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     «Che significa questo rito?»

    Il mistero pasquale nella Bibbia e nei Padri

    Raniero Cantalamessa


    A
    ppena nasce in Israele una festa di Pasqua, nasce anche la domanda sul suo significato: Che significa questo rito? (Es 12, 26). Ripetuta all'inizio della cena pasquale ebraica, questa domanda accompagnerà la storia della festa, sollecitandone una comprensione sempre più profonda. Essa equivale all'altra domanda, che si incontra anche nelle fonti cristiane. «Che cosa ricordiamo questa notte?», o anche: «Perché vegliamo in questa notte?» [1] . È una domanda importante perché permette di scoprire qual è l'evento salvifico che è all'origine della Pasqua; in altre parole, di che cosa essa è «memoriale». Anche per noi cristiani quella domanda può essere uno strumento prezioso per giungere a una comprensione sempre più profonda del Mistero pasquale e, soprattutto, per fare nostra la comprensione che altri, prima di noi, hanno avuta di esso.

    1. I due volti della Pasqua

    Alla domanda: «Che cosa significa questo rito?», nell'Antico Testamento vengono date due risposte diverse, anche se complementari. Secondo la spiegazione più antica, la festa di Pasqua ricorda, in primo luogo, «il passaggio di Dio». Il nome stesso di Pasqua viene fatto derivare da un verbo che indica l'azione di Dio che «passa sopra», nel senso che «salta», o «risparmia», o «protegge», le case degli ebrei, mentre colpisce quelle dei loro nemici: «Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo rito? Voi direte loro: È il sacrificio della Pasqua (pesach) per il Signore, il quale è passato oltre (pâsâchti) le case degli israeliti in Egitto, quando colpì l'Egitto e salvò le nostre case» (Es 12, 26-27).
    Il contenuto, o l'evento, che la Pasqua commemora è, dunque, il passaggio salvifico di Dio: Pasqua, perché Dio passò! Questa è una spiegazione della Pasqua che si può definire teologica o teocentrica in quanto, in essa, il protagonista è Dio. L'accento è tutto sull'iniziativa divina, cioè sulla causa, più che sull'effetto, della salvezza.
    Nel Deuteronomio e in altre parti più recenti dell'Esodo stesso, l'attenzione si sposta dal momento dell'immolazione dell'agnello a quello dell'uscita dall'Egitto che è vista come il passaggio dalla schiavitù alla libertà (cf Dt 16 e Es 13-15). Con il cambiare dell'evento centrale, cambia anche il protagonista o il soggetto della Pasqua: non è più Dio che passa e salva, ma l'uomo, o il popolo, che passa ed è salvato. Questa è, perciò, un'interpretazione della Pasqua che si può definire antropologica o antropocentrica. Dicevo che si tratta di due risposte complementari, non esclusive. Infatti l'uomo, anche in questa seconda prospettiva, è visto in dipendenza da Dio; l'esodo è per l'alleanza del Sinai! Si tratta perciò di una liberazione religiosa, non politica; almeno, non principalmente politica. Il popolo è reso libero per servire Dio, come tante volte ripetono le fonti bibliche: «Lascia libero il mio popolo perché mi serva» (cf Es 4, 23; 5, 1).
    Tale duplice interpretazione – quella teologica e quella antropologica – si mantiene lungo tutto l'Antico Testamento. Al tempo di Gesù, troviamo questa diversa situazione. Nel giudaismo ufficiale palestinese, all'ombra del tempio e del sacerdozio ebraico, predomina l'interpretazione teologica: la Pasqua commemora anzitutto il passaggio di Dio. C'è un testo molto bello in cui la storia della salvezza è riassunta nei quattro eventi fondamentali che sono: creazione, sacrificio d'Isacco, Pasqua ed escatologia (le «quattro notti»). In questo testo, la Pasqua è descritta come la «notte in cui Dio si manifestò contro gli egiziani e protesse i primogeniti d'Israele» [2]. In questo ambiente – che fu quello di Gesù – la Pasqua presenta un aspetto fortemente rituale e sacrificale. Consiste, cioè, in una liturgia concreta, i cui momenti essenziali sono l'immolazione dell'agnello nel tempio, nel pomeriggio del 14 Nisan, e la sua consumazione, famiglia per famiglia, la notte successiva, nel corso della cena pasquale. Nel giudaismo ellenistico, o della diaspora, predomina, invece, l'altra spiegazione, quella antropologica. Qui l'evento storico centrale commemorato
