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    Che cos’è

    l’anafora eucaristica?

    Enrico Mazza

    Se cerchiamo il termine ‘anafora’ in un normale dizionario, abbiamo una risposta deludente perché non troviamo il significato liturgico di questo termine; infatti, troviamo che designa una figura retorica, e questo non ha nulla a che vedere con la celebrazione eucaristica. Se, invece, ci rivolgiamo ad un’opera che tratta di liturgia o di patristica, troviamo il significato specificamente liturgico di questo termine, che designa la grande preghiera eucaristica: «I formulari eucaristici della chiesa siro-occidentale chiamano anafora quella parte dell’eucaristia che va dal bacio di pace fino alla comunione (circa 70 anafore). La chiesa etiopica, di tradizione particolare ed eclettica, designa con anafora l’intera liturgia eucaristica. Presso le altre, l’anafora va dal bacio di pace fino alla dossologia finale della prece eucaristica propriamente detta» . ‘Anafora’ deriva dal verbo greco [1] ‘ana-phero’ che significa innalzare, mandare verso l’alto, offrire. Il prefisso ‘ana-’ sottolinea fortemente che la preghiera viene inviata in alto ossia elevata a Dio. ‘Anafora’, dunque, è praticamente sinonimo di ‘prosfora’, e serve a designare l’offerta della preghiera eucaristica.
    È nella tradizione orientale che il termine ‘anafora’ designa la preghiera eucaristica ma, nell’uso recente della liturgia occidentale, ha finito per designare anche quei formulari occidentali, diversi dal Canone romano, che richiamano i grandi testi orientali o per struttura o per contenuto.
    La preghiera eucaristica inizia con la dichiarazione che è cosa buona è giusta che noi rendiamo grazie a Dio,[2] e termina con la dossologia finale che proclama la gloria del Padre, formulata secondo la fede trinitaria: Per ipsum et cum ipso et in ipso est tibi Deo Patri omnipotenti in unitate Spiritus sancti omnis honor et gloria per omnia saecula saeculorum; i fedeli rispondono Amen [3]. Questo è un criterio descrittivo, che serve a identificare la preghiera eucaristica e vale, grosso modo, per le varie famiglie liturgiche, nonostante le differenze anche profonde che ci sono tra loro.

    1. Da dove nasce la preghiera eucaristica?

    Nel cenacolo, Gesù prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, dicendo che ne mangiassero, poiché quello era il suo corpo; allo stesso modo, dopo la cena, egli prese il calice, rese grazie di nuovo, con una preghiera più lunga e articolata di quella usata all’inizio della cena, quando aveva dato ai discepoli il pane spezzato, e dopo questo rendimento di grazie aveva dato loro il calice, dicendo che ne bevessero tutti perché quello era il calice del suo sangue. Fatto questo, aveva aggiunto un altro comando, il comando di ripetere quella cena in memoria di lui. Si trattava di ripetere ciò che egli aveva fatto ossia di celebrare il rito del pane e del calice come lui stesso li aveva celebrati.
    Nella ripetizione dei suoi gesti, dunque, sia il pane sia il calice debbono essere accompagnati da una preghiera di azione di grazie. Ne segue che l’azione di grazie avrebbe dovuto essere doppia, ossia una per il pane e una per il calice. Nella chiesa prenicena questo è accaduto effettivamente, dato che ci sono dei testi liturgici particolarmente arcaici che attestano la doppia azione di grazie . [4] Ben presto, però, si verificarono dei mutamenti nella struttura della cena rituale cristiana; ne è testimone già Paolo che, in 1 Cor 10,16-17, descrive l’eucaristia che si celebra a Corinto. Qui il rito del calice e del pane, pur essendo ancora distinti l’uno dall’altro, sono già stati accostati e unificati. La struttura dei due riti, con il rito del calice che precede quello del pane, è una struttura caratteristica dell’uso giudaico del Qiddush, un rito che apre la cena festiva. In base a questo dato possiamo dire che, qualora la riunione dei fedeli comporti anche una cena ordinaria – come si vede in 1Cor 11, 17-23 – la celebrazione eucaristica avviene prima della cena.
    In Paolo, dunque, è presente un primo cambiamento della struttura dell’eucaristia: mentre nell’ultima cena il rito del pane viene celebrato prima di cena e il rito del calice si trova dopo la cena, in 1 Cor 10,16-17 scompare il rito del calice al termine della cena e tutto è collocato prima di cena .[5]
    A causa di questo spostamento, dato che il rito del pane e quello del calice sono praticamente congiunti, avviene un altro cambiamento che riguarda l’azione di grazie. Questa non viene ripetuta per il secondo elemento, dato che è già stata fatta sul primo dei due elementi [6]. Si tratta di una preghiera di rendimento di grazie particolarmente ricca, i cui temi valgono per il pane e per il calice che ormai sono visti per modum unius, ossia come un’unica azione rituale . [7]
    Le prime testimonianze cristiane che ci parlano di questa preghiera di azione di grazie, la chiamano semplicemente ‘eucharistia’ ed è per questo, che anche il pane e il calice saranno chiamati ‘eucharistia’.
    Successivamente, questo termine sarà utilizzato in modo specialistico solo per il pane e per il vino: sarà dunque necessario che nasca un’altra terminologia per indicare la preghiera eucaristica. In Oriente abbiamo i termini ‘anafora’ e ‘prosfora’ con i loro equivalenti nelle varie lingue. Passiamo ora all’Occidente. La tradizione della chiesa romana conosce una sola preghiera eucaristica, il Canone romano che, di volta in volta, è stato chiamato Prex,[8] Prex mystica,[9]Prex canonica, [10] Canon,[11] Praedicatio,[12] (Sacra) Oratio,[13] Praedicatio canonis,[14] Canon actionis.[15]
    Il termine anaphora, come tale, non esiste in Occidente; tuttavia, ne esiste l’equivalente latino. Infatti la liturgia visigotica (o Vetus hispanica) designa il prefazio con il termine inlatio, che è l’equivalente latino di anaphora. Esamineremo più avanti questa questione.

