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    Diventare cristiani

    Il sacramento dell’iniziazione cristiana

    Andrea Bozzolo 

    Il recupero, relativamente recente, della nozione di iniziazione cristiana, pur sprovvisto di una più precisa e consensuale determinazione teologica,[1] suggerisce però l’esigenza di una comprensione dei sacramenti che, sottraendoli al tendenziale isolamento in cui li relegava la sintesi manualistica, ne mostri meglio l’intrinseco riferimento alla storia del soggetto. Appartiene infatti alla stagione più recente della sacramentaria, inaugurata dalla riflessione teologica di Odo Casel, il superamento di una prospettiva teorica che elaborava l’intelligenza critica del sacramento a partire dall’analisi delle sue componenti, individuate fondamentalmente e non senza difficoltà [2] nella materia e nella forma che costituiscono il segno sacramentale.

    Di là delle più ampie riserve che possono essere sollevate nei confronti della sacramentaria del manuale, certamente deve essere imputato alla sua sistematizzazione dei dati teologici una prospettiva che la critica giudica consensualmente “oggettivistica”, poiché interpreta il sacramento attraverso categorie desunte dall’osservazione del mondo materiale e tralascia di integrare come componente intrinseca dell’accadimento liturgico la vicenda personale del credente. Il termine stesso “amministrazione”, infatti, lascia trasparire abbastanza chiaramente l’idea che il sacramento si distingua dall’applicazione che se ne fa al soggetto, e dunque possa essere pensato a monte del coinvolgimento della libertà del singolo e a prescindere dalla sua storia.[3]

    La correzione proposta dal movimento liturgico, e autorevolmente accolta dal Magistero, senza rinnegare nulla di quanto è stato guadagnato dalla riflessione precedente, ha ormai indirizzato la teologia a pensare i sacramenti in un’altra prospettiva, facendo valere l’esigenza di assumere come categoria fondamentale per l’intelligenza dell’atto sacramentale quella di “celebrazione”. I sacramenti sono celebrazioni, ovvero, anzitutto, azioni: di Cristo e della Chiesa.

    E conseguentemente essi rimandano immediatamente ai soggetti che le compiono e che compiendole entrano in rapporto, mettendo in gioco la loro libertà.

    In questa prospettiva, il rito sacramentale non appare quasi una realtà autonoma, chiusa in se stessa e autoreferenziale, ma è identificato nella sua strutturale apertura alla storia: la storia di Gesù Cristo che ne è all’origine e la storia della Chiesa che ne è il frutto. In altre parole, i sacramenti sono le azioni attraverso cui il Risorto plasma la storia degli uomini, ponendoli in comunione con il suo mistero pasquale e dando loro la forma della sua carità.

    È chiaro che in questa prospettiva il sacramento non può più essere pensato a monte della storia del soggetto, come se potesse esistere anche indipendentemente da lui. Indipendentemente dal soggetto esiste ovviamente Gesù Cristo e la sua storia, ma non il sacramento, che è invece il luogo paradigmatico e originario della comunione (asimmetrica) tra la storia del credente e Gesù. Di conseguenza, l’avvenire del sacramento nella sua autenticità richiede non soltanto l’attuazione del rito, ma che nel rito si realizzi quella comunione con il Signore esemplarmente attestata dall’episodio dei discepoli di Emmaus. Il che può avvenire solo all’interno di un cammino più ampio, che non è semplicemente “altra” cosa e che non può avvenire secondo un’“altra” logica.

    È da questa precisa consapevolezza di fede, dunque, che nasce l’esigenza di articolare meglio l’educazione praticata dai credenti con le celebrazioni sacramentali in cui essi riconoscono e realizzano la verità della loro storia. Non per affermare che i sacramenti sono soltanto il coronamento cerimoniale di un cammino avvenuto altrove, ma al contrario per far valere che sono il momento decisivo e insostituibile per il riconoscimento del Signore nella nostra vita (si pensi, appunto, ad Emmaus e all’aprirsi degli occhi dei discepoli). Nei sacramenti, in altre parole, si realizza in forma differenziale e paradigmatica quella dinamica di incontro tra libertà dell’uomo e verità di Dio che è continuamente sollecitata dalle circostanze quotidiane dell’esistenza e di cui la nascita, i rapporti parentali e educativi costituiscono una (splendida o distorta) prefigurazione.

    Al punto che per dire ciò che avviene nel Battesimo si parla di una nuova “nascita” dall’acqua e dallo Spirito, che rende “figli” di Dio e della Chiesa.

    Né i sacramenti, dunque, possono essere più pensati come realtà a sé stanti, indipendenti dalla storia dell’uomo – come se la nascita “da acqua e da Spirito” non avesse un profondo legame con la nascita “da papà e mamma”, o come se il “pane eucaristico” non avesse a che fare con il “pane quotidiano” –, né il cammino educativo può essere impostato come se si trattasse semplicemente dello sviluppo di una libertà autoreferenziale. Il sacramento non si contrappone alla storia dell’uomo come un ente estraneo, ma assumendo pienamente la dinamica antropologica della libertà, ne realizza il compimento eccedente. E dunque tutt’altro che inserirsi nella vita con il ruolo ornamentale di una cerimonia, viene a plasmare tutti i rapporti dell’esistenza, affermando che il modo in cui si diventa cristiani (iniziazione cristiana) ha da configurare il modo in cui si diventa uomini (educazione).

    I disagi derivanti dall’irrelatezza tra educazione e iniziazione all’interno della prassi diffusa sono stati già denunziati dai contributi precedenti, a cui rinviamo.

    In particolare è già stata rilevata [4] la necessità di superare la distanza tra educazione e iniziazione attraverso un supplemento d’analisi antropologica, per mettere meglio in luce come la dinamica che conduce al compimento della libertà non possa prescindere dalla forma dei legami e dei simboli che sono disposti dall’itinerario iniziatico. Il nostro intervento vorrebbe suggerire, in certo senso, il percorso complementare, mostrando come l’evento cristologico stesso comporti al proprio interno l’attuazione della libertà e come la forma sacramentale del rapporto con il Signore intenda esattamente promuovere una precisa determinazione degli itinerari educativi.

    In questo modo, pensiamo di raccogliere anche l’eredità spirituale di uno dei più grandi educatori della tradizione cristiana, S. Giovanni Bosco, che affermava che il suo sistema educativo era fondato sui sacramenti. Evidentemente non soltanto nel senso materiale di integrare all’interno della relazione educativa una frequentazione cospicua dei riti ecclesiali, ma anche nel senso più radicale di pensare l’attuazione della crescita dell’individuo secondo la logica, di cui quei riti sono il simbolo reale: la dedizione di sé.

    Articoliamo la nostra riflessione in due momenti, dedicati rispettivamente (1) al chiarimento teologico della forma dell’evento cristiano e del suo rapporto con il sacramento e (2) alla proposta di alcune indicazioni pastorali, in vista di un’integrazione più incisiva tra percorso iniziatico e itinerari educativi. 

