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    Che cosa significa

    celebrare

    Spazio e tempo per la celebrazione

    Una conferenza di Enzo Bianchi

    È per me una grande gioia essere qui con voi; essere qui con voi per contemplare insieme il Signore nostro Gesù Cristo. Care sorelle e cari fratelli, le parole che vi offro vogliono solo essere ricerca e frutto del cercare il Signore, del tener fisso lo sguardo su di lui, dell’ascolto attento alla sua Parola, dell’assiduità alla liturgia nella quale Egli, il KurioV, il Signore è il protagonista e il primo attore. Per questo ringrazio l’amato vescovo e padre Luca Brandolini per l’invito rinnovatomi anche quest’anno; ringrazio l’amato padre e amico di questa Chiesa locale che è in Assisi che mi accoglie ma vorrei anche dire una parola di testimonianza per quello che il CAL è ed opera per la liturgia nelle Chiese che sono in Italia.
    Dire che quest’opera è preziosissima e che nella situazione attuale è un segnale di fedeltà al Concilio Vaticano II, fedeltà alla grande tradizione cattolica, è una conferma per quanti operano, a volte faticosamente e in modo nascosto, per l’autentico spirito della liturgia.
    Ma voglio dirvi qui, adesso, perché mi sembra il luogo più adeguato, che personalmente sono sempre più preoccupato riguardo al rapporto tra liturgia e Chiesa. A me sembra, infatti, che se la liturgia non è ancora decentrata dalla comunità cristiana rischia però di essere sempre meno sentita, compresa, vissuta come la fonte e il culmine di tutta la vita della Chiesa. Forse la mia è solo insipienza e, allora, chiedo correzione ai vescovi che sono qui e lo possono fare nei miei confronti perché sono un semplice e povero monaco laico.
    Ma nel mio essere presente e osservatore attento in diverse Chiese locali e in diverse comunità, troppe volte mi sembra di dover constatare che la liturgia non appare primaria nella vita ecclesiale, vuoi a causa dell’attenzione e dell’energie prevalenti rivolte ad altre azioni ecclesiali, vuoi a causa dello scollamento e della distanza sempre più ampia tra vita quotidiana dei presbiteri e liturgia.
    Qualcuno comincia a denunciare una crisi della liturgia perché appare evidente una certa disattenzione da parte di quelli che presiedono le comunità e, di conseguenza, una certa disaffezione della comunità ma l’antidoto non va cercato in restaurazioni o attraverso il recupero nostalgico di elementi che, magari, a quelli soprattutto della mia generazione, sono cari perché appartengono al nostro passato o, addirittura, alla nostra infanzia. Si tratta invece ed è urgente reagire alla crisi con una più seria e profonda formazione, con una rinnovata catechesi mistagogica, con uno sforzo per conoscere e recuperare lo spirito della liturgia, quello riscoperto e rinnovato dal Concilio Vaticano II, con una conversione pastorale di molti modi di operare della comunità cristiana e anche con mutamenti della forma del ministero presbiterale che deve ritrovare il primato dell’azione liturgica nel servizio alla comunità.
    Soprattutto mi sembra di dover fare emergere una pericolosa patologia ecclesiale che non solo, in questi ultimi decenni, ha enfatizzato l’evangelizzazione come mandato dei cristiani nel mondo ma, sovente, riduce l’evangelizzazione all’annuncio verbale e alla diaconia come servizio della carità. Altre volte ho denunciato il rischio di una comunità cristiana in cui si formano più militanti che discepoli del Signore, in cui si vogliono evangelizzatori senza chiedersi se sono sufficientemente evangelizzati prima, se sono capaci di marturia (marturìa), di testimonianza con la vita, perché, prima di evangelizzare con le parole, c’è da fare una testimonianza sul come si vive e mostrare così la differenza cristiana.
    Ma questo è l’esito forzato di una separazione tra liturgia e attività evangelizzatrice. In realtà è dalla liturgia, celebrata e vissuta come fonte di tutto l’essere ecclesiale, che sono originate innanzi tutto la koinonia (koinonìa), quella comunione con Cristo Capo in un solo corpo di membra diverse, la Chiesa, la quale attraverso la marturia, testimonianza, e la diakonia, servizio al mondo, cammina pellegrinante nella storia verso il Regno. L’ordo della vita cristiana va rispettato, va rispettato: dalla liturgia alla koinonia, dalla koinonia alla marturia e alla diakonia. Non si può mettere al primo posto la diakonia al mondo o la marturia se non si tiene conto che queste nascono da quella fonte che è sempre il dono di Dio rinnovato nella liturgia al suo popolo, alla sua Chiesa.