    dalla Pasqua è il passaggio del popolo attraverso il Mar Rosso. Ma anche questo è relegato in secondo piano, rispetto al significato allegorico dell'evento che è «il passaggio dell'uomo dalla schiavitù alla libertà, dai vizi alla virtù». Scrive il più noto rappresentante di questa tendenza: «La festa di Pasqua è un ricordo e un ringraziamento della grande emigrazione dall'Egitto. Ma per coloro che sono abituati a volgere le cose narrate in allegoria, la festa del Passaggio significa la purificazione dell'anima». «Propriamente parlando, la Pasqua significa il passaggio da ogni passione verso ciò che è intelligibile e divino» [3]. Migrazione, esodo, passaggio, uscita: sono immagini di grande risonanza spirituale, specie se viste sullo sfondo di quella mentalità biblica che vede nell'emigrazione di Abramo, e nell'emigrazione in genere, il modello plastico della fede e del destino d'Israele («Mio padre era un arameo errante») e che si prolungherà, nel Nuovo Testamento, nell'ideale di vita da «pellegrini e forestieri» (1 Pt 2, 11; Eb 11, 13).
    Se la Pasqua è essenzialmente il passaggio dai vizi alla virtù, evidentemente essa non avrà per soggetto Dio, ma l'uomo e non si celebrerà tanto con una liturgia e con dei riti esterni (benché questi non siano rinnegati), quanto piuttosto con uno sforzo continuo e interiore verso il bene. L'agnello pasquale da offrire a Dio è il proprio progresso spirituale, dirà ancora Filone, rifacendosi al significato etimologico del termine greco usato per designare la vittima pasquale (probaton, agnello, capretto, viene da pro-baino che significa vado in avanti, progredisco).
    Così, abbiamo visto delinearsi due concezioni pasquali in tensione tra di loro che sopravviveranno anche nel cristianesimo, plasmando, con la loro dialettica, tutta la spiritualità pasquale fino ai nostri giorni.
    Passiamo dunque dalla Pasqua giudaica alla Pasqua cristiana. Ma anzitutto una domanda: quando comincia a esistere una festa cristiana di Pasqua? La primitiva comunità cristiana, dopo la morte e risurrezione di Gesù, pur continuando, per un certo tempo, a «salire al tempio» e a celebrare la Pasqua con gli altri giudei, cominciò, a un certo punto, a pensare e a vivere questa festa annuale, non più come ricordo dei fatti dell'esodo e come attesa della venuta del Messia, ma piuttosto come ricordo di ciò che alcuni anni prima era accaduto a Gerusalemme durante una Pasqua e come attesa del ritorno di Cristo. Il distacco interiore precedette quello rituale e la festa cristiana della Pasqua fu celebrata «in spirito e verità» nell'intimo del cuore dei discepoli, prima ancora che con un rito e una festa propria. Questa, però, non dovette tardare a imporsi, una volta consumata in essi la trasformazione interiore del contenuto della Pasqua. E, forse, quando san Paolo, in 1 Corinzi 5, 7, esorta a «celebrare la festa», è già alla festa cristiana di Pasqua che fa riferimento. Fu così che il ritorno annuale della Pasqua finì per essere celebrato dai discepoli anche con una festa propria, sempre più cosciente della sua novità.
    Come si giunse a un trapianto così rapido e nitido dell'istituzione pasquale dall'Antico al Nuovo Testamento, da Israele alla Chiesa? Il punto di incontro fu, apparentemente, un dato puramente cronologico: Cristo era morto (e risorto) in Gerusalemme, in occasione di una Pasqua ebraica. Per l'evangelista Giovanni, addirittura, in concomitanza anche oraria con l'immolazione degli agnelli pasquali nel tempio. Questo dato cronologico, da solo, non sarebbe certamente bastato a operare la grande trasformazione della Pasqua, se dentro di esso non avesse operato un altro dato più forte: quello tipologico. Quell'evento – l'immolazione di Cristo – era visto come la realizzazione di tutte le figure e di tutte le attese contenute nell'antica Pasqua. Melitone di Sardi esprime questa convinzione con un linguaggio che ricalca volutamente quello giovanneo dell'incarnazione, come per dire che il Mistero pasquale non è se non l'estrema linea e la conclusione coerente di un processo iniziato con l'incarnazione: «La legge divenne Verbo, il vecchio divenne nuovo, il tipo divenne realtà, l'agnello divenne il Figlio» [4].
    Alla luce di questo evento, gli autori del Nuovo Testamento reinterpretarono tutta la vicenda di Gesù, vedendo in essa la definitiva realizzazione della Pasqua antica.
    La Chiesa ha dunque ereditato da Israele la sua festa di Pasqua; questa però, nel passaggio da Israele alla Chiesa, ha cambiato di contenuto; è divenuta memoriale di qualcos'altro. Si pone perciò nuovamente per essa l'antico interrogativo: Che significa questo rito?

