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    Anno C

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     Madonna Angelico

    Essere sentinelle ai margini della chiesa
    I domenica di Avvento C
    Lc 21,25-28.34-36

    25 Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti,
    26 mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
    27 Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con potenza e gloria grande.
    28 Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».
    34 State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; [35] come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. [36] Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo».

    Avevamo concluso la lettura liturgica del vangelo secondo Marco con l’annuncio della venuta gloriosa del Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,26-27), e oggi lo stesso evento è posto davanti ai nostri occhi nella versione lucana. Sì, questo evento finale e definitivo, dopo il quale c’è solo il regno di Dio che si instaura su tutta la creazione e su tutta l’umanità di ogni tempo e di ogni terra, è l’Avvento (adventus), che significa “venuta”. Ecco allora il discorso escatologico di Gesù che è una ripresa delle ammonizioni degli antichi profeti riguardo al giorno del Signore, alla venuta del Signore per il suo popolo e per tutta l’umanità. Abbiamo ascoltato sia nel profeta Gioele (4,14-17) sia nel vangelo queste parole e queste immagini: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di genti in ansia per i maremoti e le tempeste” (cf. Is 65,8). Gesù ricorre al linguaggio apocalittico, quello proprio di una corrente spirituale che cercava di far rinascere nel popolo di Dio la speranza, soprattutto in tempi di prova, di persecuzione e di tenebra nei quali era difficile trovare un senso alla propria vita di credenti e a una storia di salvezza. Nella pressura, quando sembra addirittura che la storia sfugga dalle mani di Dio, in realtà vi è più che mai una rivelazione, un alzare il velo (questo il senso letterale di apokálypsis, apocalisse) da parte di Dio, il quale agisce come Kýrios, Signore, e porta a compimento il suo disegno di salvezza. Alla fine della storia i tre spazi in cui viviamo – terra, cielo e mare –, tutti segnati dal male, dalla sofferenza e dal dolore, subiranno un processo di rinnovamento che sembrerà un ritorno al caos primordiale; sarà invece una nuova creazione in cui il cosmo sarà trasfigurato, per diventare dimora del regno di Dio.
    Le immagini di questa fine possono spaventarci, ma cerchiamo di decodificarle. Il sole, la luna e le stelle nel mondo dei profeti e di Gesù erano soprattutto degli idoli, degli dèi, per le genti della terra ed erano adorati come potenze divine; ebbene, in quel giorno della venuta del Figlio dell’uomo queste creature celesti saranno dunque demitizzate e detronizzate per sempre, perché solo il Signore nostro Dio sarà Dio e Re dell’universo. Di questo potere di Dio sul cosmo e sulla storia vi è già stato un segno nell’ora della morte in croce di Gesù, quando “verso mezzogiorno si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato” (Lc 23,44-45): ovvero, tutte le creature furono turbate da quell’evento della morte del “giusto” (Lc 23,47), perché erano testimoni della morte del loro Signore, di colui attraverso il quale erano state create.
    Gesù dunque qui annuncia questa manifestazione di Dio alla fine della storia e dei tempi, una fine che arriverà all’improvviso. Non si tratta di un domani lontano, di un evento che riguarderà l’ora nella quale, per cause intrinseche all’universo, esso avrà una fine così come ha avuto un inizio: no, è un evento che risponderà a una parola di Dio, a un suo decreto, un evento vicino, che ci coglierà in modo da sorprenderci. Improvvisamente, senza che nessuno di noi possa prevederlo, “apparirà il Figlio dell’uomo su una nube con grande potenza e gloria” (cf. Dn 7,13) e la sua presenza si imporrà su tutto l’universo. Nessuno potrà sottrarsi a questa visione che rivelerà a tutti la vera identità di Gesù. Quell’uomo, Gesù di Nazaret, che “passò facendo il bene” (At 10,38), che fu condannato a una morte ignominiosa, lui che era giusto e innocente, capace di amare e di perdonare fino alla fine (cf. Lc 23,34), proprio quell’uomo è in Dio in pienezza, perché “in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), nel suo corpo di uomo risorto e trasfigurato per sempre.
    Scrive il veggente Giovanni, riprendendo le parole del profeta Zaccaria riguardo al giorno del Signore (cf. Zc 12,10): “Ecco, viene sulle nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che l’hanno trafitto” (Ap 1,7; cf. anche Gv 19,37). Tutti lo riconosceranno nelle trafitture delle mani, dei piedi e del costato, trafitture non scomparse nel corpo spirituale del Risorto, che restano in eterno nella sua carne umana trasfigurata, ormai divinizzata; trafitture che gli umani gli hanno inflitto ogni volta che hanno ferito e colpito l’altro, il fratello, il povero, l’innocente, l’ultimo, il senza voce e senza dignità riconosciuta, il carcerato, lo straniero. Questa la parusia, la presenza manifesta del Crocifisso risorto nella gloria di Dio. È un evento che si impone, un evento a cui nessuno sfugge, un evento temibile ma anche misericordioso, perché chi appare è colui che ha portato il peccato del mondo, è colui che è venuto a sedersi alla tavola di noi peccatori (cf. Lc 7,34), che non è stato tra i giusti e i potenti di questo mondo ma è venuto a cercare chiunque di noi si senta veramente perduto (cf. Lc 19,10).
    Che fare dunque in attesa di quel giorno? Vigilare, stare attenti a se stessi, avere cura di se stessi, avere cura di quella che è la nostra vera identità, il nostro essere umani, osservare la realtà nella quale si è immersi, abitare la vita reale del nostro tempo. Per questo Gesù ricorre all’immagine del contadino che vive tra gli alberi di frutta, che li conosce, li osserva, li cura, e dal fico comprende anche l’andamento delle stagioni. Quando la gemma di questa pianta, appena accennata nell’inverno, si gonfia, cresce e sembra pronta ad aprirsi, allora il contadino sa che sta per arrivare l’estate. Così, quando noi leggiamo in profondità eventi del nostro tempo e realtà dei nostri luoghi, siamo autorizzati dal Signore nella forza dello Spirito santo a interpretarli come “segni”, segni dei tempi e dei luoghi, segnali capaci di indicare qualcosa: segni-segnali dei tempi e dei luoghi che i discepoli di Gesù devono essere esercitati a interpretare, per comprendere come e dove va la storia guidata da Dio (cf. Lc 21,29-33).
    I discepoli di Gesù, i credenti in lui, noi, dovremmo dunque non abbatterci di fronte a situazioni di crisi, di dolore e devastazione che ogni giorno conosciamo e vediamo operanti su tutta la terra. Dobbiamo invece “sollevare la testa”, assumere la postura dell’uomo in cammino, in posizione eretta, sorretto dalla speranza. Immagine straordinaria: l’umano in piedi, con il capo levato nella parrhesía, nella franchezza e nella convinzione che ciò che accade è comunque per la salvezza; l’umano che non teme e quindi cammina sicuro verso il Signore veniente. È anche la postura dell’umano in preghiera davanti a Dio, che desidera l’incontro con chi ama; è la postura della sentinella che in piedi, sveglia, attenta, scruta l’orizzonte per essere pronta a gridare alla città che il Signore viene, sta per giungere, sta per manifestarsi nella gloria.
    Questa immagine della sentinella la conosciamo, si trova nel profeta Isaia, ma è soprattutto un’immagine che riguarda noi monaci: non perché supponiamo di avere questa postura della sentinella, ma perché è la tradizione della chiesa trasmessa di generazione in generazione che ci ha dato la vocazione di essere sentinelle sulle mura, tra la chiesa e il mondo, ai margini. Non dimentichiamo quella profezia di Isaia: “Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle. Giorno e notte non devono mai tacere, mai riposare, ma sempre essere vigilanti, sempre pregare, addirittura pregare non permettendo al Signore di riposarsi e invocando sempre la sua venuta (cf. Is 62,6-7). Sì, questa è la nostra vocazione: sentinelle ai margini della chiesa, sentinelle che invocano la venuta del Signore. Per questo la nostra Regola per ben cinque volte ci ricorda questa nostra vocazione di sentinelle in attesa della venuta gloriosa del Signore. Un’attesa, innanzitutto, dell’incontro con il Signore nella morte, perché la morte è l’evento in cui sarà anticipata la venuta del Signore per ciascuno di noi (cf. RBo 8). Attesa anche attraverso il celibato, che è la testimonianza che ormai “la scena di questo mondo passa” (1Cor 7,3) e che il Signore viene presto e vale la pena attenderlo come unico Sposo (cf. RBo 18). Attesa nella condizione di “stranieri e pellegrini” (1Pt 2,11) che camminano verso il Regno, verso la Gerusalemme celeste, questo dono che il Signore ci farà e che noi attendiamo con la nostra povertà, la povertà del cuore e dei beni che vogliamo sempre condividere (cf. RBo 22). Attesa mediante la veglia nella notte, per essere di tutto corpo, anima e spirito un fratello, una sorella che combatte contro il sonno e che, vegliando nella notte, attende il Signore (cf. RBo 36). Infine attesa nella celebrazione eucaristica, che per noi, soprattutto per noi monaci, è cibo e bevanda per un cammino, per membri deboli, peccatori, fragili, peccatori del popolo di Dio; non è un cibo per giusti, è solo un cibo per chi si sente povero e peccatore. Celebriamo l’eucaristia sapendo che è solo un segno, fino al suo ritorno (cf. RBo 37).