    Certamente la liturgia della Chiesa non è propaganda né ostentazione spettacolare ma va ben compresa come luogo in cui la fede trova la sua eloquenza, la sua celebrazione, e, in questo modo, la liturgia diventa la prima forma di evangelizzazione. L’episcopato francese nel 1996, in quella lettera ai cattolici di Francia, “Proporre oggi la fede cattolica”, anche a partire dall’esperienza odierna, ha affermato che la liturgia è evangelizzazione, la liturgia è missionaria perché è un luogo in cui la fede, essendo celebrata, è soprattutto proposta.
    Come dimenticare poi che, oggi soprattutto, uomini e donne giungono alla fede attraverso itinerari complessi ma nei quali la celebrazione liturgica … cambio lato cassetta … domenicale e dovremmo dire oggi, purtroppo, anche una liturgia per cristiani che vivono ad intermittenza la comunità eucaristica: cristiani intermittenti li chiama l’episcopato francese, cioè quei cristiani che ormai si trovano in alti luoghi, in santuari, in certe manifestazioni di Chiesa ma che non hanno più una vita ecclesiale abituale, concreta nella comunità.
    D’altronde è la fede cristiana che vede nel Signore Gesù Cristo il KurioV thV EkklesiaV, il Signore della Chiesa, il vero soggetto dell’evangelizzazione perché nella liturgia Cristo è presente, parla, opera, agisce efficacemente nello Spirito Santo e, attraverso lo Spirito Santo, attua una vera sinergia con l’assemblea. La comunità corpo e membra di Cristo, viene unita dallo Spirito al suo capo, il Signore, il vero liturgo che celebra. Oggi ancora nell’azione liturgica è sempre il Signore che si rivolge a noi, nel nostro tempo. È Lui che fissa l’oggi, l’oggi di Dio, per ciascuno di noi e rivolge quella parola se tu vuoi…vieni…seguimi… va… io ti mando, perché nella liturgia la fede non si esprime solo nei suoi contenuti (ciò che si deve credere) ma si esprime in relazioni vive che creano la comunione con Dio e con Cristo.
    Tra liturgia ed evangelizzazione - questa è l’intenzione degli orientamenti pastorali della CEI – non solo non c’è opposizione ma, al contrario, sinergia e potremmo dire che, proprio nella liturgia, trovano la loro genesi, la loro origine il render conto della speranza che è in noi, l’evangelizzazione e il servizio al mondo.
    Come dimenticare che l’invio in missione, tra i pagani, di Saulo e Barnaba, come ci testimoniano gli Atti al capitolo 13, è avvenuto durante una celebrazione liturgica e che nei cantici della Chiesa antica, raccolti e presenti nel Nuovo Testamento, si celebra il mistero di Cristo ma poi questi cantici si chiudono sempre con una visione in cui il mistero di Cristo è fatto conoscere, desta la lode, provoca l’evangelizzazione. Questa, credetemi, è l’intenzione degli “orientamenti” dell’episcopato italiano che si esprime così al paragrafo 48: “Attraverso la celebrazione liturgica, al cui centro sta Cristo che è morto per tutti ed è diventato Signore di tutta l’umanità, la comunità cristiana dovrà esser condotta a crescere, mediante l’ascolto della Parola e la comunione al Corpo di Cristo, nell’esperienza del discepolato, per essere evangelizzata e per poi uscire dalle mura della chiesa con un animo apostolico aperto alla diaconia e pronto a render conto della speranza che abita i credenti, la marturia.”.
    Ecco, dopo questa premessa, proprio perché la liturgia rende ragione della speranza che è in noi, vi propongo questo semplice itinerario in due punti: 1) cosa significa celebrare e 2) cosa significa spazio e tempo per la celebrazione, che sono i due fuochi dei due paragrafi dedicati dagli “orientamenti” alla liturgia.