    2. La funzione santificatrice della preghiera eucaristica

    Perché la preghiera eucaristica? Per fare ciò che ha fatto Gesù, obbedendo al suo comando: egli rese grazie sul pane e sul vino, e anche la chiesa fa il rendimento di grazie sul pane e sul vino. Inoltre, i testi ora citati presentano una ulteriore prospettiva: dicono che la preghiera eucaristica serve a trasformare il pane e il calice nel corpo e sangue di Cristo. In Ambrogio c’è un’affermazione molto chiara: il pane e il vino sono stati trasfigurati nella carne e nel sangue di Cristo dalle parole del canone, definito “sacrae orationis mysterium”.[16] Agostino, poi, sarà nella stessa linea, ispirandosi direttamente a un testo di Ireneo, e dirà che il pane e il vino sono consacrati dalla preghiera sacramentale, se possiamo tradurre così la locuzione “prece mystica”.[17] È Giovanni Crisostomo che parla della funzione esemplare dell’azione di grazie di Gesù nei confronti della nostra preghiera eucaristica: «Rese grazie prima di dare ai discepoli (il suo corpo) perché anche noi rendessimo grazie. Rese grazie e cantò un inno dopo averlo dato, affinché anche noi facessimo altrettanto». [18] Questa dottrina non è solo di questi autori, e non è nuova, dato che la troviamo già in Giustino. Parlando del pane e del vino che vengono distribuiti in comunione, egli dice che non si tratta di pane e vino comuni, ma del corpo e sangue di Cristo a causa di una parola di preghiera che viene da lui.[19] Per mostrare questo, Giustino prosegue con la citazione del racconto evangelico dell’ultima cena. È evidente che questa parola di preghiera è l’azione di grazie che Gesù pronunciò nell’ultima cena e che ha dato origine alla preghiera eucaristica della chiesa.
    L’aspetto santificatorio, ora descritto, è messo in particolare evidenza dalla liturgia Assira d’Oriente che ha definito la preghiera eucaristica come ‘santificazione’. Infatti, l’anafora degli Apostoli Addai e Mari – caratteristica di questa tradizione liturgica – è intitolata ‘La Santificazione degli Apostoli’. [20] È possibile che questo modo di definire l’anafora, derivi dalla grande importanza che ha il Sanctus nella tradizione siriaca; oppure dalla concezione dell’anafora come sacrificio che viene innalzato a Dio. In ogni caso, questa concezione dell’anafora si ripercuote nel dialogo introduttorio: invece del solito invito a rendere grazie (Rendiamo grazie al Signore nostro Dio), c’è un’altro tipo di invito: «L’offerta viene offerta a Dio Signore di ogni cosa»; la risposta rimane la stessa: «È degno e giusto». [21] In questo testo si mette in evidenza che l’anafora è la preghiera che viene offerta a Dio, e così viene sottolineato il carattere sacrificale della preghiera eucaristica come offerta. Questo si lega molto bene con la concezione dell’offerta della preghiera che si trova sia nel dialogo introduttorio sia nelle dossologie all’interno del testo anaforico. All’origine di tutto questo c’è la concezione sacrificale della preghiera, com’è attestata dalle omelie mistagogiche di Teodoro di Mopsuestia [22] e dalla tradizione anaforica alessandrina. [23]
    In conclusione. La preghiera eucaristica, è immagine dell’azione di grazie di Gesù nell’ultima cena ed ha lo scopo di santificare i santi doni, ossia il pane e il vino che, pertanto, diventano corpo e sangue di Cristo. Da qui si capisce la grande importanza che la preghiera eucaristica ha sempre avuto nella chiesa, al punto da trasmettere al pane e al vino il suo stesso nome: ‘eucharistia’. Infatti, il pane e il vino sono accompagnati e contraddistinti dalla preghiera eucaristica.
    Con ragione Daniele Gelsi afferma che il termine greco ‘anafora’ è particolarmente indicato a esprimere il carattere sacrificale di questa preghiera. [24]

    3. Le varie famiglie liturgiche

    La distinzione tra le varie famiglie liturgiche non sempre coincide con la distinzione tra le varie chiese o riti. Anche le anafore si dividono in varie famiglie i cui confini, però, non sempre coincidono con i confini che distinguono tra loro le varie chiese, o riti. Inoltre, bisogna tenere presente che, spesso, le varie anafore sono legate tra loro sia per gli influssi reciproci, sia per l’origine sia per il modo in cui questi testi si sono formati. Per questo motivo sarebbe molto utile costruire una sorta di albero genealogico che renda ragione della storia di ciascun’anafora, ma le nostre conoscenze non sono ancora mature per arrivare a questo risultato. Possiamo solo dire che questo compito rappresenta uno dei traguardi più importanti nella ricerca sulle anafore eucaristiche. Per ora, quindi, dobbiamo accontentarci di descrivere la struttura delle anafore delle varie famiglie liturgiche, che si suddividono anzitutto in occidentali e orientali; queste ultime, secondo la comune descrizione, sono tre: l) antiochena (o siro-occidentale); 2) alessandrina; 3) siro-orientale.
    La struttura delle anafore antiochene è ben nota in Occidente, dato che è la struttura che è stata adottata dalla riforma liturgica per le nuove preghiere eucaristiche del messale di Paolo VI. [25]
    Diamo ora lo schema delle anafore antiochene. 1) Dialogo iniziale, 2) Preghiera di azione di grazie e di lode, 3) Introduzione al Sanctus e recita del Sanctus, 4) Ripresa dell’azione di grazie, dal Sanctus al racconto dell’ultima cena, 5) Racconto dell’istituzione dell’eucaristia, con il Mandatum (fate questo in memoria di me), 6) Anamnesi con l’offerta del pane santo e del calice, 7) Epiclesi, 8) Intercessioni per la chiesa e per le varie intenzioni, 9) Dossologia. Appartengono a questa famiglia anzitutto le anafore di Basilio e di Giacomo, fratello del Signore, che sono i testi dai quali viene ricavata questa struttura. Hanno struttura antiochena anche le anafore di Giovanni Crisostomo e dei Dodici apostoli, anche se c’è qualche punto di questa struttura che si applica loro in modo meno chiaro. A queste si debbono aggiungere molti testi anaforici siriaci. Anche l’anafora attribuita a Ippolito ha fondamentalmente questa struttura, nonostante sia priva del Sanctus e delle Intercessioni. Si noti che l’anafora di Ippolito è alla base delle anafore di Basilio le quali, a loro volta, forniscono il materiale per la composizione dell’anafora di Giacomo.
    Schema dell’anafora alessandrina. 1) Dialogo iniziale e azione di grazie (con la definizione dell’azione di grazie come sacrificio), 2) Intercessioni (per la chiesa, per i presenti, per il re, etc. per i defunti, etc., raccomandazione del sacrificio a Dio), 3) Introduzione al Sanctus e Sanctus, 4) Embolismo del Sanctus per la santificazione del sacrificio, 5) Racconto dell’istituzione, con il mandatum, 6) Anamnesi e offerta dei doni, 7) Epiclesi propriamente detta, 8) Dossologia. A questa famiglia anaforica appartiene l’anafora di san Marco evangelista [26] nelle sue varie redazioni. [27] Tra queste è particolarmente importante l’anafora copta di Cirillo di Alessandria che ci permette di vedere alcuni punti importanti dell’anafora di Marco in uno stadio anteriore a quello rappresentato dal codice Rossanense del sec XII (oggi cod. Vat gr. 1970). A questa famiglia appartiene anche l’anafora dell’eucologio di Serapione che, però, ha una struttura molto più complessa di quella ora descritta.
    Le testimonianze più antiche di questa anafora ci attestano solo la preghiera di azione di grazie, seguita da una corta strofa che elabora l’interpretazione sacrificale dell’eucaristia in base a Rm 12, 1, cui fanno seguito le Intercessioni, che sono piuttosto sviluppate concluse da una dossologia molto semplice. Il testo, quindi, si divide in tre parti ma non deriva dalla preghiera giudaica della fine del pasto, la Birkat ha-Mazon, che è solitamente descritta come una preghiera tripartita. È vero che la liturgia cristiana deriva da quella giudaica, ma non esiste un testo unico dal quale è derivata la liturgia cristiana; si tratta sempre di influssi molteplici, differenti a seconda delle differenti chiese, che vanno accertati e dimostrati caso per caso. A tutt’oggi non è possibile creare un’unica teoria interpretativa capace di rendere ragione di tutti i casi. [28]
    Da ultimo dobbiamo dare la successione degli elementi che compongono l’anafora siro- orientale, ma qui le cose si fanno difficili, perché non c’è una struttura unica. Diamo, quindi, la struttura del testo più antico, l’anafora degli Apostoli Addai e Mari: 1) Dialogo iniziale e lode del Nome (di Dio), per la creazione e la redenzione, che sono solo menzionate, 2) Introduzione al Sanctus e Sanctus, 3) Azione di grazie con la narrazione della redenzione operata da Cristo, 3) Intercessioni, 4) Menzione dell’istituzione (ossia della trasmissione del tipo), con l’affermazione che si sta celebrando il mistero tremendo della redenzione, 5) Epiclesi, 6) Dossologia. Diversa è la struttura delle anafore di Teodoro e di Nestorio, gli altri due testi di questa famiglia. Ecco la struttura di quella di Teodoro: 1) Dialogo iniziale e azione di grazie al Nome (di Dio), per la creazione, 2) Introduzione al Sanctus e Sanctus, 3) Azione di grazie con il racconto – piuttosto ampio – dei fatti della redenzione operata da Cristo, 4) Racconto dell’istituzione, 5) Affermazione che si sta celebrando il mistero tremendo della redenzione, 6) Intercessioni, 7) Epiclesi, 8) Dossologia. La struttura dell’anafora di Nestorio ha alcune particolarità che la rendono non completamente identica a quella di Teodoro.
    Conclusione: queste tre famiglie liturgiche presentano strutture anaforiche abbastanza differenti tra loro e, inoltre, ci sono delle differenze abbastanza importanti anche tra le varie anafore che compongono una stessa famiglia. Quindi le strutture che abbiamo indicato non sono degli schemi rigidi, ma solo delle linee indicative. Passiamo ora all’Occidente e alle sue preghiere eucaristiche.