     

    1. LA RIFLESSIONE TEOLOGICA.

     

    1.1. La forma dell’evento 

    La tesi fondamentale da cui prendono avvio le nostre considerazioni è che la forma essenziale del cristianesimo è quella di un evento che non avviene soltanto di fronte alla libertà, ma si compie attraverso il suo consenso, così da raggiungerla non come un oggetto esterno da conoscere, bensì come un mistero in cui riconoscersi coinvolti. C’è un ordo divino (una giustezza del vivere, un senso dell’essere al mondo, una destinazione del desiderio, una vocazione della libertà) che in Gesù giunge alla sua piena manifestazione/realizzazione, ma che s’illumina soltanto dal di dentro della decisione per Lui e dell’appartenenza a Lui. I segni che Gesù compie rivelano in maniera univoca un desiderio tenace e irremovibile di destinarsi alla nostra cura (la lieta notizia ai poveri, la liberazione ai prigionieri, …), eppure mentre essi fanno balenare la splendida  luce del Regno, manifestano contestualmente l’oscurità da cui molti cuori sono ottenebrati, al punto da non riuscire a vedere. La pagina evangelica di Gesù nella sinagoga di Nazareth è emblematica al riguardo: allo splendido annuncio del compimento della parola messianica si contrappone l’ostilità di chi, in nome delle proprie pretese, non riesce a riconoscere la venuta di Dio – l’hic et nunc del Regno – nella forma in cui essa si propone. E così l’evento della salvezza viene destinato ad altri, che come la vedova di Zarepta o Naaman il Siro non vantano nessun credito, ma, seppur a fatica, si aprono con disponibilità alla novità divina.

    L’idea che emerge con chiarezza dalla narrazione evangelica è dunque che il darsi stesso della comunicazione di Dio agli uomini avviene già sempre nel pieno coinvolgimento degli uomini stessi: sicché anche le più consuete formule della predicazione, che utilizzano il linguaggio della “proposta” e della “risposta”, rischiano di introdurre qualche eccessiva semplificazione, nella misura in cui suggeriscono l’idea di due realtà autonome e successive. Questo modo di comprendere l’evento della rivelazione non dovrebbe causare particolari difficoltà, se si tiene conto che una delle idee fondamentali suggerita dal rinnovamento degli studi biblici è quella di “storia della salvezza”, ovvero l’idea che il dispiegarsi della rivelazione divina ha la fisionomia concreta di una trama che unisce in un’unica tradizione spirituale molte avventure umane. E così, per conoscere la rivelazione “di Dio”, noi guardiamo alla storia “di Abramo”, “di Mosè” e “dei profeti”, e a tutta la storia successiva di Israele: fino al momento in cui questa forma inclusiva degli eventi salvifici giunge al suo culmine di realizzazione e di visibilità.

    Ci riferiamo ovviamente all’evento dell’Incarnazione, in cui dobbiamo ammirare lo splendido intrecciarsi di iniziativa divina e consenso umano, in una forma tale che la corrispondenza dell’uomo appare essenziale alla stessa realizzazione dell’iniziativa di Dio. La fede di Maria, infatti, pur non essendo evidentemente l’origine dell’evento dell’incarnazione e pur attuandosi essenzialmente nella forma dell’accoglienza e della docilità, ha però un ruolo intrinseco nel concepimento di Gesù, così che il pieno compimento del donarsi di Dio agli uomini può avvenire soltanto attraverso il pieno coinvolgimento della libertà umana, nella sua punta creaturale più alta: la Vergine Immacolata. Di più ancora, l’apparire della stessa Verità di Dio nella storia (“io sono la via, la verità e la vita”) avviene di fatto nella forma della perfetta libertà di un uomo come nessun altro, così che il luogo in cui rintracciare i tratti del vero volto di Dio è identificato proprio dalle scelte di amore della libertà di Gesù (“chi ha visto me, ha visto il Padre”).

    Questa logica, che include gli uomini nella realizzazione dell’evento salvifico e pensa la conoscenza secondo la prospettiva biblica della partecipazione (più che secondo quella moderna delle idee chiare e distinte del soggetto), si ripete continuamente nella vicenda terrena del Signore e viene narrata puntualmente in ogni passo del Vangelo. Ai primi discepoli che vogliono conoscere Gesù, egli non presenta anzitutto una precisa esposizione dottrinale del suo mistero, ma piuttosto un invito ad andare con Lui, come condizione essenziale per vedere chi egli è. Alla Samaritana che parte con un atteggiamento sostanzialmente diffidente, se non ostile, Gesù si fa conoscere coinvolgendo la sua libertà in un dialogo che la porta poco per volta all’interesse e poi alla messa in discussione delle scelte della sua vita (i cinque mariti), per farle riconoscere che Colui con cui sta parlando è proprio il Messia: non per rimandare la comunicazione della sua identità – ché anzi Gesù affronta subito il problema: “Se tu sapessi chi è Colui che ti chiede da bere …” – ma perché non è possibile rivelare l’identità dell’amore, se non attraverso l’instaurazione di un’intesa. Il cammino di graduale consegna della libertà alla luce folgorante in cui appare l’umanità di Cristo, infatti, è condizione essenziale per conoscere la sua identità, che non può essere semplicemente comunicata attraverso le risorse del pensiero rappresentativo”.

    Ciò avviene perché la manifestazione teologica della Verità non è l’ostensione di una necessità predeterminata, ma la rivelazione di un regime dell’amore.

    Se la condizione del vivere fosse l’appartenenza ad un regime fatalistico della necessità, esso potrebbe venire comunicato come una formula da registrare e uno stato di cose cui adeguarsi, ma non vi sarebbe spazio per la libertà.

    Il cristianesimo, invece, ha la forma della manifestazione di un regime del senso, di cui la libertà dell’uomo è parte, in cui essa è graziosamente ospitata, a cui essa è abilitata. E proprio per questo, essa non può conoscerlo dall’esterno, senza prendervi parte. Dio non è un “oggetto” da conoscere, ma un mistero in un cui riconoscersi; Dio non è semplicemente un interlocutore esterno della nostra libertà, ma ne è il fondamento; Dio non ci ha creati come un’appendice esterna al suo mistero, ma ci ha posti all’interno della sua comunione trinitaria: creati “nel” Figlio per essere rivolti/uniti al Padre con l’unico Spirito.

    Possiamo dunque concludere la nostra rapida considerazione della forma dell’accadimento cristiano, citando le parole di un autore che asserisce: “Superando la concezione, di derivazione moderna, del rapporto soggetto/oggetto, si deve anzitutto affermare che l’evento non è riducibile a un “oggetto” cui guardare ai fini di conoscerlo. L’evento, infatti, conservando l’obiettiva densità del reale, implica un atto di libertà che, proprio perché tale, chiama la libertà dell’interlocutore a prendervi parte”.[5].