    Che cosa significa celebrare

    Che cosa significa celebrare per render conto della speranza che è in noi. Quando i cristiani celebrano essi celebrano il mistero di Dio; non c’è un altro oggetto della celebrazione, né la Chiesa, né la vita ecclesiale e neppure qualche evento che appartiene a noi uomini e di cui noi possiamo esser protagonisti. La celebrazione cristiana è sempre celebrazione del mistero di Dio. È proprio questo che fa della celebrazione una liturgia, un evento. Dico questo, subito e con forza, perché oggi, sovente, al celebrare si dà un’attenzione e ad esso si dirigono tanti sforzi dimenticando ciò che si celebra, il mistero, cioè l’evento totale, dossologico di Gesù Cristo. È lui il mistero e, quando diciamo mistero di Gesù Cristo, noi dobbiamo cogliere la sua vita preesistente alla creazione da sempre presso il Padre; dobbiamo cogliere la sua azione nella creazione: per Lui, attraverso di Lui e in Lui tutto è stato creato; dobbiamo cogliere la sua Parola che in molti modi e in diversi tempi è giunta al popolo di Dio tramite i profeti; dobbiamo cogliere il mistero della venuta nella carne, della sua incarnazione, della sua vita da Betlemme fino al Golgota, la sua passione, morte e risurrezione, la sua glorificazione al cielo, la sua intercessione presso il Padre, la sua gloriosa e misericordiosa venuta. Questo è il mistero di Cristo! E quando celebriamo l’eucaristia è vero che noi mettiamo l’accento soprattutto su morte e risurrezione ma non dobbiamo dimenticare questo, altrimenti abbiamo una comprensione dell’eucaristia e del mistero di Cristo troppo ristretta al punto finale della sua vita. Ma c’è tutto il mistero che è celebrato; è Lui, il Figlio, che ci ha raccontato Dio come Padre; è Lui che ci ha raccontato come dal Padre procede lo Spirito, che è il suo Spirito. Questo è il mistero taciuto nei secoli eterni (Rm 16), nascosto da secoli (Ef 3), ma che il Figlio rivela come realizzazione del disegno d’amore di Dio per gli uomini e con gli uomini. Quando il Verbo si è fatto carne, quando il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo nella pienezza dei tempi, si è compiuto l’evento, quell’evento che ha manifestato Gesù come KurioV. Questo è il mistero che dobbiamo conoscere e nel quale dobbiamo esser coinvolti attraverso la liturgia. Io credo che ancora Cristo dice alla sua assemblea liturgica, oggi più che mai: Ah, se tu conoscessi il dono di Dio, se tu conoscessi il dono di Dio! Quel dono che ci apre e ci introduce alla comunione con Dio. Gesù, secondo il quarto vangelo, ha potuto pregare nella sua grande preghiera al Padre dicendo: “La vita eterna è conoscere te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”.
    Il mistero, dunque, che viene celebrato nella liturgia cristiana era nascosto e, certamente, resta inesauribile perché la sua piena conoscenza resta escatologica. Sarà piena in quell’orizzonte verso cui lo Spirito Santo conduce la Chiesa pellegrinante verso la piena verità. Ma, proprio nella liturgia, dev’esser comunicato l’uomo affinché l’uomo possa, attraverso il suo amen, esser coinvolto nell’evento. La liturgia è, per sua natura, annuncio del lieto messaggio di Dio alla comunità presente ma è anche accettazione da parte della comunità del lieto annuncio. Scrive Giovanni Crisostomo:”Ogni volta che Dio ci annuncia e ci dà il Vangelo la comunità deve prenderlo, abbracciarlo, farlo suo per lodare Dio e vivere il Vangelo a gloria di Dio Padre”. Il cardinal Ratzinger ha scritto: “Nella liturgia cristiana il linguaggio non può avere il senso di voler nascondere, deve rivelare; non può avere il senso di un tacere nel silenzio della singola preghiera isolata ma deve far convergere tutti quelli che pregano verso l’unico soggetto: il noi ecclesiale dell’assemblea, il noi dei figli di Dio che, insieme, dicono Padre Nostro.”