    Un’immersione per la remissione dei peccati
    II domenica di Avvento C
    Lc 3,1-6

    1 Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilene,
    2 sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.
    3 Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati,
    4 com'è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
    Voce di uno che grida nel deserto:
    Preparate la via del Signore,
    raddrizzate isuoi sentieri!
    5 Ogni burrone sarà riempito,
    ogni monte e ogni colle sarà abbassato;
    le vie tortuose diverranno diritte
    e quelle impervie, spianate.
    6 Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!

    Per l’evangelista Luca l’inizio dell’annuncio del Vangelo si ha con la chiamata e la missione di Giovanni il Battista, che non a caso egli ci presenta già come “colui che annuncia il Vangelo” (cf. Lc 3,18). Gesù, infatti, era nato a Betlemme circa trent’anni prima (cf. Lc 3,23), ma la sua vita era stata caratterizzata dal nascondimento. Quei tre decenni restano per tutti i vangeli “gli anni oscuri di Gesù”, nel senso che sappiamo che egli è stato allevato a Nazaret (cf. Lc 2,51-52), poi è cresciuto ed è diventato una persona matura: non conosciamo però con esattezza dove ciò sia avvenuto, anche se supponiamo che Gesù abbia trascorso quel tempo nel deserto, quale discepolo di Giovanni.
    Ecco allora il racconto solenne di Luca, che menziona proprio, e in posizione finale, di rilievo, il deserto. Vale la pena riportarlo alla lettera: “Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode principe della Galilea, e Filippo, suo fratello, principe dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània principe dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne, cadde su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto”. Quest’ultimo è l’evento decisivo: la parola di Dio viene su un uomo, Giovanni, asceta che abita nel deserto di Giuda, e lo istituisce profeta, cioè porta-parola dello stesso Signore Dio. La profezia che da cinque secoli taceva in Israele si rende dunque di nuovo presente in uomo che, reso predicatore itinerante dalla Parola, percorre tutta la valle del Giordano, regione marginale situata tra la terra santa e il deserto, per far ritornare a Dio il suo popolo.
    Giovanni predica la conversione, ossia l’esigenza di un mutamento di mentalità, di comportamento e di stile di vita, e chiede che questa volontà, questa decisione che può avere origine solo nel cuore, sia accompagnata da un’azione semplice, umana: si tratta di lasciarsi immergere (questo, alla lettera, il senso del verbo “battezzare”) nelle acque del fiume Giordano. Questo atto è immagine di un affogamento: si va sott’acqua, si depone nell’acqua “l’uomo vecchio con i suoi comportamenti mortiferi” (Col 3,9; cf. Rm 6,6; Ef 4,22), e si viene fatti riemergere dalle acque come uomini e donne in grado di “camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Questa immersione, segno che significa un ricominciare, una novità, ed è compiuto pubblicamente, davanti a tutti e davanti al profeta che immerge, diventa un impegno. Non è una delle tante abluzioni prescritte dalla Torah per riacquistare la purità perduta, ma è un atto compiuto una volta per sempre, che indica una precisa opzione, che dovrà essere guida e criterio di tutta la vita che verrà. Conversione, ritorno sulla strada che porta a Dio, ritorno al Signore, rivolgersi a lui: ecco ciò che questa immersione significa.
    Secondo il vangelo (cf. anche Mc 1,4) in questo gesto è contenuta una grande novità: la remissione dei peccati da parte di Dio. Sì, quell’immersione, segno della volontà di conversione, è strettamente legata alla remissione, al perdono dei peccati per opera di Dio. È questa offerta potente di perdono da parte di Dio, è questo suo amore preveniente a causare la conversione, oppure è la conversione a causare il suo perdono? Nessun dubbio: “è Dio che produce in noi il volere e l’operare” (cf. Fil 2,13) e che sempre ci offre, ben prima che noi lo desideriamo o lo cerchiamo, il suo amore, che è misericordia infinita. Se noi predisponiamo tutto per ricevere questo amore, se sappiamo accoglierlo e dunque ci convertiamo, allora il dono del perdono dei peccati ci raggiunge e opera ciò che nessuno di noi potrebbe operare: i nostri peccati, il nostro aver fatto il male è cancellato e dimenticato da Dio, che ci guarda come creature irreprensibili perché perdonate e giustificate dalla sua misericordia. Questo è il Vangelo, la buona notizia che comincia a risuonare tra le dune e le rocce del deserto e il fiume Giordano, per opera di Giovanni: ormai un profeta è in mezzo al popolo, che accorre a lui per ascoltare la parola di Dio annunciata dalla sua voce.
    Giovanni, chiamato dalla parola di Dio caduta su di lui come cadeva sugli antichi profeti (cf. Ger 1,2; Ez 1,3), compie una missione ben precisa, preannunciata dal profeta Isaia (cf. Is 40,3-5): una missione, un ministero di consolazione. Non possiamo qui non fare memoria dei “monaci” della comunità di Qumran che vivevano proprio in quella regione del deserto in cui era apparso pubblicamente Giovanni. Essi avevano applicato a se stessi proprio questa profezia di Isaia che chiedeva di aprire una strada nel deserto e di appianarla per la venuta del Signore, assumendola come fonte del loro ministero e della loro missione. Per questo erano venuti nel deserto per vivere secondo la volontà di Dio e per attendere nella preghiera e nello studio perseverante delle sante Scritture la venuta del suo Messia e del suo regno. Giovanni, asceta come loro nel deserto, condivide con loro la stessa missione, e il suo manifestarsi è conforme alla medesima profezia di Isaia: “Com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia, ‘voce che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, rendete dritti i suoi sentieri … Ogni carne vedrà la salvezza di Dio’”. Questa voce – Luca lo sottolinea – vuole raggiungere “ogni carne”, ogni uomo e ogni donna, non solo i figli e le figlie di Israele, in modo che tutti possano ricevere la salvezza di Dio: questa infatti non è rivolta solo al popolo delle alleanze e delle benedizioni, come annunciavano gli antichi profeti, ma Giovanni il Battista proclama che è una salvezza universale, per tutti, per tutti! Dunque buona notizia per tutti, “non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti”, come recentemente ha gridato con gioia papa Francesco (Cattedrale di Firenze, 10 novembre 2015, Incontro con i rappresentanti del convegno nazionale della chiesa italiana).
    Tutto ciò avviene ai margini della terra santa, alle soglie del deserto, con il suo vuoto, il suo silenzio, la sua solitudine. Quale contrasto tra la “grande” storia, che vede regnare Tiberio, Erode e gli altri, che registra il sommo sacerdozio di Anna e Caifa, e la storia di salvezza, che si realizza in modo umile, nascosto! Niente di ciò che dà lustro al potere politico è presente; niente di ciò che caratterizza la solenne liturgia sacerdotale appare: no, semplicemente un fiumiciattolo, dell’acqua in cui immergersi, dei corpi che scendono e risalgono dall’acqua per azione delle braccia di un uomo, Giovanni, il quale è solo voce che nel deserto chiede una vita altra, nuova, chiede agli uomini e alle donne di ricominciare a vivere secondo la volontà del Signore. Quello di Giovanni era un battesimo in cui l’acqua era eloquente di per sé, non oscurata o nascosta da tante pretese azioni cultuali: acqua, parola, corpi che sono immersi e poi riemergono, braccia che accompagnano chi discende e poi lo risollevano… piena umanità di quel segno-sacramento dell’immersione. È sufficiente però definirlo “battesimo”, per comprenderlo purtroppo solo come rito e non come gesto e parola, gesto che parla, parola che agisce!