    2. La Pasqua-passione

    Anche in seno al cristianesimo emergono due risposte complementari che costituiscono le due principali tradizioni pasquali della Chiesa antica. All'inizio, fino al III secolo, dal punto di vista dei contenuti teologici (non della prassi liturgica!), esiste una tradizione pasquale fondamentalmente unitaria. È la tradizione che, dal luogo di origine e di maggiore fioritura – l'Asia Minore – è chiamata «asiatica». Si tratta di una Pasqua cristologica o cristocentrica, dal contenuto storico-commemorativo ed escatologico, cioè di una Pasqua che ha per protagonista non l'uomo e neppure più il Dio dell'Antico Testamento, bensì Gesù Cristo. Di Cristo commemora – e per questo è detta «commemorativa» – tutto «il mistero nuovo e antico: nuovo nella realtà, antico nella prefigurazione» (Melitone). In altre parole, la Pasqua commemora tutta la storia della salvezza, che ha per culmine Gesù Cristo, e si protende nell'attesa del suo ritorno finale, per cui è detta anche «escatologica». In un contesto simile, si giunge all'affermazione ardita: «La Pasqua è Cristo!» (Giustino e Melitone).
    Di Cristo, però, la Pasqua commemora soprattutto «la grande immolazione» (Apollinare di Gerapoli), cioè la sua passione, al punto che la parola stessa «Pasqua» viene fatta derivare dal verbo che in greco significa patire. «Cos'è la Pasqua?», si domanda Melitone di Sardi, e risponde: «Il nome deriva dall'evento: celebrare la Pasqua (paschein) viene infatti dall'aver patito (pathein)» [5]. Per moltissimo tempo, questa ingenua spiegazione etimologica (ingenua perché fa derivare una parola ebraica da una parola greca!) influenzerà la teologia pasquale della maggioranza degli autori cristiani.
    La concezione pasquale appena descritta, teologicamente unitaria, per motivi e in data non ben chiariti, si realizzò, sul piano rituale, in due prassi liturgiche diverse, dando luogo a quella «controversia non piccola» che agitò la Chiesa nel II secolo, al tempo di papa Vittore, portandola sull'orlo del primo grande scisma. Le Chiese dell'Asia Minore, infatti, ricollegandosi più direttamente alla Pasqua ebraica e al magistero di Giovanni (il quale aveva additato nell'immolazione di Gesù sulla croce l'evento pasquale per eccellenza), celebravano la Pasqua il 14 Nisan, in qualsiasi giorno della settimana cadesse (donde il nome di Quartodecimani dato a essi). Il resto della cristianità, invece, con a capo Roma, la celebrava la domenica successiva al 14 Nisan, cioè in un giorno fisso della settimana, anziché del mese. Naturalmente, il fatto di scegliere, come data della festa, l'anniversario della morte, o, invece, quello della risurrezione portava con sé anche una diversa accentuazione dell'uno e dell'altro evento. Tuttavia, le fonti dimostrano chiaramente che anche là dove si celebrava la festa di domenica, in questo periodo, Pasqua, per sé e in primo luogo, commemorava la passione di Cristo. In Tertulliano, per esempio, il termine Pascha designa abitualmente il Venerdì Santo, oppure lo spazio che va dal Giovedì Santo alla notte del Sabato. Con la veglia tra il Sabato e la Domenica, finisce la Pascha e inizia il laetissimum spatium della Pentecoste. Una tale predilezione per il ricordo della passione non stupisce, se si pensa che la Chiesa, in quest'epoca di persecuzione, vive anch'essa la sua passione e sente, perciò, particolarmente vicino alla propria esperienza storica questo momento della vita del suo Maestro. Di una Pasqua celebrata durante la bufera della persecuzione di Decio, abbiamo questa commovente testimonianza di un vescovo: «Ci esiliarono e, soli fra tutti, fummo perseguitati e messi a morte. Ma anche allora abbiamo celebrato la festa (di Pasqua). Ogni luogo dove si pativa divenne per noi un posto per celebrare la festa: fosse un campo, un deserto, una nave, una locanda, una prigione. I martiri perfetti celebrarono la più splendida delle feste pasquali, essendo ammessi al festino celeste» [6].
    Il ricordo della passione è, dunque, tutt'altro che assente presso coloro che celebrano la Pasqua di domenica. Allo stesso modo, coloro che celebravano la festa il 14 Nisan, nell'anniversario della passione di Gesù, non trascuravano, per questo, la risurrezione. Essi vedevano infatti la morte di Gesù alla maniera di Giovanni, cioè come «glorificazione», come morte gloriosa che contiene e anticipa già la risurrezione. Al vocabolo stesso di passio, in quest'era di martirio, è inscindibilmente associata l'idea di vittoria e di gloria e, quindi, di risurrezione. Il martire è ammesso al festino celeste, diceva sopra san Dionigi; cioè fa quaggiù il suo Venerdì Santo e celebra in cielo la sua Domenica di risurrezione.
    Al centro della Pasqua, in quest'epoca antichissima, c'è dunque la morte di Cristo, ma non la morte in se stessa, come fatto bruto, ma in quanto essa fu la «morte della morte»; fu «l'assorbimento della morte nella vittoria» (cf 1 Cor 15, 54). La morte di Cristo è vista nella sua prorompente «vitalità» e forza di salvezza, per cui – come dice sant'Ignazio d'Antiochia – «la sua passione fu la nostra risurrezione» [7]. Questo perché Gesù, oltre che uomo, era anche Dio e «grazie al suo Spirito che non poteva morire, uccise la morte che uccideva l'uomo» [8].
    Sia, dunque, che lo si guardi dal Venerdì Santo (come fanno i Quartodecimani), sia che lo si guardi dalla Domenica, come fanno tutti gli altri, il mistero pasquale cambia, sì, di prospettiva e di clima spirituale, non però di contenuto teologico.