    Il mistero di Dio nella celebrazione liturgica, che è sempre sinergia tra azione di Dio e azione della Chiesa, deve perciò essere accolto per esser vissuto e per essere testimoniato. Certo, siamo consapevoli che nell’invocazione o nell’acclamazione a Dio noi dobbiamo ricorrere anche ad elementi del linguaggio irrazionale, attraverso parole che restano assolutamente indefinibili, quando noi diciamo, soprattutto nella preghiera eucaristica, la santità di Dio, la gloria, quando noi usciamo in quelle esclamazioni Alleluia, Osanna, Marana tha. Si cerca di testimoniare il non detto, l’indicibile, l’ineffabile ma il mistero celebrato non deve restare incomprensibile come se il nasconderlo o il non capirlo fosse la condizione per una vera adorazione del mistero. Il mistero cristiano – non siamo nei misteri pagani e neppure all’interno di logiche di quelle che sono strategie religiose del se appartenenti alle religioni orientali – il mistero cristiano è adorato quando è accolto, conosciuto, compreso e poi realizzato nella vita di chi lo celebra. La celebrazione del mistero dev’esser sempre annuncio del mistero, sicché le parole e i gesti celebrati devono assolutamente annunciare, nella potenza dello Spirito Santo, il mistero della salvezza ed esser capaci di comunicazione perché se non è capace, il mistero, di comunicare ed esser comunicato non genera comunione e non genera neanche testimonianza. Colui che diventa partecipe del mistero, come Paolo, deve diventare diakonoV del mistero, ministro e servo, perché partecipa alla conoscenza del mistero. Solo così potrà annunciarlo.
    Permettetemi un inciso. Qua e là oggi, nello spazio ecclesiale, affiorano delle suggestioni che sono veramente miopi anche se dicono l’intenzione di salvaguardare il mistero. Si ipotizza qua e là di riprendere degli elementi, all’interno della liturgia, che appartenevano alla devotio; addirittura si ipotizza di ritornare a un silenzio durante la preghiera eucaristica. Così si rendono i segni, non accompagnati dalla parola, segni muti, di fronte ai quali l’assemblea è tentata solo dall’immaginario individuale e dallo svuotare la liturgia per vivere devozioni ed esercizi di pietà. Scrive Joseph Ratzinger, con intelligenza: “La liturgia non ha lo scopo di riempirci di un clima di tremore e di presentimenti, con la sensazione del sacro e del santo, ma la liturgia cristiana deve confrontarci con la spada tagliente della Parola di Dio; non ha lo scopo di darci una cornice di bellezza solenne per un silenzioso e intimo rientrare in noi stessi e adorare nell’intimo ma ci vuole includere nel “noi” consapevole dei figli di Dio, il “noi” dell’assemblea liturgica, icona della Chiesa sposa del Verbo.”
    Celebrare il mistero significa, dunque, sempre evangelizzare nel vero senso della parola perché la celebrazione è liberazione della buona notizia, dell’evangelo della salvezza che produce conoscenza, anzi epignosis, sovraconoscenza direbbe Paolo, quella conoscenza che accresce la fede, che conferma la speranza, che rende la carità ardente, che chiede di assumere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, in una conformità di vita con lui, che genera koinonia, attraverso la quale è edificata la Chiesa: Eucaristia in qua Ecclesia fabbricatur. Ma la celebrazione del mistero, proprio perché può soltanto avvenire nella Chiesa in vista della koinonia ecclesiale, sempre da confermare e accrescere, richiede quello che Pio X, nel 1903, definiva actuosa partecipatio, partecipazione attiva. È Pio X che ha questa espressione per primo nel magistero e che il Concilio riprenderà nella Sacrosanctum Concilium, n. 14, “una partecipazione piena, consapevole, attiva”, proprio in vista dell’edificazione della Chiesa quale popolo di Dio, stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa – le espressioni della prima lettera di Pietro -; l’assemblea capace di essere il soggetto integrale della celebrazione, la sposa che va incontro allo sposo veniente, invocandolo con lo Spirito Santo: lo Spirito e la sposa gridano “Vieni”.