    “Che cosa dobbiamo fare?”
    III domenica di Avvento C
    Lc 3,10-18

    10 Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?».
    11 Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto».
    12 Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?».
    13 Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
    14 Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
    15Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo,
    16 Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
    17 Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
    18 Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

    Il vangelo di domenica scorsa ci presentava la vocazione di Giovanni il Battista e la sua missione (cf. Lc 3,1-6). Come era accaduto per i profeti, anche su di lui “cadde”, cioè “a lui fu rivolta la parola di Dio” (Lc 3,2), mentre abitava nel deserto. Giovanni è il profeta che non solo porta la Parola (pro-phétes) al popolo, ma è colui che è venuto per indicare la Parola stessa di Dio ormai presente, fattasi carne (cf. Gv 1,14) in Gesù di Nazaret suo discepolo. Nella fede Giovanni sa che la parola di Dio non cadrà su Gesù, non sarà rivolta a lui, perché egli è la Parola stessa di Dio: il precursore annuncia dunque al popolo la conversione in vista di questo incontro e del possibile riconoscimento di Gesù.
    Cosa chiede Giovanni nella sua predicazione? L’evento che si compie è straordinario, unico in tutta la storia: Dio è tra gli uomini, uomo tra gli uomini, talmente uomo da aver avuto bisogno di un maestro (Giovanni), di una comunità di fratelli (quella del Battista), per “venire al mondo” nella sua soggettività adulta capace di prendere e di rivolgere la parola. Come era stato generato da Maria, educato da lei e da Giuseppe, così aveva avuto bisogno di un “tempo oscuro” nel deserto per essere iniziato alla sua missione. Sì, tutto avviene nella semplicità della vita umana quotidiana, e così anche ciò che il Battista chiede nella sua predicazione appartiene alla vita quotidiana. Affinché il popolo sia preparato all’incontro con il Veniente, Giovanni non richiede di fare sacrifici e olocausti, di recarsi più volte al tempio per partecipare alle solenni liturgie, di rispettare calendari liturgici o di fare particolari digiuni, ma chiede azioni umanissime. Ecco dunque le sue risposte alle domande che le folle gli pongono, domande che ogni essere umano, di ogni generazione, sempre rinnova nella storia: “Che cosa dobbiamo fare? Che fare?”.
    Innanzitutto egli afferma: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto”. Ecco ciò che bisogna fare in vista della venuta del Signore: condividere l’essenziale, cioè cibo, vestito, casa. Questo è sufficiente per dire che uno si è convertito, ha fatto metánoia, ha cambiato la sua vita in vista dell’incontro con il Signore veniente. Giovanni ci stupisce, perché non chiede ciò che ancora oggi la predicazione ecclesiastica chiede: liturgie, novene, pii esercizi… Questi infatti sono strumenti, solo strumenti per acquisire una più grande carità, per essere più facilmente capaci di condividere l’essenziale. Dopo aver incontrato Gesù, Zaccheo dà la metà dei suoi beni ai poveri (cf. Lc 19,8) e così la salvezza entra nella sua casa (cf. Lc 19,9); i giudei di Gerusalemme, diventati cristiani, condividono i loro beni (cf. At 2,44; 4,32). Noi cristiani, come tutti gli uomini religiosi, ci preoccupiamo invece così spesso di regole di purità, mentre il Vangelo ci chiede di preoccuparci di condividere ciò che abbiamo in casa, ciò che è nostro, con chi è nel bisogno: allora saremo nella vera purità (cf. Lc 11,41)!
    Vi sono poi alcune categorie specifiche di persone, presenti nell’uditorio di Giovanni, che gli pongono la stessa domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”. È il caso dei pubblicani, esattori delle tasse in combutta con il potere imperiale e frequentatori di pagani. A loro il Battista non chiede cose straordinarie, non chiede neppure di abbandonare la loro professione, ma di viverla nella giustizia. Per questi funzionari tentati dal sopruso, dalla vessazione finanziaria, dal rubare nell’esigere le tasse, è sufficiente praticare una grande virtù: la giustizia. Anche i militari sono attratti da Giovanni, uomo così inerme, senza difesa, destinato a essere ucciso proprio da loro, esecutori degli ordini dei potenti di questo mondo, di quanti opprimono e dominano la povera gente e si fanno anche chiamare benefattori (cf. Lc 22,25). E Giovanni cosa chiede ai militari? Non di disertare, perché nella loro funzione c’è un compito necessario, quello di garantire la libertà e l’ordine di qualsiasi convivenza sociale; no, chiede di rinunciare alla violenza. Com’è facile la violenza per chi ha armi, com’è facile compiere denunce false, com’è facile – siccome le paghe sono normalmente base – rivalersi sulla gente, usando l’immunità professionale concessa a polizia e forze dell’ordine: quando si è più forti, diventa facilissimo schiacciare i deboli…
    Giovanni predica dunque una conversione che chiede un mutamento concreto del vivere quotidiano, un mutamento che cambia profondamente i rapporti interpersonali. In reazione a queste sue parole, si crea un clima di grande attesa nel popolo di Israele, al punto che sorgono domande su di lui: “Chi è questo Giovanni? È un profeta? È il Profeta (cf. Dt 18,15.18)? È Elia redivivo?”. Non appena Giovanni si rende conto di questi pensieri presenti tra i suoi ascoltatori, subito proclama con chiarezza: “Io sono solo uno che immerge nell’acqua, ma ecco, viene il più forte di me, a cui non sono degno di slegare i laccidei sandali. Egli vi immergerà in Spirito Santo e fuoco”. Tra le due immersioni, i due battesimi, c’è continuità ma anche differenza. Entrambi significano spogliazione dell’uomo vecchio segnato dalla logica del peccato e rinascita dell’uomo nuovo, ma il battesimo di Giovanni è solo un’anticipazione di quello definitivo: l’uno è immersione nell’acqua, l’altro nel fuoco dello Spirito santo. Quest’ultimo battesimo, l’immersione operata da Gesù, è quello che la comunità dei discepoli riceverà nel giorno di Pentecoste (cf. At 2,1-11), quando sarà resa nuovo popolo di Dio mediante la nuova alleanza, perché la Legge sarà scritta nei cuori (cf. Ger 31,31-33) e lo Spirito nuovo abiterà un cuore nuovo (cf. Ez 11,19; 36,26). E proprio perché annuncia questa immersione nel fuoco dello Spirito santo, Giovanni, in conformità alle Scritture alle quali obbedisce, deve annunciare che questo Veniente, questo più forte sarà giudice, con in mano il ventilabro del giudizio, della separazione tra grano e pula, tra giusti e ingiusti.
    Così, dice Luca, “Giovanni annunciava al popolo il Vangelo”: già lui, Giovanni, annuncia la stessa buona notizia di Gesù. Va però detto che questo suo discepolo, Gesù, da lui annunciato e presentato a Israele, lo deluderà nel realizzare la sua missione: sarà diverso e non sarà quel giudice che Giovanni aveva previsto. Giovanni si è dunque sbagliato? La sua predicazione è stata un’illusione (cf. Lc 7,18-19; Mt 11,2-3)? No, ma Dio la realizzerà solo alla fine dei tempi: per ora a Giovanni spetta il compiere ogni giustizia (cf. Mt 3,15), a Gesù l’annunciare e il fare misericordia. E Giovanni, in carcere, accetta ancora una volta, in piena obbedienza, di rinnovare la sua avventura della fede. Sì, come dirà Gesù, “tra i nati da donna nessuno è più grande di Giovanni” (Lc 7,28; cf. Mt 11,11).