     

    1.2. Il senso del sacramento 

    È proprio per questo che al centro della vita cristiana non c’è una dottrina teorica o una disciplina morale, ma la celebrazione sacramentale dell’eucaristia.

    Essa ha un ruolo intrinseco e costitutivo per la fede, tanto da configurare essenzialmente la forma e costituire simbolicamente il nucleo della sua piena attuazione.

    Attuata nella forma dell’eucaristia, infatti, la fede non appare anzitutto come adesione a una verità teorica, comunicabile semplicemente per via di istruzione catechistica, ma come adesione all’evento pasquale di Cristo, che si realizza nella comunione con il suo Corpo e nell’accoglienza del suo Spirito. La vita cristiana, alla luce dell’eucaristia, pare “immediatamente” determinata dall’iniziativa storica del Signore, che nella modalità del sacramento (e dunque attraverso la “mediazione” e il coinvolgimento della Chiesa) viene a raggiungere personalmente il nostro presente.[6]

    Diventare cristiani significa avere a che fare con la persona di Gesù, con il suo vero Corpo che si fa incontrare e conoscere da noi: non però semplicemente nella forma di un oggetto di fronte a cui porsi, bensì nella forma di un evento liturgico che rende noi partecipi di quel Corpo, ovvero ci coinvolge in esso. Non è possibile dunque conoscere la Verità del Corpo del Signore, se non venendo a farne parte con la libera adesione al suo mistero. Sicché come nell’incarnazione l’avvento del Signore avveniva nel coinvolgimento della fede di Maria, nell’eucaristia il costituirsi della presenza di Cristo avviene attraverso il coinvolgimento della fede celebrante della Chiesa. E per questo la piena comprensione del senso dell’eucaristia non si ha semplicemente quando si afferma che è presente il Corpo del Signore, bensì quando si riconosce che Corpo del Signore siamo chiamati a diventare noi, sua Chiesa, attraverso il coinvolgimento personale nel mistero pasquale che l’eucaristia rende possibile ed esige.

    D’altra parte, attuata nella forma dell’eucaristia la fede non appare neppure identificabile soltanto con una disposizione etica della libertà e con la forma di un agire virtuoso, perché proprio la celebrazione rivela il fondamento metaetico dell’etica e l’esigenza che l’agire della libertà riconosca il proprio debito nei confronti di una Grazia che assolutamente la precede e la abilita ad essere se stessa. È per questo che la celebrazione sacramentale non ha semplicemente la forma dell’agire spontaneo o dell’esecuzione del comandamento, ma piuttosto quella della configurazione credente della libertà, che nell’obbedienza al volere del Signore, si realizza come azione attraversata dalla Grazia: diversa dall’espressione di sé e dalla pura osservanza della rubrica.

    Non sarà dunque possibile pensare la struttura essenziale della vita cristiana né semplicemente sulla linea di un’adesione dottrinale, cui seguirà successivamente la pratica etica, né come abilitazione pratica indifferente alla vera origine della libertà. In entrambi i casi il sacramento apparirebbe un aggiunta estrinseca, concepita per lo più in termini strumentali: il mezzo di grazia che dà energia operativa ad un dinamismo a cui rimane essenzialmente estraneo.[7]

    La struttura della vita cristiana, piuttosto, dovrà essere pensata con lucidità sulla linea dell’evento cristologico sopra tratteggiato e dell’evento sacramentale che ne consegue: come forma del coinvolgimento della libertà dell’uomo nella Verità ospitale di Dio, identificata dalla storia di Gesù. Coinvolgimento che ha figura pratica, simbolicamente configurata dal sacramento: come atto di grata accoglienza di Lui e di fiduciosa consegna di sé, illuminato dalla parola e realizzato nella carità. E in questo senso è chiaro che il sacramento non esaurisce in sé la vita cristiana, come se esso fosse una realtà autonoma e a sé stante, ma piuttosto la istituisce, così che il cristianesimo non deve essere identificato “con” l’eucaristia, ma piuttosto “a partire” da essa.[8]

    Coerentemente il cammino in cui i sacramenti dell’iniziazione vengono ad inserirsi come momento nodale ed essenziale di accesso alla vita cristiana non potrà essere pensato né come un corso dottrinale, di cui il sacramento rappresenta – si passi il termine – il “diploma” finale, né come l’animazione creativa, di cui il sacramento rappresenta un momento particolarmente “espressivo”.

    Proprio il modo in cui il sacramento articola insieme il darsi della verità di Dio e della libertà dell’uomo, nella figura di un coinvolgimento intrinseco e asimmetrico nell’evento della salvezza, dovrà suggerire una forma storica di accesso alla vita cristiana che eviti di appiattirsi tanto sul modello della comunicazione noetica (la “scuola” di catechismo, fatta nell’“aula” di catechismo, dalla “maestra” di catechismo, nell’“ora” di catechismo) quanto su quello dell’attivazione prassistica (il “gruppo” di “compagni” che viene “animato” a fare “esperienze”).

    Ma prima di entrare nel merito di queste riflessioni pastorali, è ancora necessario che ci soffermiamo a considerare brevemente la dinamica teologica ed antropologica con cui i sacramenti dell’iniziazione cristiana si realizzano..

     

    1.3. L’iniziazione cristiana 

    Da quanto abbiamo finora illustrato, dovrebbe apparire chiaro che lo statuto originario della fede, quale appare eminentemente nella celebrazione dell’eucaristia, è quello del coinvolgimento della nostra libertà in un evento posto da un’altra libertà, che è evidentemente la libertà del Signore. Coinvolgimento che non è puramente estrinseco ed accessorio, ma talmente conveniente alla res, che il Signore l’ha predisposto nell’Ultima Cena come grembo simbolico in cui deporre il contenuto autentico del suo sacrificio. Così che gli apostoli vengono fin da subito inclusi nell’evento della morte del Signore, non puramente come spettatori esterni, ma attraverso un coinvolgimento sacramentale che, pur in assenza di una piena e immediata consapevolezza dottrinale, viene a costituire la forma determinante della relazione postpasquale con il Signore.

    Così che intorno alla memoria di Gesù realizzata nella fractio panis la comunità primitiva definirà la propria distinzione dal culto giudaico e l’edificazione della nuovo popolo di Dio.