    4. Il Canone romano

    Per stabilire la struttura del Canone romano è necessario anzitutto stabilire il criterio che verrà utilizzato. Se si usa un criterio teologico, si dirà che, dopo il dialogo iniziale, l’azione di grazie e il Sanctus, c’è il Te igitur; a questo fa seguito la commemorazione dei viventi (Memento) e dei santi (Communicantes): tutto questo è collocato prima della consacrazione. La commemorazione dei defunti, invece, è collocata dopo la consacrazione. In questo caso ci si deve chiedere perché si prega per i vivi prima della consacrazione e per i defunti solo dopo la consacrazione; questo problema rende incerta ogni affermazione sulla struttura del Canone romano. La soluzione è molto diversa se, invece di questo criterio teologico, si adotta un criterio storico letterario. In base a questo dobbiamo dire che il Canone romano è costituito da due settori principali: il Prefazio (concluso dal Sanctus), e le Intercessioni, che comprendono la preghiera per la chiesa (e per i vescovi), il memento dei vivi, il ricordo dei santi, la commendatio donorum (all’interno della quale c’è il racconto dell’ultima cena) seguita dal memento dei defunti e da una intercessione per il clero (Nobis quoque), della benedizione dei frutti della terra e della dossologia. Così descritto, il Canone romano presenta un perfetto parallelismo con l’azione di grazie e le intercessioni dell’anafora alessandrina, con due significative differenze. La prima, riguarda il Sanctus; la seconda riguarda il racconto dell’ultima cena. La questione del Sanctus non è un problema, dato che sappiamo che esso è tardivo nell’anafora alessandrina, ed è entrato nel Canone romano solo dopo Ambrogio di Milano. Più interessante è la questione del racconto dell’ultima cena, ma è di facile soluzione. Noi sappiamo che i più antichi testimoni dell’anafora alessandrina sono senza il racconto dell’ultima cena; quando esso viene recepito, l’anafora alessandrina lo colloca alla fine del suo testo originario, ossia in coda alle intercessioni che ormai sono dotate di Sanctus che le conclude. [29] La cultura copta, nella stesura dei testi liturgici, preferisce giustapporre, ossia preferisce collocare i nuovi elementi alla fine dei testi fino ad allora in uso, senza preoccuparsi né di cercare il punto più appropriato, per affinità tematica, né di rielaborare o rifondere il testo. I.-H. Dalmais, dopo aver sottolineato che il genio liturgico romano è da accomunare a quello siriaco, mette in luce la differenza tra la liturgia siriaca e quella egiziana. I Siri costruiscono «un discorso ordinato» (tale è il significato di sedro), mentre i Copti si contentano «di giustapporre riti, acclamazioni e preghiere». [30] Non so se, dicendo questo, il padre Dalmais intendesse riferirsi al problema di cui ci occupiamo, ossia alla comparsa del Sanctus e del racconto dell’istituzione. Comunque, I.-H. Dalmais afferma che si tratta di una caratteristica generale dello stile liturgico dei Copti; noi possiamo aggiungere che questo principio è stato applicato anche alla genesi dell’anafora, in quella parte che inizia dopo le intercessioni.
    Nell’anafora alessandrina, il Sanctus viene collocato alla fine delle intercessioni e il racconto dell’ultima cena subito dopo il Sanctus. Nel Canone romano, invece, il Sanctus viene collocato alla fine del prefazio, mentre il racconto dell’ultima cena viene inserito all’interno delle intercessioni, dopo la commendatio donorum (ossia, secondo il textus receptus, dopo il Quam oblationem). [31] L’anafora alessandrina si è limitata a giustapporre, mentre il Canone romano ha fatto un’operazione molto intelligente, collocando il racconto dell’istituzione nel contesto più corretto, ossia all’interno della commendazione delle offerte.
    Si è soliti dire che il Canone romano ha una struttura difficile e incomprensibile. Non è così, se pensiamo al Canone romano in modo storico, comprendendo l’acume mostrato nel collocare il racconto dell’istituzione al centro delle intercessioni, dopo il Fac nobis hanc oblationem dell’antica recensione riportata da Ambrogio, che afferma che il pane e il vino sono figura del corpo e sangue di Cristo. Il racconto dell’ultima cena serve a rendere ragione del perché il pane e il vino siano figura (ossia sacramento) del corpo e sangue di Cristo: [32] sono figura (sacramento) perché nell’ultima cena il Cristo istituì la celebrazione eucaristica facendo un rito che la chiesa avrebbe dovuto imitare (fate questo in memoria di me).