    Il grande mistero della Visitazione
    IV domenica di Avvento C
    Lc 1,39-45

    39 In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
    40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.
    41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo
    42 ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!
    43 A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?
    44 Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.
    45 E beata colei che hacreduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

    Il quarto vangelo confessa in modo dossologico, glorioso: “La Parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda tra di noi” (Gv 1,14), e anche i vangeli sinottici ci testimoniano che la Parola di Dio si è umanizzata in mezzo a noi in Gesù di Nazaret, il figlio di Maria e di Giuseppe.
    Luca, in particolare, è l’evangelista che vuole precisare quando e come questa Parola, ben prima di apparire pubblicamente, ha abitato in mezzo a noi, e con audacia ci racconta il momento stesso in cui, secondo le parole del messaggero di Dio, la potenza dello Spirito santo stende la sua ombra su Maria (cf. Lc 1,35), una ragazza vergine di Nazaret, e la rende madre di un figlio di Adamo che solo Dio ci poteva dare: suo Figlio! Così, nel nascondimento, nel silenzio avviene l’umanizzazione di Dio: da quel concepimento la Parola di Dio è in mezzo a noi e Maria, la madre di Gesù, è la tenda nella quale essa prende dimora. Secondo Luca questa Parola, questo lógos toû theoû, inizia un viaggio, vive tra gli umani (cf. Bar 3,38), da Nazaret a Gerusalemme e da Gerusalemme fino agli estremi confini del mondo, fino a Roma (cf. Lc 2,22.41; 9,51; 24,47; At 1,8; 28,30-31). Ecco “la corsa della Parola” (cf. 2Ts 3,1), l’evangelizzazione che inizia – lo si dimentica troppo spesso – con il cammino, il viaggio di una donna, di Maria, la madre del Figlio di Dio.
    Sì, perché Maria appena ricevuto l’annuncio della sua gravidanza (cf. Lc 1,26-38), per un impulso interiore causato dalle parole dell’angelo, che rivelandole la sua maternità le ha anche rivelato la fecondità del grembo di Elisabetta, sua cugina, si mette in viaggio in fretta, la fretta escatologica, verso la montagna della Giudea. Dalla Galilea alla Giudea, da Nazaret alla periferia di Gerusalemme, un viaggio di più giorni. Da cosa è mossa Maria? Dalla carità verso l’anziana Elisabetta, che tutti dicono “la sterile” (cf. Lc 1,36), ma anche dall’ansia di comunicare la buona notizia, il vangelo ricevuto dall’angelo, nonché dal desiderio di ascoltare la cugina come donna nella quale Dio ha compiuto meraviglie. Maria appare subito come donna di carità, donna missionaria. Ed ecco l’incontro tra le due donne: Maria entra nella casa di Zaccaria, marito di Elisabetta, sacerdote che è afono, dunque non ha potuto dare la benedizione al popolo nel tempio, dopo l’annuncio dell’angelo circa la nascita di un figlio da sua moglie (cf. Lc 1,8-22).
    Entrando in casa, Maria saluta Elisabetta: una donna gravida di fronte a un’altra donna gravida, entrambe in questa condizione in virtù della grazia e della potenza di Dio, che ha reso fecondo il loro grembo, uno vergine, l’altro sterile; entrambe portatrici di un figlio voluto da Dio, tende per due embrioni sui quali dimora una straordinaria e unica vocazione da parte di Dio. Il figlio di Maria si manifesterà come Messia, Figlio del Dio Altissimo, re sul trono di David (cf. Lc 1,32-33); il figlio di Elisabetta come colui che “camminerà davanti al Messia con lo spirito e la potenza di Elia” (cf. Lc 1,17), profeta ripieno di Spirito santo ancor prima di nascere. Ecco dunque donne e due promesse. E non appena il saluto di Maria raggiunge Elisabetta, comunicandole lo shalom, il bambino al sesto mese nel grembo di quest’ultima si mette a danzare, esulta, scalcia di gioia, come solo le madri sanno riconoscere… Nello stesso momento lo Spirito santo scende su Elisabetta per riempire lei e il bambino della sua presenza e della sua forza. Così, di fatto, Maria causa la prima pentecoste cristiana: lo Spirito sceso su di lei nell’ora dell’annunciazione ora, grazie alla sua presenza, percepita dal bambino Giovanni come quella della tenda, dell’arca del Signore (cf. Es 40,34-35; 2Sam 6,9.14), scende su Elisabetta e sullo stesso Giovanni.
    Questo racconto dà le vertigini: il Messia Gesù, non ancora nato ma presente nel grembo della madre Maria, incontra il precursore, profeta presente egli pure nel grembo della madre Elisabetta e, riconosciuto, causa la gioia, l’esultanza, la danza, come quella di David davanti all’arca della presenza del Signore (cf. 2Sam 6,12-15). Avviene l’incontro con il Cristo da parte di tutta la profezia che lo ha preceduto, profezia di Israele ma anche delle genti, che discerne la venuta del Veniente tanto desiderato e profetizzato; e questo riconoscimento provoca la danza adorante e gioiosa per il compimento delle promesse di Dio. Tutto questo accade grazie a due donne che si incontrano. Elisabetta allora, riempita di Spirito santo profetico, è resa capace di interpretare la danza del suo bambino nel grembo e così esclama, con un’acclamazione liturgica (verbo anaphonéo: cf. 1Cr 15,28; 16,4.5.42; 2Cr 5,13 LXX): “Tu, Maria, sei benedetta tra tutte le donne, sei beata perché hai creduto alla parola del Signore, sei la madre del mio Signore (Kýrios!)”. Non riconosce in quella gravidanza solo la fecondazione divina (“Benedetto sarà il frutto del tuo grembo [, o Israele]”: Dt 28,4), ma confessa che quell’embrione è il Signore concepito da Maria per la potenza dello Spirito di Dio. Sì, il figlio di Maria è il Cristo Signore annunciato dal salmo 110 (v. 1), dunque Maria è l’Israele benedetto, la terra benedetta perché contenente la benedizione piena e definiva di Dio per tutta l’umanità.
    Sono tante le donne benedette nella storia della salvezza, anche se lo dimentichiamo troppo facilmente: da Sara a Elisabetta, infatti, la loro presenza nelle Scritture è continua. Ma Maria, proprio in quanto madre del Signore, è la benedetta tra tutte, è colei che tutte le generazioni acclameranno “beata”! Elisabetta, pur consapevole di ciò che Dio ha operato nel suo grembo sterile, sa comprendere questa differenza: Maria è l’arca dell’alleanza, il luogo della presenza di Dio nel mondo, il sito in cui è localizzabile, individuabile il Dio fatto carne.
    Qui il mistero è grande: mistero del Dio nascosto,
    nascosto in un bambino ancora anonimo,
    cioè ancora senza l’imposizione umana del nome,
    ma con un nome gradito a Dio: Gesù, “il Signore salva”.
    Nello stesso tempo, mistero della profezia,
    in Giovanni ancora afona,
    ma che in lui sa già indicare il Veniente, il Signore,
    perché egli sa subito vivere la vocazione di precursore.
    Tutto questo nell’utero di due donne che parlano l’una all’altra, si ascoltano e si rallegrano lodando Dio. Il suono della voce di Maria raggiunge Elisabetta, che “canta” a lei e per lei; la confessione della fede di Elisabetta raggiunge Maria, che canta il Magnificat (cf. Lc 1,46-55).
    Queste non sono preistorie del Messia, ma è la storia del Messia, del Figlio di Dio fattosi umano tra di noi: di questo sono eloquenti due donne, Elisabetta e Maria, donne capaci di fede nella parola del Signore. E come non dire qualcosa dei due uomini implicati in questa storia? Zaccaria è muto, afono per la sua poca fede; Giuseppe pensa di ripudiare Maria in segreto (cf. Mt 1,19). Certamente non erano capaci di fede come le loro spose, ma non erano neppure capaci di relazione, di cura dell’altro e di carità, come invece sono queste due donne.