    Questa dinamica di coinvolgimento in un evento posto da un’altra libertà, peraltro, non costituisce una sorta di aggiunta estrinseca che il sacramento verrebbe a realizzare nei confronti di una coscienza che altrimenti dovrebbe essere pensata semplicemente in termini di soggettività assoluta, ma è la piena e incomparabile realizzazione di un legame di reciprocità e dipendenza che rappresenta fin dall’inizio l’unica forma umana di essere al mondo. A livello esistenziale essa può essere descritta come la dipendenza costitutiva per cui l’uomo esiste soltanto in quanto figlio, e quindi in forza di un’iniziativa non sua, e cresce nella ripresa personale di un ordine simbolico (culturale, sociale, religioso…) in cui si trova già “implicato”. In altre parole, il costituirsi stesso della nostra libertà ha originariamente la forma del legame con la libertà di altri: in primis i genitori, che non costituiscono soltanto la “causa iniziale” di un processo di crescita, che poi avviene semplicemente per sviluppo individuale, ma sono (insieme alle altre figure che vengono ad affiancarli) il termine continuo di un rapporto, entro cui ciascuno di noi diventa un “io”. E questo significa che l’attuazione della libertà ha già originariamente la figura della condivisione di una storia, in cui si è chiamati in causa da altri, nei confronti dei quali si mantiene a lungo una strutturale dipendenza.

    Se questa è la struttura antropologica dell’esistere, bisogna riconoscere che l’iniziazione cristiana viene a dare a questa struttura il compimento indeducibile ed eccedente in vista di cui essa esiste (cf il tema teologico della “predestinazione in Cristo”[9]): la storia in cui l’uomo viene coinvolto è quella di Gesù,ovvero non soltanto la storia in cui Gesù ha vissuto, ma la storia che trova in Lui il proprio centro, il proprio fondamento e il proprio destino. Sicché l’iniziazione cristiana fa conoscere all’uomo (non semplicemente nel senso moderno del “sapere”, ma nel senso biblico del “rendere parte”) che ciò da cui la sua libertà dipende non è un destino fatalistico (pensato come necessità biologica della specie, come cieca casualità dell’esserci, come momento dialettico dello Spirito assoluto o della società marxista, e neppure come indecifrabile struttura inconscia…), ma è l’iniziativa della Trinità. Il senso che egli deve riprendere personalmente come attuazione della propria libertà è quello realizzato nell’evento della Pasqua del Signore, in cui, non a caso, i sacramenti dell’iniziazione cristiana, celebrati esemplarmente nella veglia pasquale, “innestano”: “per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”. Il Corpo in cui egli è chiamato a vivere è il Corpo di Gesù: “poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo”.

    La celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana è dunque proprio il modo in cui i genitori – e tutta la comunità in cui il bambino si trova ad essere coinvolto – si relativizzano a Gesù, indicando in Lui l’unico Salvatore a cui la vita deve essere consegnata e riconoscendo che Egli è il Risorto, presente con noi tutti i giorni per abilitarci a vivere come membra del suo corpo. I genitori e la comunità ecclesiale tutta nell’attuazione del sacramento dichiarano così che il loro ruolo non è fondativo del senso del vivere, ma piuttosto testimoniale:[10] i credenti – ciascuno con il suo ruolo e il suo compito – costituiscono la mediazione che propizia un incontro personale con Gesù che non può essere sostituito da niente e da nessuno. I sacramenti dell’iniziazione, dunque, attestano con chiarezza che i cristiani possono essere fatti solo da Gesù Cristo, che rende personalmente disponibile la partecipazione al suo mistero, e che questo effettivamente avviene nella forma sacramentale corrispondente alla struttura antropologica della libertà.

     

    2.  L’AZIONE PASTORALE

     

    Le riflessioni fin qui svolte offrono soltanto alcuni elementi per l’intelligenza della struttura sacramentale dell’iniziazione, ma ci consentono già di assumere una postazione teorica sufficientemente precisa per l’osservazione e l’interpretazione della prassi pastorale corrente, al fine di farne emergere alcuni nodi problematici ed eventualmente qualche proposta di soluzione.

    I nodi problematici sui quali vogliamo richiamare l’attenzione sono essenzialmente tre e riguardano rispettivamente: 1) il ruolo che la celebrazione del 2.la liturgia ha nella vita della comunità cristiana, entro cui il soggetto è iniziato; 2) la modalità d’attuazione della catechesi che accompagna ai sacramenti d’iniziazione; 3) la forma in cui è realizzata in maniera più ampia l’educazione dell’iniziando, restringendo ovviamente l’attenzione alla situazione del fanciullo e del ragazzo ed escludendo da quest’analisi la problematica del catecumeno adulto..

     

    2.1. La celebrazione: l’effettività liturgica della relazione credente 

    La prima ed essenziale certezza che rende possibile parlare di sacramenti di iniziazione cristiana è che nei sacramenti il cristianesimo “avviene” e non soltanto “è rappresentato”. In altre parole non è possibile sostenere l’idea che si diventa cristiani attraverso la celebrazione di Battesimo/Confermazione/Eucaristia se non sullo sfondo della convinzione che in questi atti la vita cristiana viene effettivamente realizzata: nel suo nucleo simbolico e nella sua forma essenziale.

    E tutte le nostre considerazioni precedenti dovrebbero aver chiarito, almeno in nuce, come e perché.

    Di fronte al peso indubitabile di quest’affermazione teologica, la prassi pastorale però deve registrare un atteggiamento verso la liturgia che non sempre corrisponde a quanto sopra si è sostenuto. Se si considera il modo in cui i credenti di fatto attuano i riti liturgici, ci si trova non di rado di fronte a comportamenti che rivelano una concezione ampiamente inadeguata, che, schematicamente, può essere ricondotta a tre riduzionismi: (a) la liturgia come momento accessorio della fede; (b) la liturgia come momento cerimoniale della fede; (c) la liturgia come momento interlocutorio della fede.

    La prima figura è quella che trova concreta realizzazione in coloro che si dicono credenti non praticanti, ovvero che di fatto assumono soggettivamente come referente della fede un insieme (magari piuttosto confuso) di idee religiose, rispetto a cui i sacramenti rappresenterebbero semplicemente un’aggiunta occasionale, destinata ad “abbellire” alcune ricorrenze più solenni. Evidentemente sullo sfondo di questa pratica del momento rituale, che non di rado è quella anche dei genitori che chiedono l’iniziazione cristiana, non può avvenire di fatto una vera e fruttuosa iniziazione sacramentale, giacché l’attuazione del gesto sacramentale è avvertita come pienamente (o quasi) dissociabile dall’attuazione della vita cristiana. Il problema non può essere sottovaluto, se si considera quanti bambini, prima e dopo la fatidica Prima Comunione, non partecipano all’eucaristia domenicale, perché non vi partecipa la famiglia. La volontà di aderire al mistero celebrato, in questo senso, dovrebbe essere ritenuta come una condizione essenziale per la celebrazione del sacramento, che non può essere semplicemente supplita dalla frequentazione dell’“ora” di catechismo… se non a prezzo di ridurre il sacramento alla bella cerimonia che chiude il corso.

