodo, a un mio farmi straniero. Si tratta di iniziare un cammino che mi fa uscire da me per entrare nella vita in Cristo e ad incontrare il povero in Cristo: così l’incontro con il povero manifesta la sua sacramentalità conducendomi a una maggiore conformità alla povertà di Cristo. Lì si verifica l’affermazione che il povero è sacramento del Cristo. Cogliendo il povero in Cristo situo il rapporto con lui in un’ottica di totale gratuità, dunque di libertà, e mi lascio toccare, coinvolgere, dalla sua condizione: mi lascio convertire” (Enzo Bianchi).
    Così l’accoglienza di Gesù Eucaristia mi trasforma. I padri della Chiesa dicevano spesso che, al contrario del solito mangiare, non sono io che trasformo il pane nella mia sostanza, ma sono io che sono trasformato da Cristo.
    Avviene qualcosa di simile nell’accoglienza dell’altro. Devo lasciare il posto a colui che incontro. Devo evitare di imporgli la mia presenza, le mie idee, i miei schemi. Devo lasciarmi educare da lui.
    Occorre che questo incontro sia uno spazio di libertà per poter diventare un momento di comunione, un incontro di cuore a cuore. Perché è nel cuore che si vive il mistero della comunione mediante il dono reciproco.
    Il “deporre le vesti” da parte di Gesù sta a dire che in quel momento Egli guardava con altri occhi Giuda, ma anche Pietro e ognuno dei suoi e si spogliava del peso delle aspettative su di loro, e deponeva sui loro piedi un bacio. In quel momento la Rivelazione di Dio stava in un bacio.
    Colui che si presenta alle porte delle nostre comunità non è una cifra, un caso, una notizia, un piede sporco. È il volto di un figlio, di una figlia, che aspetta un bacio, un abbraccio, un’attenzione espressa con delicatezza, con una devozione simile a quella di Mosè nel togliersi i sandali e avvicinarsi all’Oreb, come ciascuno di noi quando si mette davanti alla Presenza eucaristica. Prima di ogni cosa, di ogni teorico valore, di ogni alto ideale, ci sono i nomi, i volti, le storie: non i poveri generici, ma coloro che incontro; non i malati ma i volti segnati dal dolore di ciascuno di essi; non i problemi sociali, ma la storia concreta di chi si incontra sul cammino.
    Ma quanta fatica in questo percorso! Ricerca del volto, contemplazione del volto: scrigno di tenerezze e di paure, di solitudini e di speranze.
    Nell’Offertorio che precede la consacrazione dell’Eucaristia offriamo, con il grano frutto della fatica e del lavoro, anche la fatica reale di tutte le vittime ferite dalla vastità del nostro egoismo, che non trovano posto neppure sotto i tavoli dei banchetti delle nostre città.
    Contemporaneamente mettiamo sulla patena anche le fatiche e il lavoro di tanti laboriosi operai dell’amore che, nelle nostre città e nei nostri territori, usano sapientemente lo stile eucaristico dell’accoglienza, della giustizia, della solidarietà. Questi sono la città che si alza, lasciando le tavole rassicuranti delle nostre affinità di amicizia, delle nostre comodità, dei nostri compromessi; lasciando soprattutto le tavole del potere. Sono la coscienza cittadina che si eleva. Significa liberarsi dalla rassegnazione, rompere con lo stile della delega, riappropriarsi della città, non sopportandola ma vivendola.
    Per tutti noi questo stile è sempre da ricercare e da riverificare, siamo obbligati ad una continua verifica sui nostri ritardi e sui nostri ruoli: “Tu lavi i piedi a me?”, sulle nostre difficoltà a capire lo stile suggeritoci da Gesù: “Tu ora non puoi capire…”.
    Ma Gesù ha fiducia che ciascuno di noi ce la può fare anche quando sembra un discorso eccessivo: “Siate perfetti come è perfetto il Padre...” non è un invito a diventare perfezionisti o a puntare tutto sul merito delle nostre azioni. È una spinta a puntare alto, con altri occhi, come l’autore della lettera agli Ebrei dice dello sguardo di Mosè, che rimaneva saldo, fedele, non scappando dalle difficoltà, e che andava avanti “come se vedesse l’invisibile”, ciò che ancora non si vede, non si è capaci di realizzare, ma che contemplo oltre … come la Presenza di Gesù oltre il pane che rende possibile il sacramento.
    Accogliendoci alla sua mensa, Gesù ci esorta a diventare accoglienti di fronte ad ogni persona, comunque sia: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini … invita poveri, storpi, zoppi, ciechi”.