    Natale del Signore
    Lc 2,1-14

    1 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra.
    2 Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria.
    3 Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
    4 Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide.
    5 Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
    6 Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.
    7 Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c'era posto nell'alloggio.
    8 C'erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge.
    9 Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore,
    10 ma l'angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:
    11 oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.
    12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
    13 E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
    14«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
    e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

    Ogni anno in questa notte di Natale noi ascoltiamo sempre lo stesso vangelo, la stessa buona notizia, in una breve pagina di Luca. Eppure questa ripetitività non ci disturba, anzi è per noi una grazia grande, perché ci permette di verificare come il Vangelo, la buona notizia, sia inesauribile, sempre nuova, compresa in modo sempre più profondo, perché noi l’ascoltiamo non solo come “sta scritto” ma anche con la nostra vita che passa di anno in anno, con gli eventi che viviamo, sempre diversi, e con la gioia o il dolore che essi ci procurano. Mettiamoci dunque ancora una volta in ascolto.
    Il vangelo secondo Luca testimonia una storia iniziata con l’annuncio dell’angelo a Zaccaria, sacerdote nel tempio di Gerusalemme (cf. Lc 1,5-25). La parola di Dio indirizzata a Zaccaria gli rivela non solo la nascita per lui di un figlio, ma anche la nascita di colui attraverso il quale Dio “visiterà e porterà la redenzione al suo popolo”: così, infatti, Zaccaria benedice il Signore (cf. Lc 1,68). Poi la rivelazione da parte di Dio raggiunge anche Maria di Nazaret: questa giovane vergine sarà la madre del Messia, e lo sarà per la potenza dello Spirito santo sceso su di lei per dichiarare che un Figlio così solo Dio lo poteva dare all’umanità (cf. Lc 1,26-38).
    “Si compiono” dunque “per Maria i giorni della gravidanza”, e si compiono mentre lei e Giuseppe si trovano a Betlemme, la città di David. Da Nazaret, dove abitavano, erano infatti saliti in Giudea, obbedienti al censimento imperiale ordinato da Cesare per tutta l’ecumene. Augusto, imperatore sebastós, cioè “degno di adorazione”, comanda sul mondo con tutta la sua forza e il suo potere, regna visibilmente, mentre il Figlio di Dio non solo nasce come tutti gli umani, nella fragilità e nella debolezza, ma nasce come figlio sconosciuto, fuori della sua terra, nella povertà di una stalla della campagna di Betlemme.
    Questo è lo scandalo dell’incarnazione di Dio! Le profezie che parlano di lui, lo preannunciano e lo acclamano, proprio alla sua nascita, come “bambino sulle cui spalle è il potere, il cui Nome è Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace” (cf. Is 9,5); e invece questo bambino appare debole, figlio di migranti, nato in incognito, senza che vi sia per lui un luogo degno, una casa! Il racconto di Luca, inoltre, è sobrio, essenziale, senza alcuna concessione allo straordinario. Una donna incinta partorisce un figlio in un riparo di pastori nella campagna di Betlemme. Sicché nessuno se ne accorge, nessuno di quelli che contano lo sa… Maria, la madre, lo partorisce nel dolore, come ogni donna, mentre il marito Giuseppe è là, solo, con lei; poi certamente deve averlo trattato come fanno tutte le madri con chi esce dal loro grembo, quindi lo ha avvolto in fasce e lo ha deposto in una mangiatoia per le pecore.
    Una nascita come tante e tra tante, eppure era la nascita di un uomo che solo Dio ci poteva dare, un uomo che era la forma stessa di Dio (cf. Fil 2,6), un uomo che era la Parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,14). Da quel momento Dio – possiamo dire – non solo era presente in mezzo a noi, ma era uno di noi, umanità della nostra umanità, fratello di ogni umano che è nel mondo. Ecco il grande mistero che celebriamo a Natale: l’Altissimo si è fatto bassissimo, l’Eterno si è fatto mortale, l’Onnipotente si è fatto debole, il Santo si è fatto solidale con i peccatori, l’Invisibile si è fatto visibile. In breve, Dio, cioè il non uomo, si è fatto umanità in Gesù, il figlio di Maria. Questo evento ha prodotto la crisi di ogni relazione nella quale Dio è Dio e l’uomo è un uomo, perché la trascendenza, la santità li separa. Con il Natale l’umanità è in Dio e Dio è nell’umanità, e non è più possibile dire e pensare Dio senza dire e pensare l’uomo. Proprio quel bambino dalla nascita fino alla morte racconterà Dio (cf. Gv 1,18: exeghésato) con la sua vita, le sue parole, il suo comportamento, con gli sguardi e le carezze, con le mani che abbracciano e curano, con il suo corpo offerto, dato, consegnato in mano ai violenti e ai malfattori.
    Questa è la singolarità del cristianesimo, che chiede alla fede cristiana di essere “una religione che continuamente esce dalla religione” (Marcel Gauchet), perché dopo questa nascita del Dio-uomo, prima c’è l’uomo e non il tempio,
    prima c’è l’uomo e non il sabato,
    prima c’è l’uomo e non la legge,
    prima c’è l’uomo santo e non la terra santa.
    Con questa nascita del Dio-uomo, che cosa può significare ancora l’espressione “Dio degli eserciti”, presente tante volte nei profeti e nei salmi, se Dio è un bambino disarmato? Che cosa può significare ancora l’espressione “Dio delle vendette” (Sal 94,1), se Dio è tra noi, debole a tal punto che noi umani dobbiamo avere cura di lui?
    Di questa rivelazione si fanno ministri i messaggeri di Dio, prima l’angelo che appare ai pastori, poi le schiere degli angeli che lodano Dio e riconoscono la sua gloria. Sì, proprio quei pastori, ritenuti indegni del culto al tempio e nelle sinagoghe, proprio quei pastori ritenuti ultimi nella società di Israele, sono i primi destinatari del Vangelo. A loro l’angelo del Signore, rischiarando le loro menti e i loro cuori, annuncia la buona notizia. Come già nel caso di Zaccaria (cf. Lc 1,19), si usa il verbo euanghelízomai, “portare la buona notizia del Vangelo”, ma qui in senso pieno e definitivo. È la buona e bella notizia annunciata a tutto il mondo, che da tanti secoli l’attendeva:
    Oggi a Betlemme, nella città di David,
    è nato per voi un Salvatore, che è il Messia Signore.
    Qui c’è tutta la fede cristiana: Gesù, uomo nato da Maria, è il Salvatore, il Messia, il Kýrios-Signore, cioè porta il Nome stesso di Dio! E questo messaggio come viene proclamato? Dalla semplicità di un neonato avvolto in fasce e deposto in una greppia: tutto è detto da una realtà umanissima, umile, quotidiana… la nascita di un bambino nella povertà!
    Amici e amiche care, tremo nel pensare e nel comunicarvi che questa è la nostra fede: umanissima, senza miracoli, senza nulla di straordinario; solo la vita umana nella sua realtà! Una parola attribuita a Gesù dai padri della chiesa dice: “Hai visto un uomo, hai visto Dio”. Sì, perché Dio ormai si vede, si incontra, si riconosce, si ama, si adora nell’uomo, nella donna che ogni giorno incontriamo.