    L’assemblea è celebrante e ciascuno in essa è celebrante nel suo modo proprio, rispondente al suo posto, al suo dono-servizio nella Chiesa. Dire questo non significa che tutti devono fare qualcosa di visibile ma partecipare significa esser presente, esser parte consapevole della Chiesa; significa ascoltare con attenzione e l’ascolto attento è operazione attiva, più di altre; significa intervenire con la parola e con il canto, esprimendo il “noi” dell’assemblea che conferma e si intreccia con quel “noi” dell’assemblea di cui chi presiede diventa voce. Nella consapevolezza che nulla è più determinante di ciò che opera il Cristo invisibilmente ma realmente, attraverso la potenza dello Spirito, l’assemblea deve apprestare tutta se stessa perché l’azione di Cristo, attraverso le energie spirituali, sia efficace, accolta dai credenti. Essere là consapevoli, mobilitare il corpo e l’intelletto per stare alla presenza del Signore e far si che la preghiera eucaristica sia di tutti, anche quando è detta solo da chi presiede l’assemblea. Infatti chi presiede dice “noi” per pregare a nome di tutti e tutti associare alla preghiera di Cristo al Padre. Quante volte Congar ha ribadito e non è ancora stato ascoltato. Nella liturgia cristiana non c’è alcun “io” separato dal “noi” comunitario, diceva Congar,e, per questo, va ancora una volta ribadito che la partecipazione attiva è necessariamente richiesta da ciò che è il telos (il fine) della celebrazione liturgica, cioè la koinonia: comunione con il Capo che è Cristo ma anche comunione di membra, essere ed operare con gli altri, la logica del sun (con) e dell’allelon (altro) neo testamentari, esigenza e frutto del sentire e operare con Cristo, edificazione della Chiesa suo corpo.
    Questo che abbiamo ricordato è semplicemente il predisporre tutto, tutta la persona e tutta l’assemblea in vista del culmine della partecipazione liturgica che si realizza in un duplice movimento, straordinario, lo ricordava stamattina Mons. Brandolini in quell’intervento dopo le Lodi. Sempre, sempre nell’azione liturgica c’è un doppio movimento, ascendente e discendente. Il primo, offerta del culto secondo la Parola, culto conforme a logos, logich latreia di Romani 12, che diventa sì offerta della lode, sacrificium laudis ma che tende a diventare offerta del proprio corpo come sacrificio vivente e santo gradito a Dio. E il secondo movimento che è la discesa attraverso lo Spirito della benedizione e delle benedizioni, del dono che il Padre fa all’umanità, che ha tanto amato da dargli l’unigenito suo Figlio. Ed è qui, allora, che l’assemblea deve esprimere la sua accoglienza, la partecipazione al mistero di Cristo. Lo scopo di ogni liturgia, va detto con forza, va detto con forza se si vuole esser fedeli alla grande tradizione, che è sempre d’oriente e d’occidente, lo scopo di ogni liturgia non è innanzi tutto dar gloria a Dio, non è neanche adorare Dio, non è neanche assistere all’azione divina, ma lo scopo è far diventare il mistero di Cristo mistero della Chiesa, far sì che i cristiani diventino il corpo di Cristo, diventino, come amava dire Ireneo da Lione, il Figlio. Ireneo da Lione diceva: Noi non siamo chiamati a diventare figli di Dio, siamo chiamati a diventare il Figlio di Dio nel Figlio. O, come diceva sant’Agostino: Quel mistero che sta sull’altare siete voi, assemblea, voi dovete diventare questo. “Solo se c’è questa piena, consapevole, attiva partecipazione” – aveva scritto Mons. Brandolini – “l’assemblea è dalla liturgia evangelizzata e diventa evangelizzante”.
    I Padri sinodali, nel 1985, a vent’anni dalla conclusione del Vaticano II, chiedevano, nel messaggio finale, che le Chiese locali facciano ogni sforzo per aprire cammini che introducono i fedeli alla vita liturgica e, scrivevano, “da questo dipenderà la piena attuazione della riforma liturgica voluta dal Vaticano II”.
    È urgente, è urgente una catechesi mistagogica e, devo dire, che mi sono rallegrato che un mio fratello abbia aperto questo tema, con voi, che è tanto caro a tutta la nostra comunità. È urgente una catechesi mistagogica per i nostri fedeli che hanno sovente più subito che accolto la riforma liturgica. Ma, torno a dire, anche è urgente per i presbiteri, per i presbiteri, necessario perché devono davvero, oggi, forse riscoprire, soprattutto le nuove generazioni che non hanno vissuto quell’ora che ha visto tutta la Chiesa impegnata nell’assumere la riforma liturgica, devono reimparare questo. E permettetemi una confidenza, l’ultima, l’unica che vi faccio, ma la più grande grazia che Dio m’ha fatto in questi ultimi anni è stato quest’anno. Chiamato dal cardinale di Torino, al ritiro mensile dei presbiteri, ogni mese da ottobre fino a giugno, dove semplicemente è stato fatto questo con i presbiteri: riscoprire la riforma liturgica attraverso il nuovo Ordo eucaristico e attraverso le quattro preghiere eucaristiche. Ho commentato la liturgia, l’ordo liturgico e le preghiere liturgiche e nient’altro ma i preti hanno mostrato una tale consonanza con quel che dicevo e una tale gioia che mi han fatto capire che era la più grande grazia che il Signore mi faceva. Credetemi di questo han bisogno anche i presbiteri non solo i fedeli.