    Scopriamo così la verità del Vangelo, l’eterna provocazione per la nostra vita: l’ultimo che si sente atteso. Beati voi poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell'altra vita! Beati, perché c'è più Dio in voi, c'è più libertà. Beati perché custodite la speranza di tutti. Dove il povero comincia a vivere, dove il povero comincia a liberarsi, dove gli uomini sono capaci di sedersi attorno ad una tavola comune per condividere ciò che possiedono … lì Dio è presente. “Beati quelli che sono nel pianto. Felicità e lacrime mescolate insieme, forse indissolubili. Dio è dalla parte di chi piange ma non dalla parte del dolore! Il Signore è con te. Dio non ama il dolore, è con te nel riflesso più profondo delle tue lacrime per moltiplicare il coraggio, per fasciare il cuore ferito, nella tempesta è al tuo fianco, forza della tua forza. La bella notizia è che Dio cammina con te, senza condizioni, per guarire ogni male, per curare le ferite che la vita ti ha inferto, e i tuoi sbagli d'amore. Dio è con te e guarisce. Dio è con te, con amore: la sola cosa che guarisce la vita.” (Ermes Ronchi). E dal domicilio dei poveri, si sprigiona un forte potenziale evangelizzatore, che restituisce la speranza alla città.
    Come l’Eucaristia aiuta a costruire fraternità, una sola famiglia umana senza escludere da questa fraternità che è la Chiesa nessuno tra chi è povero, immigrato, rifugiato, diversamente abile?
    È bello pensare alla vocazione di noi, Chiesa, ad essere segno di cattolicità, cioè di universalità.
    Il sogno di Gesù è quello di una famiglia umana unica, se pur diversificata in popoli, culture, linguaggi e anche ricerche spirituali diverse. Là dove si nega la diversità si uccide la libertà, dono alto di Dio.
    Oggi tante leggi e tante scelte sono anti-cattoliche perché vanno contro il progetto cristiano del bene comune che si costruisce abbattendo le diseguaglianze, e nel rispetto devoto della dignità di ogni uomo e di ogni donna, e non certo perché possono mettere a rischio i proventi dell’8 per mille o ridurre il finanziamento per le scuole cattoliche o l’insegnamento della religione.
    Il progetto di Gesù va affrontato anche malgrado le povertà dei suoi protagonisti, quando siamo incapaci di vedere opportunità positive in scenari nuovi. Non devono servire a questo la politica, l’economia, la scienza, e anche la spiritualità religiosa? Non devono essere al servizio delle persone che vanno incluse, non escluse? Che la nostra preghiera davanti all’Eucaristia si faccia domanda umile di poter capire i segni della nostra vita e anche i segni dei tempi.
    Spezzare il pane e riceverne un pezzo, riempire il calice e berne un sorso, è spezzare la solitudine, è bere la solidarietà, è accrescere la fraternità, una fraternità universale.
    “Questo è il calice del mio sangue versato per voi e per tutti:
    “Per voi e per tutti”: nel contempo l’amore di Gesù è per il gruppo ristretto dei presenti, gli apostoli, e per l’insieme degli uomini. Il nostro amore deve avere questa duplice dimensione. Un amore soltanto universale potrebbe essere un sentimento vagamente cordiale per l’umanità intera, ma incurante delle persone più vicine, e quindi sarebbe un amore vuoto e senza senso.
    Un amore rivolto soltanto al gruppo degli amici rischia di rimanere chiuso su di sé, escludendo quelli che, per qualche motivo, sono lontani, diversi.
    Se, come dice il Concilio Vaticano II, la chiesa è “segno e sacramento dell’unità del genere umano”, la comunità ecclesiale rimanda a un’altra comunità, a un’altra casa, una comunità alla quale apparteniamo in modo più fondamentale, una casa dove scopriamo la nostra identità più profonda, ed essa è l’umanità intera.
    Certo la chiesa è una comunità, ma non può rimanere chiusa in se stessa, come se fosse la comunità a cui tutti siamo destinati. È una comunità che deve additare al di là di se stessa. Se dà l’impressione di costituire un fine a se stessa non sarà più sacramentale.
    San Bonaventura, con audacia, parla di Dio come di un centro che è in ogni luogo e la cui circonferenza non è in alcun luogo. Non dobbiamo creare una struttura caratterizzata soltanto da centri, fossero anche luoghi sacri, dove gli uomini si radunano.
    Gesù dice alla donna samaritana che la vera adorazione non è legata a luoghi, perché i veri adoratori adorano in spirito e in verità. Anche l’adorazione eucaristica non può essere circoscritta solo nel luogo sacro. O meglio, con Gesù, centro e periferia non si distinguono più.
    Un altro samaritano sta compiendo un viaggio che lo conduce lontano da Gerusalemme, ossia dal tempio, il luogo sacro. Ma ciò che fa è una nuova forma di liturgia: il prendersi cura dell’uomo ferito. E ci consegna un nuovo decalogo, misura dell’amore: 1. lo vide. 2. si mosse a pietà. 3. si curvò su lui. 4. gli fasciò le ferite 5. gli versò olio e vino 6. lo caricò sul suo giumento,il che vuol dire che scese da cavallo 7. lo portò al tutti-accoglie. 8. si prese cura di lui 9. pagò per lui. 10. ritornò indietro a pagare …
    L’Eucaristia, il nostro culto, non può limitarsi ai centri sacri, ma si celebra anche in periferia, sulla strada.