    La seconda figura corrisponde alla convinzione, difficilmente teorizzata, ma largamente pratica, che i simboli liturgici servano fondamentalmente più ad “evocare” la vita cristiana, che a “realizzarla”. Alla base di questa concezione c’è un’insidia che il rito porta sempre con sé, nella misura in cui i simboli di cui è costituito sono intesi più come una realtà che rimanda ad un significato concettuale, che come il modo di accadere di un rapporto. In questo senso, l’identificazione del cristianesimo che assume come referente immediato le idee cristiane porta già inscritta in sé la tendenza a considerare l’atto rituale semplicemente come il rivestimento immaginifico e edificante delle verità rivelate, che il dogma esprime con chiarezza. Così scriveva, ad esempio, un autore di inizio Novecento nella sua polemica contro il nascente Movimento Liturgico: la liturgia è solo “un’espressione sensibile e tradotta in immagine del dogma e della fede” e, dunque, “non è istruttiva e edificante per i fedeli se non in quanto è rappresentativa, figurativa, espressiva di verità già conosciute, praticate e vissute”.[11]

    Evidentemente in questa concezione, che oggi la teologia sente di dover ampiamente ridiscutere, non si può essere “iniziati” dai sacramenti, giacché essi vengono a funzionare, nel migliore dei casi, solo come espressione comunitaria della devozione privata. Di là dalle sue origini storiche, comunque, la forma oggi più diffusa di questa deriva “cerimoniale” del rito è quella che si esprime nell’inflazione di “gesti simbolici” (così li si chiama, ma è un uso “abusivo” dell’idea rigorosa di “simbolo”) con sui s’implementa l’atto sacramentale.

    Siamo infatti letteralmente inondati da una marea di azioni simboliche nei quali il cristianesimo è pletoricamente rappresentato (del tipo: “ti offriamo questa chitarra come segno del nostro impegno a portare gioia a tutti”), senza che poi accada gran che di tutto ciò che lì è “simulato” (perché poi la chitarra non viene regalata ad un povero, ma frettolosamente ritirata in oratorio: era solo… un segno). E così ci si abitua ad accostarsi alla liturgia, più come luogo da “arredare” con arte che come luogo da “praticare” con frutto, dimenticando che il sacramento non consiste nella moltiplicazione di simboli evocativi, ma nella realizzazione (bella ed accurata) di simboli reali, nei quali è in gioco niente meno che il Corpo di Gesù e il destino del credente (“chi mangia la mia carne ha la vita eterna”, ma anche: “ciascuno esamini se stesso”, perché “chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna”).

    La terza figura, affermatasi essenzialmente a seguito della vague che intendeva secolarizzare la liturgia,[12] è più difficile da riconoscere, perché fa leva su un’istanza pertinente e si sposa con la sostanziale difficoltà della cultura postmoderna a riconoscere il valore dei momenti istituzionali dell’esistenza. Intendiamo riferirci a quel modo di intendere la liturgia che la considera come momento puramente propedeutico della vita cristiana, e quindi come figura incompleta e in certo senso “sospesa” dell’agire. Nel sacramento, in altre parole, non avverrebbe il cristianesimo, ma solo la sua premessa rituale (sempre gravata dal sospetto di essere “inautentica”), nell’attesa che “la vita” (?), cioè gli altri momenti dell’esistenza – ma qui si pensa di fatto per lo più alle forme del servizio “concreto” – la traduca in realtà effettiva. L’istanza di verità di questa posizione è che il rito può effettivamente degenerare nel ritualismo, ovvero in un comportamento che ha soltanto figura cerimoniale, ma che non realizza al proprio interno alcun cambiamento effettivo. Ma questo non è il sacramento cristiano, bensì solo la sua già deprecata degenerazione. In ogni caso, non è affatto vero che il sacramento si proponga come momento puramente pedagogico e propedeutico, per una vita cristiana che sostanzialmente deve avvenire altrove.

    L’episodio altamente significativo dei discepoli di Emmaus, al contrario, mostra con estrema chiarezza quanto sia rilevante per l’apertura degli occhi dei discepoli l’attuazione del gesto (sacramentale) dello spezzare del pane. Questo ovviamente a patto che si riconosca che al centro del cristianesimo non c’è ciò che noi facciamo per gli altri, ma ciò che il Signore fa per noi, e a condizione che si riconosca che abbiamo bisogno di essere abilitati dal Signore a compiere gesti di carità, attraverso l’adesione al suo “dare la vita”. Certo, bisogna riconoscere che concorre a determinare questa concezione interlocutoria del sacramento anche un certo modo di celebrarlo, che non dà l’impressione che nell’eucaristia avvenga la fraternità cristiana e si compia la carità verso i poveri. Ma questi sono appunto i limiti della prassi corrente, che bisogna pazientemente e francamente correggere, e non la verità del sacramento.

    Evidentemente questi difetti della prassi e della mentalità, che riducono il quantum di vita cristiana che avviene nei sacramenti, rappresentano una ferita profonda nei confronti della loro rilevanza iniziatica. Una comunità che non “attua” la sua vita cristiana (l’adesione al Signore, la fraternità reciproca, la cura per i poveri) nell’esercizio del sacramento, come può proporre i sacramenti come luogo in cui Cristo ci inizia alla relazione con Lui? La prima e fondamentale via da percorrere, dunque, per affrontare i gravi problemi pastorali relativi all’iniziazione cristiana, è quella di restituire limpida autenticità alle azioni sacramentali della comunità credente, con gesti semplici ma carichi di realtà. Questo comporterà la cura appassionata di un modo di celebrare che lasci trasparire, nella semplicità dei gesti liturgici, la bellezza dell’amore di Cristo, la potenza della sua parola, la santità della sua presenza, di fronte a cui si sta con riverente affetto. E, conseguentemente, la cura perché la celebrazione comune dei divini misteri generi effettivamente un’esperienza di fraternità ecclesiale, introducendo tra i membri della stessa assemblea reali legami di conoscenza reciproca, di amore fraterno, di impegno di testimonianza: nelle forme molteplici che le diverse situazioni pastorali suggeriscono. In modo che l’avvenire del sacramento sia proprio l’avvenire della vita cristiana, ovvero l’avvenire della comunicazione dell’agape di Cristo al suo Corpo ecclesiale, la nostra partecipazione alla sua carità.[13]

     

    2.3. La catechesi: dalla “lezione” al “discepolato” 

    Identificato nella sua essenza dall’evento sacramentale, che ne realizza la forma archetipa ed esemplare, il cristianesimo manifesta una natura essenzialmente dialogica. Dio, infatti, parla all’uomo non semplicemente nella forma cattedratica di chi vuole trasmettere un sapere, ma nella forma dialogica di chi vuole comunicare una vita e accogliere in un’alleanza. E il paradigma di questa forma di comunicazione, ovviamente, è quello realizzato da Gesù: Parola divina che non si limita a rivolgersi frontalmente all’uomo, ma attraversa nella propria carne l’esperienza umana, esprimendo e realizzando in essa la Verità di Dio. Sicché tale parola non chiede semplicemente un apprendimento teorico, ma più complessivamente un discepolato esistenziale, realizzato nella progressiva assimilazione di una sapienza che non è di questo mondo. Come ai discepoli di Emmaus, Gesù si affianca come compagno di cammino agli uomini di ogni generazione, introducendoli a rivedere la loro comprensione dei fatti della storia dal punto di vista di ciò che si è realizzato in Lui e che la sua parola, in modo vario e convergente, intende illuminare. Questo discernimento del presente come luogo in cui Dio si fa incontrare da parte di chi è disposto a mettere in discussione la propria sapienza e lasciar vincere la propria durezza di cuore, è il contesto prossimo in cui dovrebbe venire a fiorire la celebrazione dei sacramenti.