    "Non sapevate che devo stare presso il Padre mio?"
    Santa famiglia
    Lc 2,41-52

    41 I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
    42 Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa.
    43 Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
    44 Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti;
    45 non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
    46 Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava.
    47 E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
    48 Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
    49 Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
    50 Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
    51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore.
    52 E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

    Nella riforma liturgica avvenuta dopo il concilio Vaticano II questa domenica dopo Natale è stata voluta come domenica della santa famiglia di Gesù, con la conseguenza di creare delle difficoltà nella lettura cursiva degli eventi riguardanti la venuta al mondo di Gesù. Facciamo perciò obbedienza al lezionario, chiedendo ai lettori di pazientare di fronte a questo “disordine”, per cui nei prossimi giorni ascolteremo la narrazione di eventi anteriori a quelli del racconto odierno.
    Giuseppe e Maria erano credenti fedeli e osservanti della Legge di Dio data a Mosè, dunque ogni anno facevano la salita, il pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua, memoriale della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto. Quando Gesù, il figlio nato a Betlemme e ormai cresciuto con loro a Nazaret, compì dodici anni, i suoi genitori lo portarono a Gerusalemme affinché diventasse, attraverso un rito che si svolgeva al tempio, bar mitzwà, “figlio del comandamento”, cioè un uomo credente responsabile della sua identità davanti al Signore e in mezzo al suo popolo. Il ragazzo allora – come avviene ancora oggi tra gli ebrei – saliva sull’ambone dove si leggevano le Scritture, mostrava di saperle leggerle in ebraico come stava scritto e poi, interrogato dagli scribi, gli esperti della Legge, rispondeva, dando prova della preparazione che aveva ricevuto e dello studio in cui si era impegnato, alle domande riguardanti la volontà del Signore inscritta nella Torà.
    Così fece anche Gesù. Poi Giuseppe e Maria, parte della carovana partita dalla Galilea, intraprendono il cammino del ritorno, finché alla sera si accorgono che l’adolescente Gesù non è con loro. Un figlio che si è perduto, o che comunque non è accanto ai genitori in viaggio al calare della notte, significa ansia, paura, e dunque ricerca affannosa, innanzitutto all’interno della carovana. Ma Gesù risulta un figlio che non c’è, che desta la domanda: “Dov’è?”, domanda ben più profonda di quanto possa apparire in quella circostanza di sofferenza e di paura. Dov’è Gesù? Giuseppe e Maria decidono allora di ritornare a Gerusalemme e di cercarlo in città, come un figlio che si è perduto o che se n’è andato dalla famiglia. Per tre giorni quella ricerca continua, e tutti noi sappiamo cosa significhi non trovare più qualcuno che amiamo, non sapere dove sia, dover fare i conti con la prospettiva di una sua mancanza definitiva. Tre giorni, il tempo dell’attesa secondo la tradizione ebraica, il tempo dell’angoscia che trova un termine, perché al terzo giorno Dio si fa presente (cf. Os 6,2)… Dopo averlo cercato ovunque, ritornano infine al tempio, là dove Gesù aveva letto le Scritture, diventando un credente adulto, maturo, un vero figlio d’Israele.
    Ed ecco, trovano Gesù proprio al tempio, dal quale non era uscito: era rimasto a dimorare là dove dimora la Shekinà, la Presenza di Dio. Egli è seduto tra i rabbini, gli uomini esperti e interpreti delle sante Scritture, intento ad ascoltarli e a interrogarli. Stiamo attenti a non leggere in questo episodio qualcosa di miracoloso e di straordinario, bisognosi come siamo di segni e miracoli, pur di non capire il vero messaggio: Gesù non sta facendo un’omelia che stupisce tutti, ma si fa veramente discepolo dei rabbini, in primo luogo attraverso il loro ascolto e poi interrogandoli, per comprendere meglio ciò che il Signore dice a chi lo ascolta. Dovremmo dunque dire che questa pagina evangelica ci parla di “Gesù discepolo”, ragazzo credente, dotato di “un cuore che ascolta” (lev shomea‘: 1Re 3,9) e capace di porsi domande. Come Samuele cominciò a profetizzare a dodici anni (cf. 1Sam 3), come Daniele a questa età disse una parola di sapienza (cf. Dn 13,45-49), così Gesù manifesta che, anche nella sua crescita, quello che più cercava e più lo coinvolgeva era la presenza del Signore capace di “parlare” a chi si fa figlio dell’insegnamento e “servo della Parola” (cf. Lc 1,2). Ecco dov’è Gesù!
    I suoi genitori sono stupefatti, sorpresi, e la madre Maria lo rimprovera: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo!”. Gesù con semplicità replica loro senza biasimarli, ma facendo una rivelazione, che si esprime con una prima domanda: “Perché mi cercavate?”. Parole che certamente hanno raggiunto il cuore di Maria e Giuseppe, i quali hanno dovuto interrogare se stessi, i loro sentimenti e la loro fede riguardo a questo Figlio dono di Dio, nato per volontà di Dio e non per loro volontà.
    Poi Gesù pone una seconda domanda: “Non sapevate che devo stare presso il Padre mio?”. Egli ha un Padre che è il suo vero Padre, da lui riconosciuto come tale: è Dio, e Gesù, ora che è stato messo al mondo ed è cresciuto, deve stare, rimanere presso il Padre, nel tempio che al suo cuore, il Santo dei santi, contiene la sua Presenza. Gesù deve stare presso il Padre, è una necessità per lui, ed egli tante volte nella sua vita sentirà e annuncerà ai suoi discepoli che qualcosa “è necessario, bisogna, occorre” (deî). Lungo tutta la sua esistenza Gesù obbedisce a tale “necessità”, non perché questo sia il suo destino, dal momento che egli conserva sempre una piena libertà, ma perché questa è la sua volontà e la sua missione: compiere ciò che Dio suo Padre gli chiede. Non a caso questa necessitas risuonerà martellante soprattutto a partire dall’ora della sua salita a Gerusalemme per vivere la passione, la morte in croce e ricevere da Dio la vita per sempre attraverso la resurrezione (cf. Lc 9,22; 13,33; 17,25; 22,7.37; 24,7.26.44). Ma ogni volta che Gesù ha detto: “È necessario”, chi lo ha ascoltato non ha compreso. Qui si tratta dei suoi genitori, più tardi saranno i suoi discepoli (cf. Lc 18,34)…
    In ogni caso, per compiere anche il comandamento dell’amore verso il padre e la madre, Gesù torna con loro a Nazaret e resta loro sottomesso. Ma ormai il segno è stato dato e verrà il giorno in cui essi comprenderanno, soprattutto Maria, che “custodiva tutti questi eventi-parole nel suo cuore”, come brace sotto la cenere. Il fuoco della fede divamperà per lei alla croce e a Pentecoste (cf. At 2,1-12).
    Questa è la festa della santa famiglia, famiglia che si vuole esemplare per le nostre famiglie. Ma allora la si comprenda bene: qui è contestato ogni legame familiare che possa relativizzare il legame con il Signore e l’obbedienza a lui. Di fatto in questa pagina, come nelle altre che mettono in evidenza il legame tra Gesù e la sua famiglia (madre e clan), vi è una forte critica alla famiglia tradizionale con i suoi codici, assolutamente contraddetti dal Vangelo. Dirà Gesù:
    Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me (Mt 10,37; cf. Lc 14,26).
    Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà (Mc 10,29-30; cf. Mt 19,29-30; Lc 18,29-30).
    Dunque, questa festa della santa famiglia pone in crisi la nostra famiglia tradizionale!