    3. La Pasqua-passaggio

    Sul piano teologico, la seconda grande tradizione pasquale nasce in Alessandria, all'inizio del III secolo, con Clemente e Origene, i quali riprendono, cristianizzandola, quella concezione morale e spirituale – che ha al centro l'uomo come soggetto e protagonista della Pasqua – che era fiorita nel giudaismo ellenistico. In questo nuovo quadro, tutta la vita del cristiano e della Chiesa è vista come un esodo, come un cammino continuo, che comincia con la venuta alla fede e termina con l'uscita da questo mondo. La Pasqua vera è in avanti, non indietro, è la Pasqua celeste che si celebrerà, senza simboli né figure, nella patria beata [9].
    Se la Pasqua è anzitutto un passaggio dell'uomo, è chiaro che il suo peso maggiore non risiederà nel passato, ma nel presente della Chiesa, nel quale soltanto quel passaggio si realizza. Gli eventi salvifici non sono certo rinnegati; la loro importanza, però, si attenua, in quanto tutti gli eventi storici, compresi quelli che riguardano Cristo, hanno un significato simbolico. La Pasqua di Cristo, rispetto alla Pasqua celeste, è anch'essa – come dice san Gregorio Nazianzeno – «una figura, sebbene più chiara di quella della legge» [10]. Segno di questa destoricizzazione della festa è l'insistenza sull'idea di una «Pasqua continua», a spese della Pasqua anniversaria che dice un rimando molto più esplicito all'evento storico commemorato.
    Il principio informatore di questa tradizione è che «i fatti storici non possono essere figure di altri fatti storici, né i fatti materiali di altri fatti materiali, ma piuttosto di fatti spirituali» [11], cioè: i fatti storici dell'esodo e quelli relativi alla morte-risurrezione di Gesù non trovano, al presente, la loro attuazione principale in riti liturgici o feste esterne, quanto invece in decisioni e fatti interiori e spirituali, come è, per esempio a proposito del mangiare le carni dell'agnello, il nutrirsi spiritualmente di Cristo e della sua parola.