    Una tradizione storica che affonda le sue radici nel contesto socioculturale della Controriforma ci ha abituati a identificare questo processo sostanzialmente con la lezione settimanale di catechismo. Non era estranea a quest’impostazione una reazione alla tendenza protestante ad esasperare la dimensione soggettiva della fede, lasciando sullo sfondo l’importanza intrinseca della sua oggettiva aderenza all’evento cristologico, di cui la dottrina cristiana voleva appunto evidenziare i tratti essenziali. D’altra parte, una complessiva identificazione della società civile con il patrimonio simbolico offerto dal cristianesimo (ricorrenze, istituzioni, linguaggio) lasciava facilmente presumere la possibilità di integrare la lezione di catechismo con molti altri elementi di “esperienza” cristiana, offerti in modo più o meno consistente dal contesto ambientale.

    Il mondo, ovviamente, è cambiato e ciò che si poteva presumere ieri, oggi certamente non c’è più. Le forme pubbliche della comunicazione, e non di rado anche quelle di un numero consistente di famiglie che pure chiedono l’iniziazione cristiana dei figli, trasmettono di fatto una sapienza che ha poco a che fare con il Vangelo. Anche il modo di fare catechismo è cambiato: si è reso più duttile, meno cattedratico, più esperienziale. Ma forse queste trasformazioni, pure apprezzabili, non corrispondono alla radicalità dei cambiamenti sociali.

    Perché, dopo tutto, il processo che accompagna ai sacramenti mantiene pur sempre un’impostazione essenzialmente scolare.

    Un tentativo diffuso è stato quello di affiancare alle “classi di catechismo” i “gruppi di animazione”: con molteplici varianti intermedie, fino all’estremo della semplice risoluzione del catechismo nell’animazione. Questo tentativo ha certamente l’intenzione di ricercare un coinvolgimento maggiore dei ragazzi nell’attuazione di iniziative di vario genere, per lo più decise insieme. Eppure il fatto di affiancare ad un catechismo di matrice ancora prevalentemente scolare un gruppo di stile prevalentemente amicale (animato da ragazzi che hanno pochi anni in più) ci sembra che più che realizzare una sintesi effettiva di iniziazione e educazione segnali la difficoltà della loro integrazione: affidata a luoghi, modi e metodi diversi. Come se da una parte s’imparasse la verità del cristianesimo come una lezione teorica e dall’altra si venisse animati a mettere in gioco la propria libertà semplicemente come un progetto personale.

    Alla luce di quanto abbiamo sopra affermato, la direzione in cui muoversi ci sembra che potrebbe/dovrebbe essere un’altra, ovvero quella felicemente – seppur timidamente – imboccata dalla Nota pastorale della CEI “L’iniziazione cristiana. 2. Orientamenti per l’iniziazione dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni”. Diciamo che è una direzione indicata “timidamente”, perché viene suggerita come una possibilità che si aggiunge a quelle più consuete, quasi come un esperimento da attuare, e riguarda direttamente i ragazzi tra i 7 e 14 anni che non sono stati ancora battezzati. Rappresenta però un passo coraggioso, che merita la massima attenzione e la più calda accoglienza, nonostante le difficoltà che certamente si dovranno affrontare. Per l’esposizione dettagliata del progetto e per un suo commento analitico rimandiamo al contributo di A. Fontana, nello stesso Dossier, ma si tratta in buona sostanza, di un itinerario che sostanzialmente pensa la comunicazione della verità di Dio attraverso il coinvolgimento del ragazzo in una dinamica di discepolato, che ha la forma dell’appartenenza ad una vera esperienza ecclesiale, trova il proprio centro nell’ascolto della Parola del Signore, si compie in continuità con il contesto dell’esperienza educativa quotidiana, coinvolge in maniera diretta le famiglie e raggiunge i sacramenti attraverso una crescita complessiva del ragazzo, senza che ci siano date di scadenza prefissate.

    L’istanza di fondo che il progetto lodevolmente recepisce è quella di superare l’estrinsecismo tra la comunicazione delle nozioni catechistiche e l’attuazione dei cammini educativi, recuperando il contesto originario dell’attuazione della vita cristiana, che è quello di un’effettiva esperienza di comunità ecclesiale: che non è né una classe, né un gruppo spontaneo di amici, ma ha precise forme di relazione, essenziali alla comunicazione della fede. Torna così in primo piano il ruolo dei genitori, che non può essere sostituito né dalle catechiste nella trasmissione della fede, né dagli animatori nell’educazione della libertà, poiché in fin dei conti la relazione credente con il Signore si realizza come trascrizione quotidiana (per i fanciulli e i ragazzi: soprattutto familiare) degli atteggiamenti assunti realmente nel sacramento. E torna in primo piano il mondo reale in cui il ragazzo vive, che è quello che deve essere illuminato dalla parola del Signore e trasformato dalla sua Grazia. Il che forse richiede di ripensare quell’impostazione un po’ burocratica che, in rigida continuità con le forme adeguate alla parrocchia rurale della societas christiana, intende ancora l’appartenenza territoriale come il criterio “prevalente” (di fatto “unico”) per il luogo e il modo dell’accesso ai sacramenti: qualunque sia la storia del ragazzo e qualunque sia l’ambiente educativo (cristiano!) che frequenta.

    Forse non sarà facile realizzare un tale modello, e richiederà anni di paziente cambiamento di mentalità, però segna certamente un cambiamento di rotta che in ogni caso va assecondato, sperando che ciò che viene proposto per i gruppi in cui c’è un fanciullo catecumeno abbia un ruolo “trainante” per tutto il rinnovamento della catechesi, ovvero per la vera attuazione di un cammino di iniziazione..