    5. Le antiche liturgie occidentali non romane

    In Occidente non c’è solo la liturgia romana: c’è l’antica liturgia della Spagna – detta anche mozarabica o visigotica o Vetus hispanica – c’è la liturgia gallicana, quella celtica e quella ambrosiana. La liturgia delle Gallie è molto simile a quella della Spagna antica, al punto che si può pensare che si tratti di un’unica famiglia con determinate particolarità dovute alla differenza dei luoghi e delle epoche. [33] Questo giudizio vale anche all’interno della liturgia Vetus hispanica stessa, che conosce due famiglie maggiori, una al sud, più antica, e una al nord, più recente.
    In Occidente non c’è l’uso del termine anaphora, ma c’è un termine che interpreta bene questo termine greco: si tratta del termine inlatio, proprio dell’antica liturgia spagnola. Come anaphora, il termine inlatio designa una preghiera che viene innalzata a Dio. C’è però una differenza: mentre in greco questo termine designa l’intera preghiera eucaristica, nella liturgia Vetus hispanica il termine inlatio viene usato per designare solo l’azione di grazie, ossia quella parte della preghiera eucaristica che noi chiamiamo praefatio. Ma questa differenza non è così fondata come sembra a prima vista; vedremo il perché.
    Nei libri liturgici che sono giunti fino a noi, gli elementi della preghiera eucaristica sono i seguenti: 1) Dialogo iniziale seguito dall’azione di grazie (Inlatio), 2) Introduzione al Sanctus e Sanctus, 3) Post-Sanctus, 4) Post-pridie, 5) Fractio, poi c’è la monizione che introduce la recitazione del Pater noster, e così siamo già nei riti di comunione. Questa è la descrizione della preghiera eucaristica Vetus hispanica che ci dà già Isidoro di Siviglia e che coincide con i testi dei libri liturgici spagnoli, come il Liber Ordinum, [34] il Liber Sacramentorum, [35]il Missale Mixtum. [36] Isidoro distingue le preghiere della messa in sette unità successive. La quinta comprende la Inlatio, ossia il prefazio, a cui si aggiunge anche l’introduzione al Sanctus, il Sanctus e il Post-Sanctus. La sesta si chiama confirmatio sacramenti, e ha la funzione di ‘confirmare/conformare’ [37] le oblata – santificate dallo Spirito Santo – al corpo e sangue di Cristo. La settima è il Pater noster. [38]
    Se consideriamo questa suddivisione, così com’è descritta da Isidoro, è difficile capire il confine tra l’oratio quinta e l’oratio sexta, un confine che è collocato dopo il Post-Sanctus. In un’anafora, così come la concepiamo noi, anche nella liturgia spagnola, non c’è motivo per dire che ci sono due parti, una fino al Post-Sanctus, e una dalla fine del Post-Sanctus fino al Pater noster escluso. Se vogliamo capire il senso di questa suddivisione bisogna risalire a prima di Isidoro e a prima dei libri liturgici che sono giunti a noi. Ossia, bisogna considerare l’anafora Vetus hispanica nella sua storia. Esaminiamo prima l’oratio quinta e poi l’oratio sexta.
    a) Oratio quinta: per Isidoro di Siviglia (560–636), questa quinta parte comprendeva la Inlatio, il Sanctus e il Post-Sanctus. [39] Tuttavia non era questa la situazione originaria. Sappiamo, infatti, che il Sanctus è entrato in uso corrente [40] solo dopo il concilio di Vaison celebrato nel 529 sotto la presidenza di Cesario di Arles. Il canone 3 stabilisce [41] che il Sanctus venga recitato anche nelle messe mattutine, in quelle di quaresima e in quelle dei defunti, con le stesse modalità con le quali viene detto nelle messe pubbliche. [42] Ciò significa che, fino a quel momento, il Sanctus era recitato solo nelle messe pubbliche e che, quindi, le anafore potevano esistere anche senza Sanctus; mancando il Sanctus, mancava anche il Post-Sanctus. Dunque, la oratio quinta comprendeva la sola Inlatio.
    b) Oratio sexta: questo settore della preghiera eucaristica spagnola comprende tre parti: il racconto dell’istituzione, il Post-pridie e l’epiclesi. Diciamo subito che la presenza dell’epiclesi è tardiva e che la maggior parte dei formulari la ignora. [43] Passiamo ora a considerare il curioso titolo Post-pridie, che si riferisce non alla natura di questo testo, ma alla sua posizione nella preghiera eucaristica: si chiama così perché viene dopo il Qui-pridie. E qui comincia il problema o, meglio, l’incongruenza, dato che nella liturgia Vetus hispanica non esiste il Qui-pridie. È nella liturgia romana che il racconto dell’ultima cena viene chiamato Qui-pridie, a causa delle parole con cui inizia. Nella messa spagnola, invece, il racconto dell’istituzione, riecheggiando l’Oriente, inizia con le parole Dominus noster Jesus Christus in qua nocte tradebatur. Il titolo Post-pridie, dunque, non è il modo originario di designare questo formulario, perché fa riferimento alla struttura della preghiera eucaristica romana, non a quella spagnola; per questo motivo, possiamo affermare che il titolo Post-pridie deriva dalla romanizzazione della liturgia Vetus hispanica [44] una romanizzazione che è stata vivacemente contrastata ma non sempre con successo.
    M. Férotin, dopo aver esaminato la questione del Post-pridie, conclude che questo è sicuramente un problema e che è più facile porre la questione che trovarne la soluzione. [45] Jordi Pinell sostiene che il racconto dell’ultima cena cominciasse con le parole Qui pridie, come nella liturgia romana. [46] Questa opinione era già stata sostenuta da Lesley che ricavava questa conclusione dal titolo del Qui pridie. Jordi Pinell aggiunge altri argomenti, tra i quali il «più convincente è la assoluta unanimità» delle liturgie occidentali nel far cominciare in questo modo il racconto dell’istituzione. Gli altri argomenti sono meno significativi. Infine egli sottolinea che la Collectio Post-Sanctus, nella sua parte finale suppone proprio l’esistenza del Qui pridie, dato che le sue ultime parole si innestano direttamente su questa forma del racconto dell’istituzione. [47] Nondimeno lo stesso Pinell riconosce che le tre [48] testimonianze della liturgia Vetus hispanica del racconto dell’istituzione sono concordi nel farlo iniziare alla maniera orientale: In qua nocte tradebatur. [49]