    Un abisso di luce
    II dopo Natale
    Gv 1,1-18

    1 In principio era il Verbo,
    e il Verbo era presso Dio
    e il Verbo era Dio.
    2 Egli era, in principio, presso Dio:
    3 tutto è stato fatto per mezzo di lui
    e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
    4 In lui era la vita
    e la vita era la luce degli uomini;
    5 la luce splende nelle tenebre
    e le tenebre non l'hanno vinta.
    6 Venne un uomo mandato da Dio:
    il suo nome era Giovanni.
    7 Egli venne come testimone
    per dare testimonianza alla luce,
    perché tutti credessero per mezzo di lui.
    8 Non era lui la luce,
    ma doveva dare testimonianza alla luce.
    9 Veniva nel mondo la luce vera,
    quella che illumina ogni uomo.
    10 Era nel mondo
    e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
    eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
    11 Venne fra i suoi,
    e i suoi non lo hanno accolto.
    12 A quanti però lo hanno accolto
    ha dato potere di diventare figli di Dio:
    a quelli che credono nel suo nome,
    13 i quali, non da sangue
    né da volere di carne
    né da volere di uomo,
    ma da Dio sono stati generati.
    14 E il Verbo si fece carne
    e venne ad abitare in mezzo a noi;
    e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
    gloria come del Figlio unigenito
    che viene dal Padre,
    pieno di grazia e di verità.
    15 Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
    «Era di lui che io dissi:
    Colui che viene dopo di me
    è avanti a me,
    perché era prima di me».
    16 Dalla sua pienezza
    noi tutti abbiamo ricevuto:
    grazia su grazia.
    17 Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
    la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
    18 Dio, nessuno lo ha mai visto:
    il Figlio unigenito, che è Dio
    ed è nel seno del Padre,
    è lui che lo ha rivelato.

    Il prologo del vangelo secondo Giovanni è un canto dossologico dell’operare di Dio nell’universo: dalla creazione nell’in-principio (cf. Gen 1,1) alla venuta di Dio stesso nel mondo attraverso il farsi carne umana (sárx) della sua Parola (Lógos). Questo testo è un abisso di luce, una cascata di illuminazioni che fanno segno, che indicano come Dio ha voluto entrare nella storia e diventare uomo tra noi umani. Impossibile farne qui un commento, perciò ci mettiamo solo in ascolto di alcune parole che ritmano questo canto.
    Innanzitutto l’evangelista osa immergere il suo sguardo nell’eternità, tempo-spazio impossibile da comprendere pienamente per noi umani, così fragili e di passaggio in questo mondo. All’inizio, prima dunque della creazione dell’universo, la Parola era, esisteva fuori del tempo, da tutta l’eternità. Era Parola di Dio, era rivolta verso Dio, era Dio stesso. Ma questa vita divina, questa circolarità di vita in un movimento estatico ha voluto donarsi, ha voluto uscire da se stessa, ed è così che ha creato l’universo. Proprio quella Parola di Dio, uscendo da Dio accompagnata dal Soffio di Dio, da lei inseparabile (cf. Gen 1,2-3) – come si vede anche dall’analogia con l’azione umana del parlare, unione inestricabile di soffio e parola –, ha dato inizio alla creazione, mostrandosi vita e luce capaci di vincere le tenebre: le tenebre, infatti, facevano e fanno resistenza, ma non sono mai riuscite né mai riusciranno a fermare e a sopraffare questa luce.
    Ma questa uscita, questo esilio della Parola di Dio da Dio stesso non è cessato con la creazione, che in realtà non è mai terminata. Per unirsi sempre di più alla creazione, questa Parola che era la forma data all’adam, all’essere umano, volle diventare la carne umana stessa, un terrestre tratto dalla terra. Così è entrata nel tempo e ha piantato la sua tenda (skené) tra di noi in un uomo nato da una donna e dal Soffio divino: Gesù di Nazaret. La Parola che era fuori del tempo si è fatta fragile e mortale, un uomo che si poteva vedere, ascoltare, palpare (cf. 1Gv 1,1). C’è stata come una discesa graduale della Parola da Dio nel mondo (cf. Eb 1,1), attraverso una parola indirizzata ad Abramo, donata a Mosè, caduta sui profeti; una Parola che ha preso dimora in Israele come sapienza; una Parola come Presenza, Shekinà di Dio nel Santo dei santi del tempio. Ma in Gesù questa Parola di Dio non è stata solo indirizzata a, residente in, ma è divenuta “Parola fatta carne” in lui (cf. Eb 1,2-3). “Venuta la pienezza del tempo” (Gal 4,4), compiutosi il tempo (cf. Lc 2,6), la Presenza di Dio è umana, e Gesù di Nazaret è veramente e totalmente uomo come noi, “figlio di adam” (Lc 3,38).
    Da quell’ora del concepimento di Gesù nell’utero di Maria, Dio è un uomo e un uomo è Dio! Così avviene l’ammirabile scambio (“O admirabile commercium”, come canta un antico testo liturgico); così è avvenuta la rivelazione totale del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe nella nostra carne; così Dio si è donato a noi, si è dato all’umanità, si è unito alla creazione, perché l’aveva creata per amore, un amore mai venuto meno, ma sempre rinnovato in tutta la storia. E la vita di Gesù – come ha ben compreso il quarto vangelo – sarà l’esplicitazione di ciò che è annunciato qui nel prologo: Gesù è la vita del mondo (cf. Gv 11,25), è “la luce del mondo” (Gv 8,12), è il racconto, la rivelazione del Dio che nessuno ha mai visto, come il prologo si conclude.
    Ma un Dio che si esilia da se stesso per amare chi è fuori di lui, un Dio che si mostra mortale, che Dio è?, possiamo chiederci. Questo è lo scandalo dell’incarnazione, che è sempre stata la verità più difficile da credere, in ogni tempo, anche da parte degli stessi cristiani. Cosa non hanno fatto i cristiani in questi duemila anni per occultare l’umanità vera e reale di Gesù Cristo! Lo hanno privato di una vita umana, lo hanno privato della fede, lo hanno privato dei limiti psicologici, lo hanno svuotato della sua debolezza e della sua morte per renderlo uguale agli dèi. Gli uomini, cercando Dio come a tentoni ma non arrivando a trovarlo e a conoscerlo (cf. At 17,27), lo hanno fabbricato con i loro desideri e proiezioni; e così hanno tentato di fare anche con Gesù! Se c’è una colpa che i cristiani dovrebbero confessare più di molte altre è il non aver saputo confessare che Gesù è venuto nella carne e con il sangue (cf. 1Gv 5,6-8), è venuto “imparando l’obbedienza dalle cose che patì” (cf. Eb 5,8), è venuto come l’uomo per eccellenza: “Ecce homo!” (Gv 19,5). “Ecco l’uomo!” è la dichiarazione di Pilato, o addirittura di Gesù stesso, nel momento del dono totale della sua vita, del suo corpo e del suo sangue all’umanità.
    Potremmo parafrasare le parole dell’Apostolo Paolo (cf. 1Cor 1,22-24): “Mentre i giudei cercano manifestazioni di un Dio onnipotente e le genti manifestazioni di Dio nei ragionamenti intellettuali, noi predichiamo che Dio è umano, umanissimo, è un Dio che si è fatto vedere in Gesù, uomo mortale, ma capace di dare la vita per gli altri (cf. Gv 10,10; 15,13), uomo fragile e limitato ma capace di vincere le forze del male. Un uomo che è nato dall’utero di una madre, che si è fatto peccato assimilandosi ai peccatori (cf. 2Cor 5,21), morto come uno schiavo e un malfattore, sepolto nella terra, disceso agli inferi tra i morti, come ogni figlio di adam: dunque un Dio che si è sprofondato nella creazione, come avviene per ogni umano che viene al mondo, vive e muore”. D’altra parte, Gesù è stato un uomo unico nell’amare gli altri, nel dare se stesso agli altri, nello stare dalla nostra parte davanti a Dio: questa la sua unicità umana così affascinante e, potremmo dire, così divina…
    Nella storia la Parola è stata l’uomo Gesù rivolto verso Dio, essendo Dio fattosi uomo, facendosi esegesi (exeghésato: Gv 1,18), narrazione, spiegazione, rivelazione di Dio, perché ci ha raccontato definitivamente chi è Dio: l’amore (cf. 1Gv 4,8.16). Per essere dunque figli e figlie di Dio, dobbiamo soltanto essere uomini e donne a immagine dell’uomo Gesù, il Figlio di Dio.