    Come potrebbe essere diversamente dal momento che nella Trinità stessa il centro è in ogni luogo e la circonferenza non è in alcun luogo. È una rete di scambi continui di amore tra le tre Persone divine. Siamo chiamati a tessere una rete analoga nel mondo degli uomini.
    Una delle più antiche Preghiere eucaristiche, quella della Didaché, recita queste parole: “Come questo pane spezzato era sparso sui colli e, radunato, è diventato uno, così sia radunata la tua chiesa dalle estremità della terra nel tuo Regno”.
    L’impasto del pane consiste nel continuo stendere la farina e poi radunarla al centro, e stenderla di nuovo, e così via. Cioè c’è un lungo processo di portare i margini al centro e poi espandere il centro ai margini. Questo interscambio di centro e di margine non è forse la comunità che vuole Cristo, colui nel quale e per il quale non c’è centro e periferia?
    Nell’eucaristia facciamo memoria di Colui che è stato portato via dalla città, fuori le mura, insieme agli emarginati della società. Ma “la pietra rigettata è diventata pietra angolare”.
    Al centro dell’Eucaristia sta Colui che è stato espulso, escluso. Come potremmo essere cristiani, come potremmo vivere del pane eucaristico senza andare verso tutti coloro che sono espulsi, spinti ai margini? Ma anche verso coloro che si sono allontanati per sfiducia, per stanchezza, e per perdita di speranza? Senza abbattere le barriere che separano e creano gli esclusi, che alimentano la miseria, che creano i poveri? Senza farsi prossimi … prossimo?
    Credo che siano proprio loro, i poveri, che ci restituiscono la fede, cioè il cuore della Chiesa. Una Chiesa vicina ai poveri è una Chiesa che dimostra la sua fede, prima ancora della sua carità. È una Chiesa che sa leggere l’autenticità della presenza del suo Signore. Anzi, non possiamo parlare di carità se prima non si recupera il cuore alla fede. È di fede, prima ancora che di carità, che la Chiesa ha oggi tremendamente bisogno. Ed il povero, l’ultimo, compie questo miracolo.
    Ecco perché nella mia vita ho sempre sentito il servizio ai poveri, lo stare in mezzo a loro, e l’adorazione eucaristica come volti complementari di uno stesso significato. Quell’Ostia che adoriamo rimanda a quelle mani che bussano, e quel pane spezzato rinvia a quel bisogno di giustizia sociale che scuote il mondo.
    Ho davanti a me l’immagine della povera vedova del Vangelo: di questa donna non conosciamo né il nome né il volto, non conosciamo i suoi occhi, ma conosciamo il suo cuore, con i suoi battiti strani, quelli della solitudine, della povertà, ma anche della speranza. Ed è su di lei che si posano gli occhi di Gesù. Gesù non bada alla quantità di denaro, anzi sembra affermare che la quantità è un’apparenza, non è sostanziale. La donna avrebbe potuto tenere una moneta per sé offrendo solo l’altra, invece dona tutto. E Gesù annota: questa donna ha dato tutto ciò che aveva per vivere. La povera vedova fa qualcosa di illogico: un’ultima offerta, che annulla il futuro, che brucia il domani in un atto di donazione e poi … poi per vivere rimane solo la possibilità dell’impossibile.
    “C’è più vita nel grido di un uomo ferito che in tutti i libri. Il miracolo è avanzare nella vita senza miracoli, con pane e acqua, in semplicità. La speranza viene a noi come povertà, non come miracoli”.(E. Ronchi). “E la speranza continua a vivere anche quando sembra impossibile, anche quando è come annegata dalle lacrime. Dio naviga in un fiume di lacrime, e lì accende il cuore. Dove tutto si ferma, lì Dio riparte” (D. Turoldo).
    “Che questa stessa fede smisurata possa donare alla Chiesa il coraggio di uscire dagli accampamenti tutte le volte che si attarda all’interno delle sue tende dove non giunge il grido dei poveri. Nomade come Maria, che porti nel cuore una grande passione per l’uomo. Vergine gestante come Maria, che apprenda la geografia della sofferenza. Madre itinerante, come Maria, che sia piena di tenerezza verso tutti i bisognosi e di nient’altro sia preoccupata che di presentare Gesù Cristo, come Maria fece con i pastori, con Simeone, con i magi d’oriente e con mille altri anonimi personaggi che attendevano la redenzione”. (Don Tonino Bello)
    Una parola eucaristica da comunicare e a cui educare dentro la città abbandonata di oggi.
    La prendo da don Tonino Bello:
    “Il Signore si serve di vecchie ciabatte
    per farne calzari di angeli
    e di vecchi stracci
    per farne tovaglie di altare”


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