    4. La sintesi agostiniana: la Pasqua, passaggio attraverso la passione

    Queste le due principali tradizioni pasquali fiorite all'origine della Chiesa. Alla domanda: Che significa questo rito?, la prima rispondeva: La passione di Cristo!; la seconda rispondeva: Il passaggio dell'uomo! Siamo, come si vede, sul prolungamento di quelle due concezioni presenti già nell'Antico Testamento: una Pasqua teologica (più esattamente ormai: cristologica), basata sull'idea di immolazione, e una Pasqua antropologica, basata sull'idea di passaggio. Le due visioni esprimono i due protagonisti e i due poli della salvezza: l'iniziativa di Dio e la risposta dell'uomo, grazia e libertà. Per gli uni, la Pasqua è anzitutto un dono di Dio; per gli altri, è anzitutto (non esclusivamente!) una conquista dell'uomo.
    Gli autori posteriori, fino al IV secolo, non fanno che ripetere, sviluppandole, l'una o l'altra delle due spiegazioni, o accostarle tra di loro in modo ibrido, cioè senza giungere a una vera sintesi teologica che riconduca le due prospettive a una unità di fondo.
    Questa sarà, precisamente, l'opera di sant'Agostino. L'occasione per una revisione della teologia pasquale si ebbe tra i latini, verso la fine del IV secolo. In questo momento e in questo ambiente, le diverse tradizioni pasquali, che si erano venute sviluppando nella Chiesa, ignorandosi a vicenda, vennero finalmente in contatto tra di loro provocando una crisi salutare. A differenza della controversia pasquale del Il secolo che toccava la data e non il significato della Pasqua, questa riguarda invece il significato e non la data o altri elementi liturgici. Rimane, perciò, una controversia ristretta all'ambito dei teologi che non lascia una grande traccia nella storia della Chiesa, anche se teologicamente è più rilevante della prima.
    Avvenne così. I latini, che avevano mutuato dall'Asia Minore la loro prima teologia pasquale, avevano continuato a spiegare la Pasqua come «passione». La loro Pasqua era del tipo che ho descritto come cristologica e storico-commemorativa, perché tutta centrata su Gesù Cristo. Scrive un rappresentante di questa corrente: «È scritto: È la Pasqua del Signore (Es 12, 11); non è scritto: "del popolo"; il nome di Pasqua, infatti, deriva da passione; è detta perciò "Pasqua del Signore", perché non fu il popolo, ma il Signore che nella Pasqua venne immolato in figura nell'agnello » [12].
    Questa antica spiegazione della Pasqua era radicatissima nel popolo e nei pastori e non sarà mai del tutto soppiantata (un vestigio di essa è rimasto nel prefazio di Pasqua della liturgia latina e ambrosiana, in cui la Pasqua è definita «il giorno in cui Cristo è stato immolato»). Essa però fu messa in crisi dall'apparire di una nuova interpretazione che spiegava la Pasqua come passaggio. A introdurla fu Ambrogio che, conoscendo il greco, poté, per la prima volta, far giungere in Occidente le idee di Filone e di Origene, nei quali la Pasqua indicava, appunto, il passaggio dell'uomo dai vizi alla virtù, dalla colpa alla grazia [13].
    Come se non bastasse, a questa prima innovazione si aggiunse quella di Girolamo che, traducendo la Bibbia dai testi originali, scoprì e rivelò ai latini che Pasqua significa, sì, passaggio, ma passaggio di Dio, non passaggio dell'uomo: «Pasqua, che in ebraico suona phase – scrive – non deriva questo nome da passione, come i più ritengono, ma da passaggio... nel senso che lo stesso Signore "passò sopra", venendo in soccorso del suo popolo» [14].
    La reazione a questa «riforma pasquale» fu vivace. Se ne fece portavoce, tra gli altri, l'Ambrosiaster, vissuto a Roma al tempo di papa Damaso. «Pasqua –scrive – significa immolazione e non passaggio, come alcuni vanno dicendo; prima infatti viene la figura del Salvatore e poi il segno della salvezza» [15]. Come dire che la Pasqua deve commemorare anzitutto la causa della salvezza, che è l'immolazione di Cristo, e non il suo effetto che è il passaggio dell'uomo.
    C'è una difficoltà di fondo che impedisce a questi autori di raggiungere un'unanimità intorno al significato della Pasqua; tale difficoltà – non ancora percepita – consiste nel divario esistente tra il nome e il contenuto della Pasqua. Coloro che interpretavano la Pasqua come passaggio spiegavano il nome della Pasqua e la sua continuità con la Pasqua dell'Antico Testamento, ma non davano ragione, ugualmente bene, del contenuto misterico e della novità della Pasqua cristiana. Al contrario, coloro che spiegavano la Pasqua come passione, davano ragione del contenuto nuovo della Pasqua cristiana (la passione e risurrezione di Cristo), ma non riuscivano a giustificare il nome della Pasqua e il suo rapporto con l'istituzione antica. Perché chiamare la passione di Cristo «Pasqua», se Pasqua significa passaggio?
    A questo punto morto era la teologia pasquale, quando, nel pieno della sua maturità, Agostino affrontò anche lui il problema del significato della Pasqua cristiana. Egli risolse il contrasto tra le due spiegazioni che sembrava insolubile. Lo fece leggendo meglio un testo di Giovanni. Ma sentiamo ciò dalla sua viva voce: «Il beato evangelista, spiegando, per così dire, a noi questo nome della Pasqua, che tradotto in latino significa "passaggio", disse: Il giorno avanti la "Pasqua", Gesù sapendo che era venuta l'ora di "passare" da questo mondo al Padre... Ecco il passaggio! Da che cosa e verso che cosa? Da questo mondo, al Padre» [16].