    Credo che sia particolarmente importante l’osservazione di Pinell sul rapporto tra il Qui pridie e il Post-Sanctus dell’eucaristia spagnola.
    Abbiamo visto che per definire il Post-pridie, si fa riferimento alla sua posizione nell’anafora, ma come punto di riferimento si prende la struttura del Canone romano, non la struttura della preghiera eucaristica Vetus hispanica. Per spiegare questa scelta ci sono due possibilità: 1) nella liturgia spagnola esisteva la recitazione del Qui-pridie, ed è sempre esistita; 2) nella liturgia spagnola, a causa della romanizzazione, il Qui-pridie è stato inserito in momento successivo, ossia quando la Inlatio e il Post-pridie costituivano già l’ossatura dell’anafora spagnola. Non credo che la prima posizione sia sostenibile, proprio per il rapporto che il Qui-pridie ha con il Post-Sanctus (che è stato inserito tardivamente, dopo il concilio di Vaison), e per la testimonianza, concorde e accettata da tutti, che la forma caratteristica del racconto dell’ultima cena non fosse il Qui-pridie, bensì la forma orientaleggiante: In qua nocte tradebatur.
    Resta solo la seconda posizione. Nella struttura dell’anafora spagnola, che è variabile, non c’erano elementi così sicuri e sufficienti da permettere di dare un titolo che indicasse la posizione della ‘confirmatio sacramenti’ nella preghiera eucaristica. Per questo era difficile indicare con chiarezza la posizione della ‘confirmatio sacramenti’, mentre la struttura del Canone romano era fissa, immutabile, e a tutti nota. La preghiera eucaristica spagnola, dunque, ha adottato la formulazione romana del racconto dell’istituzione (Qui pridie quam pateretur…), ed è in base a questo cambiamento che la preghiera successiva è stata designata con il titolo Post-pridie, dimostrando, così, che in base alla struttura originaria dell’anafora spagnola, non c’erano elementi specifici, atti a definirla.
    C’è un alto dato che si deve considerare per corroborare questa conclusione: in tutte le liturgie, il formulario che viene subito dopo il racconto dell’istituzione, inizia con una espressione anamnetica che rimanda al comando di Cristo (Fate questo in memoria di me) o a qualche elemento del racconto istitutivo. Ebbene, nella liturgia spagnola non è così: il Post-pridie è solitamente privo di ogni formulario anamnetico, fatta eccezione per quei testi che sono stati romanizzati. Di fronte a questi dati, è possibile pensare che l’antica tradizione hispanica non conoscesse l’uso del racconto dell’ultima cena, se non eccezionalmente. Sappiamo che le arcaiche paleoanafore orientali erano prive del racconto dell’ultima cena: non sarebbe strano se pensassimo che questa situazione sia esistita anche nell’arcaica liturgia Vetus hispanica.
    Abbiamo un’ultima questione da porre. Gli autori spagnoli hanno scelto un titolo che si riferiva alla liturgia romana e non alla liturgia Vetus hispanica. Era proprio necessario ricorrere alla liturgia romana? Non c’era altro modo? Un altro modo c’era, ed era quello che, poi, fu adottato dalla liturgia gallicana che ha chiamato Post-secreta o Post-mysterium questa parte della preghiera eucaristica, dato che il racconto dell’istituzione era chiamato secreta o mysterium. Ebbene, nella liturgia Vetus hispanica il racconto dell’istituzione è chiamato missa secreta: quindi, il Post-pridie avrebbe potuto essere designato come Post-secreta, così come ha fatto la liturgia gallicana. Tuttavia, la liturgia spagnola non ha adottato questo titolo, anche se lo conosce. Infatti, questo titolo è noto alla liturgia Vetus hispanica, ma come eccezione, dato che nella Missa in vigilia Pasche, al posto di Post-pridie, c’è il seguente titolo: Post Missam secretam. [50] In altri termini, se il racconto dell’ultima cena, ossia la missa secreta fosse stato un testo che caratterizzava la struttura della preghiera eucaristica Vetus hispanica, recitato sempre in tutte le messe, non ci sarebbe stato alcun bisogno di ricorrere alla struttura del Canone romano per creare il titolo del Post-pridie, ma sarebbe stato molto più semplice, e più ovvio, fare come la liturgia gallicana e chiamarlo Post-secreta. Riassumendo: l’assenza di elementi anamnetici nella struttura del Post-pridie, e il titolo stesso di questa parte della liturgia, mi inducono a fare l’ipotesi che la struttura originaria della preghiera eucaristica Vetus hispanica fosse priva del racconto dell’ultima cena.
    Concludiamo. A questo punto, dopo queste argomentazioni, tornando alla terminologia di Isidoro, la oratio quinta e la oratio sexta avrebbero avuto solo una preghiera ciascuna: la oratio quinta sarebbe la Inlatio, e la oratio sexta sarebbe il Post-pridie. La Inlatio, che è definita come santificazione dell’offerta, secondo M. Férotin, è «la più solenne e la più lunga – di molto – tra le preghiere del Sacramentario». [51] Il Post-pridie sarebbe giustamente definito come confirmatio 51 sacramenti, anche perché contiene, spesso, una decisa professione di fede sul realismo eucaristico e sulla liturgia del giorno. In ogni caso, la parte principale e più solenne della preghiera eucaristica spagnola è la Inlatio, un termine che interpreta bene il greco anafora. Nella liturgia spagnola, dunque, con il termine inlatio si sottolinea il carattere santificatorio e sacrificale della preghiera eucaristica, così come avviene nelle liturgie orientali con l’uso del termine anafora.