     

    2.3. L’educazione: azione sacramentale e azione educativa 

    Un’ultima serie di considerazioni può essere dedicata al rapporto che sussiste tra l’azione sacramentale e l’azione educativa. Nella prospettiva che guardava ai sacramenti con un’impostazione tendenzialmente “oggettivistica”, la connessione era difficile da riconoscere sul piano teorico, anche se il contesto epocale finiva non di rado per assicurarne l’attuazione sul piano pratico, grazie al sensus fidei di tante brave mamme cristiane.[14]

    Nella prospettiva che, alla luce del Concilio, ci ha aiutato a riscoprire i sacramenti essenzialmente come azioni (celebrazioni), il nesso sarebbe molto più facile e immediato da vedere: se non che l’idea di “educazione” che va per la maggiore rende l’impresa assai più ardua e complicata. Predominante, infatti, è un’idea di educazione che interpreta la storia personale essenzialmente come sviluppo di una soggettività autonoma e autoreferenziale, a cui l’ambiente circostante deve offrire strumenti abilitanti in vista della personale autorealizzazione. Si moltiplicano così gli sforzi per l’osservazione del soggetto e per la delineazione delle procedure più convenienti al suo sviluppo, che viene pensato essenzialmente come attivazione di energie interiori e come abilitazione ad affrontare situazioni sempre più impegnative, secondo criteri che il ragazzo stesso dovrà scegliere, fondamentalmente per riferimento a se stesso.

    Non sarebbe difficile mostrare con numerosi esempi quanto una simile concezione educativa plasmi il costume sociale, non solo nell’ambito delle istituzioni scolastiche, ma addirittura nella forma dei rapporti parentali. Più utile, però, è mostrare come tale concezione del rapporto educativo, ampiamente sbilanciato in senso funzionale (far acquisire abilità) e soggettivistico (promuovere la “realizzazione di sé”), risulti largamente insufficiente e inadeguata.

    Essa, infatti, trascura gravemente alcuni degli elementi essenziali della struttura antropologica, che hanno una rilevanza determinante per la storia della libertà personale: in primo luogo il fatto che la libertà non inizia ad esistere sotto forma di una soggettività assoluta, ma piuttosto sotto quella dell’implicazione nella storia di altri; e poi il fatto che l’uomo non vive solo delle proprie abilità (del “pane” che sa guadagnarsi), ma di una parola che gli “rivela” quel senso del vivere che non può darsi da solo: una parola che in definitiva può uscire solo “dalla bocca di Dio”. Bisogna dunque ritrovare un’idea di educazione che pone al centro non la comunicazione al ragazzo di informazioni e di abilità, ma la testimonianza morale di un senso del vivere, che si onora con la propria coerenza personale. Solo di fronte alla luminosa attestazione di una verità che rende ragione del mondo e di una giustizia che distingue il bene dal male, infatti, la generazione che si apre alla vita può apprendere che il gusto della libertà non si trova nello spremere dall’attimo fuggente tutto il piacere possibile, ma nel dedicarsi con ogni assiduità a Colui che merita di essere amato.

    L’educazione, dunque, non è anzitutto esercizio di tecniche, ma è “cosa di cuore” (d. Bosco), ovvero rapporto che pone in gioco le più intime risorse dell’affetto e della responsabilità. Il suo luogo originario è l’incontro tra la generazioni, nel senso molto concreto e quotidiano del rapporto tra la generazione dei figli e quella dei genitori che li hanno chiamati alla vita e sono ora in debito di un “perché”. Tale “perché” deve poter giustificare la doverosa speranza del vivere e indicare al desiderio dell’uomo la direzione giusta per il suo compimento, ma non può farlo semplicemente sotto forma di una sapere astratto che verrà comunicato – forse – quando il bambino sarà ormai quasi un uomo. Una domanda inespressa sul senso del vivere, infatti, è già sempre presente nella forme più quotidiane con cui un bambino si apre alla vita e il modo di vivere di coloro che gli stanno intorno è il libro in cui egli può leggere ogni momento la risposta.

    Se questa forma pratica del rapporto tra genitori e figli è il luogo paradigmatico dell’educazione, bisogna riconoscere che i sacramenti vi s’inseriscono non come un corpo estraneo, ma piuttosto come il momento della verità, ovvero come la forma eminente attraverso cui i genitori attestano ai figli il motivo per cui li hanno chiamati alla vita e la gioiosa speranza che vogliono con loro condividere. Per questo il primo gesto impegnativo che i genitori cristiani realizzano è quello di mettere il loro bambino tra le braccia dell’Abbà di Gesù, Colui dal quale ogni paternità prende nome, e di cui tutti ci riconosciamo figli.

    In questo modo i genitori riconoscono da che cosa viene il loro amore per il figlio, confessano il mistero nuovo che è in lui e che essi stessi devono rispettare come ciò che non è un loro “prodotto”. Ponendolo tra le braccia del Padre, gli comunicano il luogo in cui egli sarà al sicuro non solo dal male del mondo, ma anche dal bene che loro gli vogliono e che a volte potrà degenerare in quelle forme possessive o proiettive che tanto possono ferire la sua libertà.

    Nell’azione sacramentale del Battesimo (da intendere sempre come momento della più complessiva “iniziazione”, ossia come gesto relativo all’eucaristia), dunque, i genitori trovano il fondamento ultimo di quella che sarà tutta la loro azione educativa, che ultimamente può alimentarsi soltanto alla loro fede in una verità di Dio che rende libera la vita dell’uomo (“la verità vi farà liberi”).

    Certo, nell’educazione dei loro figli, essi dovranno fare anche tante altre cose che hanno un rapporto meno diretto con la fede, ma per quanto riguarda la sostanza dell’educazione, che è appunto il servizio resa alla libertà del figlio, essi avranno ben chiaro fin dall’inizio che essa è strettamente imparentata con la verità di Dio. Non penseranno così che prendersi cura dell’umano è una cosa religiosamente “neutra”, affidabile semplicemente a moduli interpretativi desunti dall’osservazione empirica, ma esaminando tutto e tenendo ogni cosa buona, manterranno molto nitidamente la loro testimonianza educativa nel cono di luce divina che il Risorto proietta sull’esistenza di ogni uomo. Il che, fra l’altro, esclude in radice ogni forma autoritaria di imposizione di sé.