    A partire da questo testo viene finalmente raggiunto l'equilibrio e la sintesi tra passione e passaggio, tra Pasqua di Dio e Pasqua dell'uomo, tra passione e risurrezione di Cristo, tra Pasqua liturgica e sacramentale e Pasqua morale e ascetica. Agostino si basa su un fatto fino allora sfuggito agli autori che si erano occupati della Pasqua e cioè che il Nuovo Testamento contiene, esso stesso, una spiegazione del nome della Pasqua. Giovanni, accostando tra di loro
    i due termini «Pasqua» e «passare» (metabaino), ha inteso infatti, dare un'interpretazione e un contenuto cristiani al nome della Pasqua! Non pochi esegeti sono inclini, anche oggi, a pensare che Agostino abbia colto nel segno. A ogni modo, sta di fatto che dopo Agostino, per tutto il medioevo, questa sarà ormai la definizione prediletta della Pasqua cristiana: «Passaggio di Gesù da questo mondo al Padre».
    Ma vediamo in che modo, in quella definizione, si operano le sintesi sopra elencate. Il passaggio di Gesù da questo mondo al Padre abbraccia in un'unità strettissima passione e risurrezione: è attraverso la sua passione che Gesù giunse alla gloria della risurrezione. Questa è la quintessenza della teologia giovannea (cf per esempio Gv 12, 20-36) e di tutto il Nuovo Testamento. «Tramite la passione – scrive Agostino – il Signore passò dalla morte alla vita» [17]. Passione e passaggio non sono più, dunque, due spiegazioni contrapposte, ma congiunte tra di loro. La Pasqua cristiana è un transitus per passionem: un passaggio attraverso la passione. Vengono in mente subito le parole di Gesù ai discepoli di Emmaus: «Non bisognava che Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26) e le parole di Paolo: «È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio» (At 14, 22). «Passione e risurrezione del Signore: ecco la vera Pasqua», può scrivere ormai Agostino [18], portando a termine così il processo di cristianizzazione della Pasqua antica e facendole abbracciare, finalmente, a pieno titolo, sia la passione che la risurrezione di Cristo. Fino a quest'epoca, infatti, nessuno aveva spiegato apertamente il termine transitus, in riferimento alla risurrezione di Cristo.
    Ma la sintesi più importante è l'altra: quella tra Pasqua di Dio e Pasqua dell'uomo. Come si realizza tale sintesi nella nuova definizione della Pasqua? Qui la teologia pasquale raggiunge la profondità della persona stessa di Cristo e si salda con il mistero dell'incarnazione. In Gesù i due protagonisti della Pasqua – Dio e l'uomo – cessano di apparire alternativi o giustapposti e divengono uno solo, perché in Cristo umanità e divinità sono una stessa persona! Autore e destinatario della salvezza si sono incontrati; grazia e libertà si sono baciate. È nata la «nuova ed eterna Alleanza»; eterna, perché ormai nessuno potrà più separare i due contraenti, divenuti, in Cristo, una sola persona.
    Resta però un dubbio da dissipare: allora, è solo Gesù che fa la Pasqua? È solo lui che passa da questo mondo al Padre? E noi? Ecco l'altra stupenda sintesi agostiniana, quella tra la Pasqua del Capo e la Pasqua del corpo: «Nel Capo – prosegue il testo citato sopra – una speranza è stata data alle membra di seguire con certezza lui che è passato» [19]. Una speranza soltanto? Di più: una realtà, anche se, per il momento, una realtà solo incoativa che si realizza nella fede e nei sacramenti. «Dal momento, infatti, che, come dice l'Apostolo, egli è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione, nella passione e risurrezione del Signore è consacrato il nostro passaggio dalla morte alla vita» [20]. Quello di Gesù non è un passaggio solitario, ma un passaggio collettivo, di tutta l'umanità, al Padre. Commentando il versetto del Salmo che diceva: «Síngularis ego sum donec transeam» (Sal 140 [1411, 10), «Io sono solo finché non sia passato», Agostino dice che esso è la voce di Cristo che parla prima della sua Pasqua; come se dicesse: «Dopo la Pasqua non sarò più solo. Molti mi seguiranno, molti mi imiteranno. Che si-
    gnifica ciò? In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano non cade in terra e non muore, resta solo, ma se muore porta molto frutto» [21]. A Pasqua è nata la Chiesa, corpo mistico di Cristo, come spiga cresciuta sulla tomba di Cristo!
    Tutti dunque siamo già passati, con Cristo, al Padre e «la nostra vita è già nascosta con Cristo in Dio» (cf Col 3, 3), eppure tutti dobbiamo ancora passare. Siamo passati «in spe» e «in sacramento», nella speranza e per il battesimo, ma dobbiamo passare nella realtà della vita quotidiana, imitando la sua vita e soprattutto il suo amore: «Presentemente, noi compiamo questo passaggio per mezzo della fede che ci ottiene il perdono dei peccati e la speranza della vita eterna, se, però, amiamo Dio e il prossimo» [22].
    Passare, infatti, bisogna, dice Agostino. E se non passiamo a Dio che permane, passeremo con il mondo che passa. Ma quanto è più felice passare «dal mondo», anziché passare «insieme con il mondo»; passare al Padre, anziché al nemico [23]. Pasqua è passare a ciò che non passa!
    Che Dio, per i meriti di Gesù Cristo nostro Capo, ci conceda di compiere davvero questo «santo passaggio», al termine del quale vedremo il suo volto e ci sazieremo della sua presenza per sempre! Amen.