    6. La riforma liturgica: il messale di Paolo VI

    Subito dopo il Concilio Vaticano II, si sono verificati due fatti che hanno prodotto il nuovo corso della liturgia eucaristica della chiesa romana, caratterizzato dalla pluralità di testi anaforici, mentre, almeno a partire dal terzo secolo, la tradizione era stata caratterizzata da un’unica preghiera eucaristica: il Canone romano.
    Il primo di questi due fatti è facilmente intuibile: si tratta della promulgazione della Costituzione liturgica Sacrosanctum concilium che prevede che «I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni». [52] La Costituzione liturgica prevede anche: «L’ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà, da esse significate, siano espresse più chiaramente, il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva, e comunitaria». [53]
    Questi due principi generali della riforma valgono anche del Canone romano e l’urgenza della loro applicazione si è mostrata soprattutto quando il testo del Canone è stato tradotto in lingua viva: [54] si è visto subito come quel testo non fosse né semplice, né senza ripetizioni, né di facile comprensione. Passiamo al secondo di questi due fatti: tutti si rendevano conto di come fossero lineari, sobrie, e di più facile comprensione, le antiche anafore, soprattutto quelle antiochene che, nel frattempo, venivano studiate e divulgate in opere di grande diffusione e successo editoriale, come il volume di Louis Bouyer, [55] e con opere, di carattere divulgativo, che offrivano al pubblico i testi di nuove preghiere eucaristiche, composte su modelli antichi ma con contenuti adatti all’uomo d’oggi. Un buon esempio di questa editoria è il libro di Huub Oosterhuis, pubblicato a Utrecht nel 1966: [56] contiene preghiere veramente toccanti, piene di sentimento religioso e, di conseguenza, di sicuro successo pastorale. Tuttavia dobbiamo riconoscere che questa opera, come tutti i testi tributari dello spirito devozionale, ebbe il successo di una stagione, incapace di reggere il confronto con il tempo, con la meditazione più attenta, con la riflessione teologica più profonda. Questi testi ebbero una diffusione grandissima e, talvolta, pur essendo di privata composizione, presero il posto dei testi del messale.
    Di fronte a queste esigenze pastorali, assolutamente legittime e fondate su buoni motivi, non si poteva rispondere semplicemente con il ribadire la disciplina del Canone romano. Che fare allora? Rielaborare il Canone romano aggiustandolo alle nuove esigenze, o comporre nuove preghiere eucaristiche? Erano stati fatti vari tentativi di rielaborare il Canone romano per dargli quella unitarietà e semplicità di cui mancava, ma i risultati erano stati deludenti. Questa via, dunque, non era praticabile. Il problema fu deferito a Paolo VI che così rispose: «Si lasci immutata l’Anafora attuale; si compongano o ricerchino due o tre Anafore da usarsi in particolari determinati tempi». [57] Ecco come è nata l’odierna disciplina della chiesa romana che ammette una pluralità di testi anaforici. Oggi i testi in vigore in Italia sono dieci, con l’eccezione della liturgia ambrosiana che conosce alcuni testi ricavati dalla sua propria tradizione.
    Proprio perché i testi del Messale di Paolo VI hanno preso come modello alcuni testi orientali, sia per il contenuto sia per la struttura, è ormai invalso l’uso del termine anafora per designare le nuove preghiere eucaristiche della chiesa di Roma.


