2 di novembre
2 di novembre: commemorazione dei defunti, celebrazione insieme laica e religiosa che ci riguarda tutti. Tutti infatti moriamo e abbiamo morti da ricordare. La ricorrenza può assumere risonanze diverse in un credente o in un non credente; comune, tuttavia, è il ricordo, il rimpianto e la speranza di una certa continuità, di un certo permanere che si può poi configurare in forme diversissime.
Vorrei tracciare una parabola ecumenica, in cui tutti, in qualche modo ed in modi diversi, possano riconoscersi: tutti i credenti nella vita (e che altro è poi la fede cristiana nella resurrezione, se non un credere strenuamente nella vita che travalica il passo della morte?).
Oggi voi ed io ci siamo recati al camposanto e abbiamo guardato le tombe, le siepi, i fiori, la nebbia, i rami che si spogliano... La natura sa essere in sintonia, in clima, sia con la vita che con la morte. In città le foglie cadono sull'asfalto e il netturbino se le porta via, non senza - spero - ammirarne le forme, la leggerezza e i colori che scivolano, come rivoli d'oro o di rame, sotto alla sua ramazza. Ma in campagna le foglie s'impastano con la terra formando una specie di fanghiglia; invece è l'humus che farà germinare l'erba in primavera. (Ricordate il Vangelo: «Se il chicco di grano, sotto alla terra, non marcisce...» Se ne può fare anche una lettura laica: la morte è il terreno di cultura della vita).
A proposito del terreno brullo che domani sarà prato, vi siete accorti che autunno e primavera sono legati? Il ramo nudo sembra morto; ma, se guardate dove si è staccata la foglia, anziché una ferita vedrete un piccolo turgore: è la nuova gemma, che era lì prima ancora che la foglia cadesse. In certe varietà di rovere è proprio il premere della gemma che fa cadere la foglia. Ma c'è di più: se guardate un nocciòlo o un corniolo (le prime piante che fioriscono) vedrete non soltanto la gemma, ma il bocciolo del fiore già formato. Vita e morte si incrociano; la morte alimenta la vita.
Questo apologo non è una favola inventata: è un fatto vero, reale e simbolico insieme; ed è accaduto a me.
Avevo un cane che, come tutti i cani, credo, amava fare scorribande per la campagna e, se trovava un osso, una carcassa, un animale morto, lo prendeva e me lo portava sul prato, davanti alla porta di casa. Lo deponeva delicatamente, come se fosse stato un mazzo di fiori. Per lui era un dono e, per non deluderlo, lo ringraziavo. Gli stropicciavo le orecchie e lui menava la coda soddisfatto; e magari in cuor suo già pensava di ripetere, appena se ne fosse presentata l'occasione, quell'omaggio. Meno soddisfatta del dono ero io, perché mi trovavo davanti una carogna il più delle volte stagionata. Con buon rispetto, spesso puzzava maledettamente. Dovevo prenderla con la forca, turandomi il naso, portarla in mezzo a un campo e seppellirla.
Una volta mi portò il suo regalo di notte; ed io, al mattino, ancor prima di vederlo, l'avvertii dall'odore.
Mi avvicinai e rimasi col fiato a metà della gola, tant'era il verminaio che pullulava tra le viscere sfatte della bestia. Il primo impulso fu di fuggire; però cercai di vincere il disgusto e osservai quel groviglio di vermi che si affaccendavano, si accavallavano, si allacciavano con fervore. Il disgusto lentamente sparì e mi trovai ad esclamare: «Quanta vita!»
(Adriana Zarri, Apologario, Camunia 1990)