    Spazio e tempo per la celebrazione

    Secondo punto e sarò su questo più breve, anche perché più volte sono intervenuto su questo tema anche attraverso un libro riguardante il giorno del Signore.
    Spazio e tempo per la celebrazione. Gli orientamenti pastorali della Conferenza Episcopale Italiana, in vista di una comunità veramente eucaristica, perché fatta da discepoli del Signore, da cristiani evangelizzati, chiedono soprattutto che questa sia edificata attraverso tempi e spazi precisi della vita dei credenti, tempi e spazi dedicati all’incontro con il Signore. Se leggerete con attenzione gli orientamenti vi renderete conto che nel documento ci sono soltanto due preoccupazioni vere, gli altri sono dei corollari e poi sapete la logica, quando si fanno dei documenti e sono dei documenti in cui poi giungono molti contributi e ognuno vuole che ci sia un’eco del suo contributo, il fuoco, qualche volta, si annacqua, non si vede bene. Ma, se fate attenzione, nel documento si sono due preoccupazioni: il giorno del Signore, condizione essenziale per il futuro del cristianesimo, e il ritorno forte alla comunità cristiana locale che è la parrocchia. La domenica custodisce la parrocchia e la parrocchia custodisce la domenica: se non c’è domenica non c’è parrocchia, se non c’è parrocchia non c’è domenica.
    Di conseguenza i vescovi hanno rifatto ancora una volta l’invito a custodire la centralità della domenica e a impegnare le forze nell’edificazione di una comunità locale, la parrocchia, la realtà in cui deve avvenire il raduno dei figli di Dio dispersi nel mondo. Certamente va ricordata la nota pastorale della C.E.I., del 1984, caduta un po’ nel vuoto, permettetemi di dire, ma un testo che resta il più magistrale della Conferenza Episcopale Italiana: sono ormai passati vent’anni ma è di un’attualità senza fine. Va ricordata la Dies Domini di Giovanni Paolo II, nel ’98. Sono dei testi magisteriali, ricchi di insegnamento, fedeli alla grande tradizione cattolica ma noi ci dobbiamo domandare non tanto quale ricezione da parte dei credenti ma domandarci quale possibilità è stata data a quei testi di raggiungere la reale assemblea cristiana. Chi li ha letti? qualche presbitero? ma la comunità cristiana? chiedete a un cristiano normale se sa che esistono questi testi sulla domenica, chiedetelo. Eppure tutti ormai ci diciamo convinti che dal vivere il giorno del Signore, che è innanzi tutto vivere la liturgia, dipende la vita della Chiesa, la conferma della fede dei cristiani, l’edificazione del Corpo di Cristo. Ciò che può sostenere la memoria e l’attesa del Signore è innanzitutto la liturgia domenicale, nella quale la Chiesa dice la sua appartenenza a Cristo, nella quale è edificata come Chiesa e nella quale trova la fonte per il suo agire nella compagnia degli uomini, nel mondo, nel quotidiano, nella ferialità.
    C’è questa consapevolezza oggi nella comunità cristiana? quando gentili e giudei, ai tempi dell’origine della Chiesa, cercavano di individuare i cristiani e le loro caratteristiche, e non era semplice – pensate che venivano chiamati addirittura atei all’interno dell’area culturale romana – però, pagani e giudei, mettevano subito in evidenza: i cristiani son quelli che si radunano insieme il primo giorno della settimana. Quello era un segno eloquente che rendeva i cristiani emblematicamente riconoscibili dal mondo ma li manifestava anche nella loro verità: un’assemblea con la volontà di diventare koinonia,comunione, fraternità.