    NOTE

    1 Cf AGOSTINO, Ser. Guelf., 5, 2 (SCh 116, p. 212).
    2 Targum di Esodo, 12, 42; cf anche Pesachim, X, 5.
    3 FILONE DI ALESSANDRIA, Spec. leg., II, 145.147 e De congres., 106.
    4 MELITONE DI SARDI, Sulla Pasqua, 7 (SCh 123, p. 62).
    5 Ibidem, 46 (SCh 123, p. 84).
    6 DIONIGI DI ALESSANDRIA, in EUSEBIO, Storia eccl., VII, 22, 4.
    7 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Smir., 5, 3.
    8 MELITONE DI SARDI, Sulla Pasqua, 66.
    9 ORIGENE, In lob., X, 111 (GCS 4, p. 189).
    10 GREGORIO NAZIANZENO, Or. 45, 23 (PG 36, 654).
    11 ORIGENE, In lob., X, 110 (GCS 4, p. 189).
    12 GREGORIO ILLIBERITANO, Tract. Script., IX, 9 (CCL 69, p. 72).
    13 AMBROGIO, De sacr., I, 4, 12 (PL 16, 421); ID., De Cain et Abel, I, 8, 31 (PL 14, 332).
    14 GIROLAMO, In Mattheum, IV, 26, 2 (CCL 77, p. 245).
    15 AMBROSIASTER, In ep. ad Cor., 5, 7 (CSEL 81, 2, p. 56).
    16 AGOSTINO, In Ioh. Ev., 55, 1 (CCL 36, p. 464).
    17 ID., Enarr. in Ps., 120, 6 (CCL 40, p. 1791).
    18 ID., De cat. rud., 23, 41 (PL 40, 340).
    19 ID., In Ioh. Ev., 55, 1.
    20 Ep. 55, 2, 3 (CSEL 34, 2, p. 170).
    21 ID., Enarr. in Ps., 140, 25 (CCL 40, p. 2044).
    22 Ep. 55, 2, 3 (CSEL 34, 2, p. 171).
    23 ID., In Ioh. Ev., 55, 1 (CCL 36, p. 464).

    (FONTE: Il mistero della Pasqua, Ancora 2009, pp. 3-23)


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