    NOTE

    1 GELSI D., «Anafora», in: DI BERARDINO A., (ed.), Dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato, 1984, Vol. 1, col. 170.
    2 Appena prima che cominci la preghiera eucaristica, nel rito romano, il sacerdote invita a rendere grazie dicendo Rendiamo grazie al Signore nostro Dio. Il dialogo preanaforico delle anafore di lingua greca (antiochene e alessandrine) e di alcune siriache derivate dal greco, dice: Rendiamo grazie al Signore; questo testo si trova nella liturgia di Giovanni Crisostomo, in quella di Basilio (alessandrina e bizantina), in quella greca di Giacomo, fratello del Signore, in quella siriaca dei XII Apostoli (il cui originale è greco), ecc.
    3 Il testo ambrosiano è molto simile a quello romano e dice: Et est tibi Deo Patri omnipotenti ex ipso et per ipsum et in ipso omnis honor, virtus, laus, gloria, imperium, perpetuitas et potestas in unitate Spiritus sancti per infinita saecula saeculorum, Amen. La liturgia di Giovanni Crisostomo e quella di Basilio, invece, hanno una dossologia che potremmo definire di tipo epicletico, perché chiede di poter glorificare Dio: E donaci di potere, a una sola voce e con un solo cuore, glorificare e lodare l’onoratissimo e magnifico tuo nome, di Padre, Figlio, Spirito Santo ora e sempre e nei secoli dei secoli.
    4 Didachè 9; Costituzioni apostoliche 7, 25; Didascalia degli apostoli (cito questo testo secondo FUNK F. X. (ed.), Didascalia et Constitutiones Apostolorum, Vol. 1, Ferdinand Schoeningh, Paderbornae, 1905, p. 168).
    5 Questi dati li ho esposti con maggior accuratezza in: «L’eucaristia: dalla preghiera giudaica alla preghiera cristiana», in: AA. VV., La preghiera nel tardo antico. Dalle origini ad Agostino, XXVII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana. Roma 7-9 maggio 1998, (= Studia Ephemeridis Augustinianum 66), Edizioni Institutum patristicum Augustinianum, Roma, 1999, pp. 25-51.
    6 Nel cristianesimo accade che le due brevi benedizioni sul calice e sul pane vengono sostituite da una preghiera più lunga che, pertanto, viene chiamata azione di grazie (eucharistia) invece che benedizione (eulogia).
    7 Quando il rito del pane e quello del calice sono divenuti un unico rito, e l’azione di grazie è diventata un testo unico, la preghiera di rendimento di grazie assume un’importanza ancora maggiore e diventa un rito a sé, un rito verbale, che si lascia alle spalle la sua funzione originaria; infatti, nell’uso giudaico, di cui il cristianesimo è erede, la preghiera di benedizione serve ad accompagnare sia il rito del calice sia quello del pane per introdurre immediatamente l’atto del bere il calice e del mangiare il pane. Più tardi, ma ancora in epoca patristica, viene preparato un rito apposito che introduca direttamente la comunione, fondato sul Padre nostro. All’epoca di Gregorio Magno questo cambiamento è già avvenuto da tempo ed è entrato nella tradizione.
    8 Epistula 26 (NORBERG D., Gregorius Magnus. Registrum epistularum, (= Corpus Christianorum. Series latina 140-140A ), Brepols, Turnhout, 1982, p. 586s).
    9 AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De trinitate, (= Corpus christianorum. Series latina 50), lib. 3, cap. 4, linea 30.
    10 VIGILIO, Epistula 2, 5 (Patrologia latina, 69, 18).
    11 Epistula 26 (NORBERG D., Gregorius Magnus. Registrum epistularum, (= Corpus Christianorum. Series latina 140-140A ), Brepols, Turnhout, 1982, p. 586s).
    12 Firmiliano nella lettera conservataci tra le lettere di Cipriano (n. 75, 10) (BAYARD L. (éd.), Saint Cyprien. Correspondance, (= Collection des Universités de France), vol. II, Paris, 1961, p. 298). Lo stesso termine si trova anche nel Liber pontificalis a proposito dell’opera di Alessandro I che ha introdotto la Passio Domini nella Praedicatio sacerdotum (DUCHESNE L. (éd.), Le Liber Pontificalis, (= Bibliothèque des écoles françaises d’Athènes et de Rome), Vol. I, Paris, 1981, p. 217.
    13 AMBROSII MEDIOLANENSIS, De fide libri V, Lib. 4, cap. 10, in: FALLER O. (ed.), Ambrosii Medioanensis. De fide libri V (ad Gratianum Augustum), (= Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum 78), Wien, 1962, p. 201.
    14 Ibidem, p. 312.
    15 MOHLBERG L. C. (ed.), Liber sacramentorum romanae aecclesiae ordinis anni circuli. (Cod. Vat. Reg. lat 316 / Paris Bibl. Nat. 7193, 41 / 56), (= Rerum ecclesiasticarum documenta - Fontes 4), Roma, 1960, n. 1242.
    16 «Nos autem quotienscumque sacramenta sumimus, quae per sacrae orationis mysterium in carnem transfigurantur et sanguinem, “mortem Domini adnuntiamus”» (AMBROSII MEDIOLANENSIS, De fide libri V, Lib. 4, cap. 10, in: Edizione citata, p. 201).
    17 «… Corpus Christi et sanguinem dicimus, sed illud tantum quod ex fructibus terrae acceptum et prece mystica consecratum rite sumimus ad salutem spiritalem in memoriam pro nobis dominicae passionis, quod cum per manus hominum ad illam uisibilem speciem perducatur non sanctificatur ut sit tam magnum sacramentum nisi operante inuisibiliter Spiritu Dei» (AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De trinitate, (= Corpus christianorum. Series latina 50), lib. 3, cap. 4, linea 30).
    18 Omelia 82, n. 30; su Mt 26, 26 (Patrologia graeca 58, 740).
    19 1Apologia, 65, 1-66, 4 (cf. HÄNGGI A. - PAHL I., Prex eucharistica. Textus e variis liturgiis antiquioribus selecti, (= Spicilegium friburgense 12), Editions universitaires - Fribourg Suisse, Fribourg, 1968, p. 68s).
    20 GELSTON A., The Eucharistic Prayer of Addai and Mari, Clarendon Press, Oxford, 1992, p. 47.
    21 GELSTON A., The Eucharistic…, pp. 48-49.
    22 MAZZA E., Il tema del sacrificio nelle mistagogie della fine del quarto secolo, «Annali di storia dell’esegesi», (Atti del convegno di Sacrofano), 19 (2002) 167-199.
    23 La concezione sacrificale dell’azione di grazie – e dell’intera preghiera eucaristica – è espresso molto bene nella liturgia alessandrina (cf. MAZZA E., «L’eucaristia come sacrificio nella testimonianza della tradizione anaforica», in: MAZZA E., (ed.), L’idea di sacrificio. Un approccio di teologia liturgica, Atti del convegno dell’Istituto di Scienze religiose di Trento, (= Scienze religiose. Nuova serie 5), Dehoniane, Bologna, 2002, pp. 117-154).
    24 GELSI D., «Anafora», in: DI BERARDINO A., (ed.), Dizionario patristico …, Vol. 1, col. 170.
    25 Con un’importante differenza, dovuta all’inserimento di una epiclesi prima del racconto dell’ultima cena. Questa è l’unica diversità tra le nuove anafore romane e l’antica struttura dell’anafora antiochena.
    26 Per il testo cf. BRIGHTMAN F. E., (ed.), Liturgies Eastern and Western, Vol. I: Eastern Liturgies, Clarendon Press, Oxford, 1896, pp. 125-134.
    27 La paleoanafora del Papiro Strasburgo gr. 254, il frammento del Papiro Manchester John Rylands Library 465, il frammento Dêr-Balyzeh, il frammento copto Lovanio 27, l’ostrakon copto del British Museum 4.
    28 Su questo, cf. il mio recente articolo: A propos de la dérivation de l’eucharistie chrétienne de la ‘Birkat ha-mazon’ juive, «Questions Liturgiques», 83 (2002) 233-239.
    29 Il racconto dell’istituzione, quindi, è collocato dopo il Sanctus, tramite un corto testo di raccordo.