    Non posso non ricordare la testimonianza dei cristiani arrestati nel 304 in Africa durante la persecuzione di Diocleziano e arrestati a causa della loro assemblea domenicale, vietata dai decreti dell’imperatore. Nell’interrogatorio Saturnino risponde al proconsole: “Per noi cristiani non è possibile non vivere il dominicus, il pasto del Signore”, non è possibile, ed Emerito, che ha ospitato in casa la celebrazione, risponde prima d’essere arrestata: “Io non ho potuto impedire quest’assemblea perché sine dominicum non possumus”. Ricordate questa parola, di un martire, non uno come noi che si permette di lamentarsi che non c’è comunità cristiana, che la parrocchia non è comunità e che il week-end va in montagna o al mare poi. No, lo dico perché non è serio, è un lusso che dei cristiani dicano : “ma la parrocchia nostra non è comunità, noi non siamo comunità”. E la domenica dove sei? al mare e in montagna. Allora vedete questi cristiani erano arrestati e han detto questa parola che attraverserà tutti i secoli e sarà ricordata ovunque c’è comunità cristiana, sine dominicum non possumus; senza ciò che appartiene al Signore – capite che è un latino “del Signore” quello che ha dato il nome alla domenica – noi non possiamo; dove gli esegeti ancora oggi non sanno capire se il dominicum è il giorno del Signore o se è l’assemblea, corpo di Cristo, ma perché sono immanenti l’uno all’altro, non c’è una senza l’altro.
    Questa non è obbedienza faticosa a un precetto della Chiesa. È la necessità dell’essere cristiani perché il cristiano è colui – sentite quest’espressione straordinaria di Ignazio di Antiochia; per noi sembra esperanto – è colui che vive secondo la logica del “giorno del Signore” (Ignazio di Antiochia ai Magnesi 9, 1) Il cristiano è colui che vive conforme alla domenica. Senza domenica non c’è possibilità di vivere l’eucaristia epi to autw, tutti insieme nello stesso luogo, come indica gli Atti degli Apostoli l’assemblea cristiana. Se non si vive l’eucaristia non c’è possibilità della Chiesa; senza Chiesa la fede diventa ideologia, venerabile memoria della vicenda di Gesù, richiamo spirituale di compattamento per le ipotesi movimentiste, ingrediente, tra tanti, per l’identità culturale e, magari presto, ingrediente forte per la religione civile.
    Oggi è venuto il tempo di riproporre ai cristiani la prassi domenicale; non bisogna più rassegnarsi all’affievolimento e perfino alla perdita del senso pasquale di questo giorno. E occorre chiedere e proporre ai cristiani, con coraggio e intelligenza di vivere la domenica come richiede la loro fede nel mistero pasquale.
    Ma la domenica è celebrazione della speranza, è celebrazione della risurrezione, è celebrazione dell’unica cosa che noi possiamo dare al mondo. Etiche, altri uomini l’han dato, altre culture; c’è un’etica buddista che può sembrare più raffinata ancora di quella cristiana. Non è quello il proprium nostro. Il proprium nostro è l’annuncio della risurrezione, è questa parola, che in Cristo ha trovato il suo evento; quella è la nostra speranza. La domenica va riproposta perché torni ad essere ciò che i cristiani della Chiesa nascente sperimentavano e, allora, noi dobbiamo avere il coraggio di chiedere, permettetemi la parola, una pratica profetica di questo giorno.
    E pensateci, noi viviamo in un mondo diviso, frammentario, attraversato da divisioni, di misconoscimento dell’altro; addirittura un mondo che va verso la barbarie. Un uomo estremamente attento, francese, molto vicino all’episcopato, ha edito, un mese fa, un libro, che uscirà presto in Italia, che si chiama Piccoli passi verso la barbarie. Ebbene in questo mondo, noi cristiani continuiamo, domenica dopo domenica, a fare un gesto elementare e semplice ma forte: ci raduniamo nello stesso giorno e nello stesso luogo per stare insieme, per riconoscerci come fratelli appartenenti allo stesso corpo, per dire la nostra speranza nella risurrezione. Ma pensateci, gli altri uomini quand’è che si radunano? si radunano in maniera frammentaria là dove magari pensano che hanno incontro che serve al loro potere, al loro star bene o al divertimento ma non fanno comunità. Noi, epi to autw, insieme, con uno scopo che è collettivo, non è individualista. C’è un miracolo che avviene ogni domenica e noi, che siamo in ricerca di miracoli straordinari, non ce ne accorgiamo e quindi non lo valutiamo. Ma anche l’umile, seria assemblea, in uno dei più piccoli paesi sperduti o alle periferie della nostra città, di fatto è un anti-babele, è un segno di comunione, è un evento che viene presentato agli uomini, anche se magari sembra che loro non se ne accorgono.