    In fila con i peccatori
    Battesimo del Signore
    Lc 3,15-16.21-22

    15 Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo,
    16 Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
    21 Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì
    22 e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».

    È la festa del battesimo di Gesù, della sua immersione da parte di Giovanni nel fiume Giordano: il primo atto di Gesù uomo maturo, la sua prima apparizione pubblica. Tutti i vangeli ricordano questo evento posto all’inizio del ministero di Gesù, e ciascuno lo narra in modo proprio: cerchiamo dunque di comprendere ed esplicitare le peculiarità del racconto di Luca.
    Giovanni il Battista aveva annunciato un Veniente più forte di lui, che avrebbe immerso (cioè battezzato) non nelle acque del Giordano ma in Spirito santo e fuoco. E tuttavia questo Veniente, che è discepolo di Giovanni e porta il nome non ancora noto di Jeshu‘a, Gesù, va anche lui a farsi battezzare. Luca sottolinea che egli fa questo insieme a “tutto il popolo”, espressione enfatica che vuole porre l’accento sul popolo radunato da colui che “evangelizzava” (Lc 3,18), cioè annunciava la buona notizia. Solidale con quel popolo, uomo come tutti gli altri, mescolato alla folla anonima, in fila tra uomini e donne, senza nessuna volontà di distinzione dai peccatori, Gesù si fa immergere da Giovanni: con il popolo, in mezzo al popolo, uno del popolo, dove questo termine indica certamente la gente ordinaria, ma anche quel nuovo popolo che Dio sta radunando per farne il suo popolo per sempre. Questo il primo gesto della vita pubblica di Gesù: non una predicazione, non un miracolo, non qualcosa che potesse meravigliare i presenti, ma un gesto umano di umiltà, di sottomissione a Dio e di totale solidarietà con i suoi fratelli peccatori.
    Luca vuole anche mettere in evidenza ciò che accade a Gesù, ciò che diventa sua esperienza personalissima in quell’evento. A differenza degli altri vangeli rivela che Gesù riceve il battesimo mentre sta pregando, cioè sta invocando il suo Dio e Padre. Cosa significa pregare? Poche cose: fare silenzio, fare spazio dentro di sé allo Spirito di Dio per accogliere quella parola di Dio che lo Spirito stesso fa risuonare. Questa e solo questa è la preghiera cristiana: non parole dette a Dio, non ripetizione di formule, non esercizio di affetti, ma silenzio, predisposizione di se stessi all’accoglienza della Parola e dello Spirito di Dio. Avviene per Gesù ciò che avviene per la prima comunità dei discepoli, dopo la sua resurrezione, quando resterà in preghiera, farà spazio allo Spirito e riceverà il dono (cf. Atti 1,4; Atti 2,1-12). Per questo Gesù, secondo Luca, parlando della preghiera e del suo esaudimento precisa: “Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono” (Lc 11,13).
    Gesù dunque si fa immergere da Giovanni ma soprattutto prega, appresta tutto il suo essere per farsi dimora dello Spirito santo, che solo Gesù vede scendere dal cielo sotto forma di colomba per dimorare in lui. È il segno dello Spirito di Dio che covava sulle acque al momento della creazione (cf. Gen 1,2), il segno della Shekinà, la Presenza del Dio vivente. I cieli si aprono per questa discesa da Dio dello Spirito e, con lo Spirito, ecco risuonare la parola personalissima rivolta a Gesù: “Tu!”. “Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato” sono le parole del salmo 2 (v. 7), che Gesù sa pregare e che sente rivolte a sé, accompagnate da tutta la gioia del Padre nel pronunciarle: “Sono contento di sceglierti, in te ho posto la mia gioia”, la gioia di Dio che sceglie il suo Servo (cf. Is 42,1). Nessuno ascolta quella voce, nessuno vede scendere lo Spirito all’infuori di Gesù, che nella fede dopo quell’evento potrà dunque ripetere: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha unto e mi ha inviato a portare la buona notizia ai poveri” (Lc 4,18; Is 61,1). Questa la sua chiamata, che Gesù realizzerà pienamente e puntualmente quale Servo del Signore, vocazione profetica e messianica.
    “Gesù aveva circa trent’anni” (Lc 3,23), annota Luca subito dopo, dunque ha trascorso molti anni di vita nascosta. Dal suo bar mitzwà, quando a dodici anni divenne “figlio del comandamento” (cf. Lc 2,41-50), fino a questa rivelazione di Dio, ha vissuto un’esistenza ordinaria e oscura. Inutile ricostruire con la fantasia e l’immaginazione quegli anni, per farne discendere una spiritualità di Gesù in famiglia, di Gesù operaio, di Gesù a Nazaret… Ci basti sapere che ha atteso, che non si è dato ruoli né una vocazione, ma che ha sempre saputo vivere l’oggi di Dio. Siamo certi soltanto della sua obbedienza a Dio piuttosto che agli uomini e alla famiglia (cf. Lc 2,49; At 5,29); della sua disponibilità a fare posto nella propria vita e nel proprio corpo allo Spirito santo, “il suo compagno inseparabile” (Basilio di Cesarea); del suo esercitarsi nell’arte dell’ascolto della Parola di Dio, che egli trovava nell’assiduità alle sante Scritture, studiando l’ebraico, lingua ormai desueta, imparando da maestri a leggere e interpretare la Legge e i Profeti, mettendosi alla sequela di Giovanni come discepolo. Questo fino a circa trent’anni, quando ormai era un uomo maturo e, per il suo tempo, avanti negli anni. E quando il suo maestro Giovanni fu imprigionato da Erode (cf. Lc 3,19-20), ecco venuta la sua ora, l’ora di far risuonare la sua parola, l’ora di proclamare il Vangelo, l’ora di percorrere le vie della Galilea e della Giudea per “passare tra gli umani facendo il bene” (cf. At 10,38).
    Questo cammino va dall’immersione nelle acque del Giordano all’immersione nelle acque della passione e della morte (cf. Sal 69,2-3). E anche nell’ora della morte Gesù sarà come uno di noi, annoverato e crocifisso tra due malfattori (cf. Lc 22,37; 23,33; Is 53,12), e perciò solidale con i peccatori, come lo era stato per tutta la vita. Li aveva preferiti ai giusti, facendosi battezzare insieme a loro da Giovanni; li preferirà ancora ai giusti morendo in croce tra di loro, ma arrivando a promettere proprio a uno di loro: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). E appena morto sentirà di nuovo la voce del Padre: “Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato”, voce che lo richiama dai morti, Spirito santo che lo rialza alla vita eterna. L’Apostolo Paolo rileggerà questa storia in modo sintetico all’inizio della Lettera ai Romani: “Cristo Gesù, … Figlio di Dio, nato dalla stirpe di David secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito santo, attraverso la resurrezione dei morti” (Rm 1,1.3-4).


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