    30 DALMAIS I.-H., «La liturgie alexandrine et ses relations avec les autres liturgies», in: TRIACCA A. M. - PISTOIA A. (édd.), Liturgie de l’église particulière et liturgie de l’église universelle, (= Bibliotheca Ephemerides Liturgicae - Subsidia 7), Roma, 1976, p. 120.
    31 Le intercessioni del Canone romano iniziano con la preghiera per la chiesa (Te igitur), poi c’è la preghiera (memento) per gli offerenti (sia presenti sia assenti) con la memoria dei santi e infine la preghiera per le offerte, ossia perché Dio accetti i santi doni. Nella versione arcaica attestata da Ambrogio, il Quam oblationem inizia con le seguenti parole: «Fac nobis hanc oblationem».
    32 « … quod est figura corporis et sanguinis Domini nostri Iesu Christi, qui pridie quam pateretur accepit panem …».
    33 «Al di là di tutte le diversità locali, provinciali o regionali, ci sono, in Occidente, due tipi liturgici particolari : il tipo romano e il tipo che noi potremmo chiamare gallicano. Il primo si è irradiato in tutta l’Italia e l’Africa; il secondo è proprio non solo della Gallia ma anche della Spagna» (GRIFFE É., Aux origines de la liturgie gallicane, «Bulletin de littérature ecclésiastique», 52 (1951) 21). Si deve convenire con queste parole di Griffe, fatta eccezione per la questione dell’Africa, di cui non abbiamo elementi sufficienti per dare un giudizio.
    34 FÉROTIN M., (éd.), Le Liber Ordinum en usage dans l’église wisigothique et mozarabe d’Espagne du cinquième au onzième siècle, (= Monumenta ecclesiae liturgica 5), Librairie de Firmin-Didot et Cie, Paris, 1904.
    35 FÉROTIN M., (éd.), Le Liber Mozarabicus Sacramentorum et les manuscrits mozarabes, (= Monumenta ecclesiae liturgica 6), Librairie de Firmin-Didot et Cie, Paris, 1912.
    36 LESLEO (LESLEY) A., (ed.), Missale mixtum secundum regulam beati Isidori dictum Mozarabes, Praefatione, notis et appendice ab Alexandro Lesleo s.j. sacerdote ornatum (Riedizione del Missale mixtum secundum regulam beati Isidori dictum Mozarabes complilato ed edito dal can. Alfonso Ortiz per ordine del Card. Francisco Ximenes de Cisneros arcivescovo di Toledo, Toledo, 1500), Sumptibus Joannis Monaldini bibliopolae, Typis Ioannis Generosi Salomoni, Romae, 1755 (Edito anche in Patrologia latina, Vol. 85, col. 109ss.).
    37 Sui termini ‘confirmatio’ e ‘conformatio’, cf. FALSINI R., La “Conformatio” nella liturgia mozarabica, «Ephemerides liturgicae », 72 (1958) 281-291.
    38 «Quinta deinde infertur inlatio in sanctificatione oblationis, in qua etiam et ad dei laudem terrestrium creaturarum uirtutum que caelestium uniuersitas prouocatur et ‘osanna in excelsis’ cantatur quod saluatore de genere Dauid nascente salus mundo usque ad excelsa peruenerit. Porro sexta exhinc succedit confirmatio sacramenti, ut oblatio quae deo offertur sanctificata per spiritum sanctum Christi corporis ac sanguinis conformetur. Harum ultima est oratio qua dominus noster discipulos suos orare instituit dicens: Pater noster qui es in caelis» (LAWSON C.W., (ed.), Isidorus Hispalensis. De ecclesiasticis officiis, (= Corpus christianorum. Series latina 113), Brepols, Turnholti, 1989, lib. 1, cap. 15, linea 21).
    39 Isidoro non nomina il Post-Sanctus ma dicendo come comincia la oratio sexta, è evidente che il Post-Sanctus facesse parte della oratio quinta.
    40 Il Sanctus si è introdotto solo lentamente in Occidente: a Roma nel primo terzo del quinto secolo, nelle altre chiese più tardi, e nelle messe feriali solo dopo il concilio di Vaison.
    41 «Et in omnibus missis seu in matutinis seu in quadragensimalibus seu in illis, quae pro defunctorum commemorationibus fiunt, semper: “sanctus, sanctus, sanctus” eo ordine, quomodo ad missas publicas dicitur, dici debeat, quia tam sancta, tam dulces et desiderabilis uox, etiam si die noctu que possit dici, fastidium non poterit generare» (GAUDEMET J. - BASDEVANT B., (édd.), Les Canons des conciles mérovingiens (VIe-VIIe siècles), Tome 1, (= Sources chrétiennes 353), Les Editions du Cerf, Paris, 1989, p. 190).
    42 Commentando questo testo del concilio di Vaison, Élie Griffe spiega questi vari tipi di messe: la messa pubblica è quella delle domeniche e delle feste; la messa mattutina si chiama così perché, nei giorni feriali, è celebrata subito dopo le lodi (che si chiamano appunto ‘mattutino’). La messa quaresimale si celebra al pomeriggio, al termine del digiuno. Le messe per i defunti si celebrano nel giorno della sepoltura (GRIFFE É., La Gaule chrétienne à l’époque romaine, Tome 3, La cité chrétienne, Letouzey et Ané, Paris, 1965, pp. 183-184; cf. anche IDEM, Trois testes importants pour l’histoire du canon de la messe, «Bulletin de littérature ecclésiastique», 9 (1958) 70-72).
    43 Lo stesso Férotin, nella sua introduzione, cita il Post-pridie della quarta domenica dopo l’ottava di pasqua, per sottolineare che la logica dell’eucaristia Vetus hispanica ignora la necessità dell’epiclesi (FÉROTIN M., (éd.), Le Liber Mozarabicus Sacramentorum…, p. XXII). 44 La romanizzazione è molto forte in epoca visigotica e, poi, avrà il suo perno soprattutto nella città di Braga, il cui vescovo, Profuturo, aveva posto a papa Vigilio alcune questioni alle quali egli rispose nel 538 descrivendo l’uso romano. Ma «la chiesa metropolitana della Bracarense non potè resistere molto tempo nel suo intento di romanizzare, di fronte alla vigorosa evoluzione liturgica autoctona che stava avvenendo nella maggior parte delle chiese della penisola» (PINELL I PONS J., Liturgia hispánica, (= Biblioteca litúrgica 9), CPL Centre de pastoral litúrgica, Barcelona, 2000, p. 104). Tuttavia, a quest’epoca, molti usi romani erano già diventati patrimonio della liturgia Vetus hispanica.
    45 FÉROTIN M., (éd.), Le Liber Mozarabicus Sacramentorum…, p. XXII.
    46 Liturgia hispánica, … p. 200.
    47 Liturgia hispánica, … p. 166.
    48 Una prima redazione si trova nella Missa omnimoda dal Liber ordinum (FÉROTIN M., (éd.), Le Liber Ordinum…, pp. 233-243); per una seconda redazione cf. il codice 35.6 della cattedrale di Toledo: messa della festa dell’Ascensione riportata da Férotin nel Liber Mozarabicus Sacramentorum, col. 327, nota 19. Infine, si confronti questo formulario con la missa secreta del Missale mixtum (Patrologia latina, 85, 116; 550).
    49 Liturgia hispánica, … p. 201.
    50 Liber Mozarabicus Sacramentorum…, col. 250.
    51 Liber Mozarabicus Sacramentorum…, p. XXII.
    52 Sacrosanctum Concilium, n. 34
    53 Ibidem, n. 21.
    54 Per le questioni legate alla traduzione del Canone romano cfr.: FALSINI R., Dalla traduzione del canone della messa alla scoperta della sua ricchezza teologico-pastorale, «Rivista di pastorale liturgica» 6 (1968) 131-153.
    55 BOUYER L., L’eucharistie. Théologie et spiritualité de la prière eucharistique, (= Spiritualité d’hier et d’aujourd’hui), Desclée, Tournai 1966; traduzione italiana a cura dell’editrice ELLE DI CI, Torino Leumann.
    56 OOSTERHUIS H., Quelqu’un parmi nous, Desclée, Tournai 1968; traduzione dell’ottava edizione olandese.
    57 Cfr. MAZZA E, Le odierne preghiere eucaristiche, (= Liturgia e vita, 1), Vol. I: Struttura Teologia Fonti, Ed. Dehoniane, Bologna 1991, p. 136.


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