    Ma, soprattutto, coloro che hanno l’incarico di presiedere la comunità, i presbiteri, ricordino questo ammonimento, diretto al vescovo ma vale anche per loro: “vescovo quando predichi ordina, persuadi il popolo ad esser fedele nel radunarsi in assemblea la domenica, a non mancare mai, a convenire sempre, per non restringere le chiese e diminuire il Corpo di Cristo. Voi siete membra di Cristo; se vi sottraete all’assemblea eucaristica voi private il salvatore Gesù Cristo delle sue membra, voi lacerate, voi disperdete il suo Corpo” (Didascalia degli Apostoli 2,59) Proprio in questo giorno santo e glorioso della domenica si dispiega, in tutta la sua pienezza, la perikoresiV, la circolarità tra eucaristia e Chiesa, per cui mentre la Chiesa celebra l’eucaristia è l’eucaristia che edifica e plasma la Chiesa. La Chiesa non esiste senza l’eucaristia e il mondo, l’umanità non cristiana, senza eucaristia, non riceve l’energia di trasfigurazione e di salvezza che si sprigionano da questo mistero.
    E la conclusione. Nella lettera dell’apostolo Pietro c’è una parentesi in cui è messa in evidenza la costruzione dell’edificio spirituale, la Chiesa, in vista di un sacerdozio santo, capace di offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, attraverso Gesù Cristo. Permettetemi, è il testo che dice con chiarezza il legame tra celebrazione liturgica, Chiesa, evangelizzazione: non c’è un testo più chiaro nel nuovo testamento. L’apostolo Pietro vede il compimento della promessa di Dio fatta a Israele nell’esodo, dice: “la comunità cristiana è veramente stirpe eletta, comunità sacerdotale del re, la gente santa, il popolo che Dio si è acquistato.” E questo si compie nella Chiesa e nella liturgia, dove i credenti uniscono all’offerta di Cristo al Padre la loro vita, la loro esistenza concreta ma, anche, proclamano, dice Pietro “chiamati a proclamare le azioni meravigliose di Dio che vi ha chiamati alla sua ammirabile luce”. Cioè è proclamata per tutti gli uomini che la morte non è l’ultima parola e che non è l’ultima realtà perché Cristo è risorto e c’è speranza per l’uomo, ogni uomo.
    Il 1968, permettetemi di dirvi, andai in Bulgaria, andai in alcuni monasteri e in Bulgaria, voi sapete, la persecuzione comunista ha avuto risultati quali non li ha avuti in nessun’altra Chiesa, in nessun’altra nazione. Nei monasteri c’eran due, tre, quattro monaci, età media tra i settanta e gli ottant’anni; le chiese erano deserte; i preti, che erano la figura meno determinante ma più svalutata all’interno dei paesi. E trovai il metropolita di Entropolski e a un certo punto nella conversazione gli dissi: “Padre, che cos potete fare voi come Chiese in questa situazione di persecuzione - che ormai durava da venticinque anni -? Lui mi rispose: “Noi celebriamo con fedeltà la liturgia eucaristica e continuiamo a celebrare con fedeltà la liturgia eucaristica a volte con due, tre, quattro fedeli, soltanto donne vecchie che non hanno da temere nulla dal partito. Ma nella celebrazione della liturgia noi diciamo la speranza: il Signore ci libererà da questa situazione di morte e ci libererà”.
    E noi con la liturgia vogliamo dire la nostra speranza: ecco la speranza all’interno ma anche una speranza all’esterno. Quando celebriamo la liturgia e viviamo il mistero, di questo mistero noi diventiamo servitori, ministri fino a tener conto della speranza che è in noi. All’uomo, l’uomo che noi diciamo non credente, non cristiano, indifferente della nostra società ma che, dentro di sé, lo sappiamo o no, si chiede sovente: “che cosa posso sperare? La nostra celebrazione del mistero e la nostra vita plasmata dal mistero, conforme al mistero celebrato, può… (fine del nastro)


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