    Individuato nell’agire sacramentale il fondamento teologale (metaetico) dell’esercizio (etico) della relazione educativa, il discorso dovrebbe svilupparsi nel cogliere gli elementi di antropologia che i sacramenti dell’iniziazione offrono alla riflessione e alla pratica educativa. Ci limitiamo, però, a due brevi cenni, che possono correggere qualche diffusa ingenuità. Il primo è relativo al tema del peccato originale, che non a caso è divenuto assai latitante nella predicazione e nella catechesi. Anche a monte di ogni più accurata definizione teologica della questione, il dogma del peccato originale afferma che l’apparire della libertà nella forma di un essere implicato nella storia di altri non è soltanto il luogo in cui s’istituisce la mediazione testimoniale della fede, ma anche quello in cui si realizza un tragico coinvolgimento nel male del mondo, tanto serio e coinvolgente che solo il rapporto personale con il Signore Gesù, realizzato in forma tipica dal sacramento del Battesimo (da intendere nella sua portata inclusiva del votum baptismi) ne può liberare. L’importanza di questo tema teologico sacramentale per l’intelligenza dell’atto educativo non può certo essere sottovalutata, soprattutto di fronte ad una prassi pedagogica che non di rado è concepita come sviluppo innocuo delle capacità innate e come “progresso lineare” per somma di esperienze: salvo poi dover spendere infinite risorse sociali in un’ampia azione di “recupero”. L’impossibilità dell’uomo, anche dell’uomo devoto e religioso (il genitore più affezionato e il parroco più zelante), di cancellare il male radicale della libertà, e la necessità di un rapporto personale con il Risorto, di cui il Battesimo costituisce il simbolo reale, dovrebbero chiarire allo stesso tempo l’esigenza di uscire da una concezione puramente progressiva degli itinerari educativi e la necessità di prendere sul serio anche nell’educazione la natura teologica del male, irriducibile ad errore metodologico, risposta inadeguata, difetto progettuale. La libertà del bambino e del ragazzo non ha bisogno solo di crescere, ma proprio già di convertirsi, e questo può avvenire non anzitutto in forza di una nostra strategia, ma per un atto che viene dall’alto e che libera per grazia. E ciò significa, con buona pace dell’illuminismo, pensare già sempre e di fatto gli itinerari educativi (anche) come cammini di conversione, e riconoscere che l’impedimento radicale all’educazione va ritrovato nel peccato.

    Un secondo spunto può essere ricavato dal fatto che l’iniziazione cristiana prospetta come forma riuscita della libertà la comunione ecclesiale, in cui tutti, pur essendo molti, formiamo un solo corpo, mettendoci gli uni al servizio degli altri. Anche questo elemento teologico ha molto da dire in chiave educativa, soprattutto di fronte alla già deprecata cultura narcisistica della realizzazione di sé. Il rischio, tutt’altro che teorico, è che anche la relazione educativa (l’appartenenza ai gruppi, l’“esperienza” del servizio…) sia avvertita come funzionale all’autorealizzazione e anziché promuovere il decentramento della persona, contribuisca con nuovi mezzi al suo consolidamento. La comunione fraterna, invece, esige a priori e in forza della fede una consegna di sé che ha sempre la forma di un “perdere la propria vita” e di “morire a se stessi”. Non perché tale atto sia un metodo per realizzarsi, ma perché è la forma dell’agape di Dio. Il cristiano non impara a decidere assumendo come criterio dirimente lo sviluppo dei propri talenti e delle proprie capacità, ma fissando lo sguardo su Gesù e aprendo gli occhi sui bisogni dei fratelli: costi quel che costi. Altrimenti anche il serio linguaggio cristiano della carità, non a caso così frequentato da accomodanti riletture postmoderne, viene snaturato fino a contrabbandare i disordini affettivi più sregolati e le tolleranze più equivoche. Anche a questo riguardo, l’azione sacramentale che tiene viva nella comunità ecclesiale la carità “di Gesù”, costituisce il riferimento essenziale perché l’educazione del soggetto sia orientata verso quell’amore in cui trova vero compimento la sua libertà.


    [1] È il risultato a cui giunge la voluminosa ricerca di P. CASPANI, La pertinenza teologica della nozione di iniziazione cristiana, Glossa, Milano 1999. Cf il contributo di A. MARTELLI in questo stesso numero.

    [2] È noto, al riguardo, il drastico giudizio di Rahner, secondo cui “tutta la speculazione medioevale e moderna, elaborata per salvare un ilemorfismo sacramentale di materia e forma, di elemento e parole anche in questi due casi [penitenza e matrimonio], non va al di là di un vuoto verbalismo” (K. RAHNER, Che cosa è un sacramento?, in ID., Nuovi saggi, V, Paoline, Roma 1975, 473-491, 477).

    [3] Questo difetto sembra confermato dalla definizione di sacramento come “segno efficace della grazia, istituito da Gesù Cristo e amministrato dalla Chiesa”, che non riesce ad integrare pienamente la componente della libertà del soggetto nella costituzione dell’evento battesimale, lasciando l’impressione che essa rimanga semplicemente destinataria di una realtà precostituita.

    [4] Rinviamo al contributo di R. CARELLI in questo stesso numero (Catechesi).

    [5] A. SCOLA, Donato alla libertà, in N. REALI (ed.), Il mondo del sacramento. Teologia e filosofia a confronto, Paoline, Milano 2001, 367374, 367s.

    [6] Sull’istruzione del problema, cfr. A. GRILLO, Teologia fondamentale e liturgia. Il rapporto tra immediatezza e mediazione nella riflessione teologica, Messaggero, Padova 1995; P. SEQUERI, La presenza e il fare. Ritrattazioni filosoficoteologiche sul modello liturgico della coscienza credente, in AA.VV., L’arte del celebrare. Atti della XXVII Settimana di Studio dell’Associazione Professori di Liturgia. Brescia, 30 agosto  4 settembre 1998, C.L.V.  Edizioni liturgiche, Roma 1999, 21-40.

    [7] La “fuga” dalla pratica sacramentale di molti ragazzi che hanno appena ricevuto la Confermazione dovrebbe essere indicativa di quanto la figura del sacramento sia rimasta estrinseca al cammino di preparazione che hanno compiuto: nonostante lo sforzo sincero di coloro che li hanno accompagnati e la mole di discorsi e raccomandazioni fatte al riguardo.

    [8] Non è casuale, infatti, che l’atto della carità fraterna, del servizio ai poveri, dell’annuncio della fede sia interpretato nel cristianesimo come “offerta liturgica” al Signore e che lo stesso martirio sia pensato, secondo le parole di Ignazio, attraverso la simbologia eucaristica del diventare “pane vivo di Cristo”.

    [9] Cf G. GOZZELINO, Il mistero dell’uomo in Cristo. Saggio di protologia, Elledici, Leumann (Torino) 1991.

    [10] Per la nozione di fede testimoniale cf P. SEQUERI, Mediazione ecclesiale e attuazione della fede, in AA.VV., Progetto pastorale e cura della fede, Glossa, Milano 1996, 155-189.

    [11] J.J. NAVATEL, L’apostolat liturgique et la piété personelle, “Etudes” 50 (1913) 449-476, 455.

    [12] Emblematico per il carattere suadente, ma per la sostanziale inattendibilità teologica: L. MALDONADO, La secolarizzazione della liturgia, Paoline, Roma 1972.

    [13] Sarebbe da recuperare, ad esempio, la prassi antica che attribuisce un profondo valore liturgico alla colletta delle offerte per i poveri che avviene durante la celebrazione domenicale, nella quale i cristiani dovrebbero riversare non una cifra “simbolica”, ma un “reale” contributo economico alle necessità di chi soffre.

    [14] Sotto questo profilo, ad esempio, il modo in cui S. Giovanni Bosco racconta nelle Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, la cura con cui la mamma l’ha preparato alla prima comunione è illuminante: una piccola sintesi di antropologia educativa e di catecumenato antico, realizzata in forma semplice e popolare dalla fede genuina di una donna del secolo scorso.

     


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