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    A cosa serve la letteratura

    Antonio Spadaro

    A che cosa "serve" la letteratura? La letteratura col suo immenso patrimonio di storie, immagini, suoni, personaggi... a che serve? A che "mi" serve? Il rapporto tra la vita e la letteratura, in realtà, è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione che è stata ora affermata e ora negata, ora desiderata e ora respinta. Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: "La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l'amore e la Fede ci consentono di uscire da noi stessi". Ma per andar dove? Probabilmente per uscire dal narcisismo dell'"interiorità" autoreferenziale. L'aveva intuito anche Clemente Rebora, poeta convertito e poi sacerdote e religioso: "Lungi da me la scappatoia dell'arte / per fuggir la stretta via che salva!". L'arte sarebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell'infinita vanità del tutto. Che farsene, dunque, di parole "scarse, e forse senza sole", come le definiva Sandro Penna, o di "qualche storta sillaba e secca come un ramo" (Eugenio Montale)?
    "Mi interessa la poesia che parla di grandi questioni, questioni di vita e di morte, sì, e la questione di come stare al mondo" aveva scritto il poeta e narratore statunitense Raymond Carver. La letteratura "serve" solo se ha a che fare, in un modo o nell'altro, con ciò che vogliamo veramente dalla vita, se entra in un rapporto forte e reale con la nostra esistenza concreta, le sue tensioni essenziali, i suoi desideri e i suoi significati.
    L'uomo fa sempre l'esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande: vive immerso nel concreto e nell'orizzonte delle cose manipolabili. Ecco allora emergere il significato dell'opera letteraria. Essa è "una sorta di strumento ottico", che consente al lettore di "sviluppare" ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé. È questa, ad esempio, la convinzione radicale dello scrittore francese Marcel Proust. Il ruolo della lettura letteraria è fotografico: gli uomini spesso non vedono la loro vita e così essa diviene ingombra di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l'intelligenza non le ha "sviluppate". La letteratura è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco dunque a che cosa "serve" la letteratura: a sviluppare le immagini della vita, a interrogarci sul suo significato e a comprenderlo. Serve dunque, in poche parole, a fare veramente ed efficacemente esperienza della vita.
    Un'altra bella immagine per dire il ruolo della letteratura è quella "digestiva". Il suo modello è la ruminatio della mucca, come affermavano il monaco Guillaume de Saint-Thierry e il gesuita Jean-Joseph Surin. Quest'ultimo a sua volta parla di "stomaco dell'anima". Michel De Certeau, gesuita anch'egli, ha addirittura indicato una vera e propria "fisiologia della lettura digestiva". Si può pure dire che la lettura sia uno "stomaco per digerire la realtà" (Pier Vittorio Tondelli). La letteratura è quel linguaggio capace di "trasformare in sé" il mondo e le esperienze: si tratta di una forma di assimilazione. Ecco: la letteratura serve a dire la nostra presenza nel mondo, a "digerirla" e assimilarla, a cogliere ciò che va oltre la superficie del vissuto.
    Serve dunque a interpretarla, a discernere in essa significati e tensioni fondamentali. Scrivere poesie, romanzi, racconti, persino fiabe è in se stesso un atto di decifrazione del mondo in cui si vive. Chi legge viene in contatto con questo lavoro di decifrazione, ed è egli stesso coinvolto in questo compito. Viene come "contagiato" a vivere lo stesso processo, sollecitato a guardare la realtà, anche quella personale, con occhi più acuti alla ricerca di simboli, valori, significati. E questo si può certamente definire un lavoro di discernimento culturale.
    Possiamo definire il discernimento culturale come la capacità critica di leggere la realtà (personale e sociale) e la cultura che essa incarna, cogliendo atteggiamenti profondi, significati, tensioni fondamentali. Per usare l'immagine di Marcel Proust già prima illustrata, il discernimento è la camera oscura che permette di sviluppare le lastre fotografiche che altrimenti rimarrebbero nere: è la vita che prende coscienza di se stessa, di ciò che è e del suo mistero. Insomma è vero ciò che ha scritto René Latourelle alla voce Letteratura del suo Dizionario di Teologia Fondamentale: "La letteratura scaturisce dalla persona in ciò che questa ha di più irriducibile, nel suo mistero. È la vita che prende coscienza di se stessa quando raggiunge la pienezza di espressione, facendo appello a tutte le risorse del linguaggio".
    Quando questo discernimento è operato alla luce del Vangelo, allora si può parlare distintamente di un discernimento culturale evangelico. Esso cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale, il seme "già" piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. Nel discernimento culturale cristiano non si tratta mai di scegliere o Dio o il mondo, ma piuttosto di cercare e riconoscere Dio nel mondo, che lavora per portarlo al compimento.
    Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti aveva scritto che la poesia "scopre gli abissi che abitano l'uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli". A questi abissi la letteratura è dunque "via di accesso": la letteratura e le arti "cercano di esprimere l'indole propria dell'uomo" e "di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità" (Gaudium et spes, 62). La letteratura, infatti, prende spunto dalla quotidianità della vita, dalle sue passioni e dalle sue vicende reali, l'azione, il lavoro, l'amore, la morte e tutte le povere cose che riempiono la vita, anche dall'incredulità scettica. Tutta la letteratura degna di questo nome, per la sua propria indole, non spiega ma "dispiega" la vita, acuisce la percezione, scopre abissi, rivela dinamiche interiori e profonde. È, in un certo senso, un concentrato di vita.
    Persino quando un poeta vuol dire che l'uomo è un assurdo, se il suo modo di porre la questione è radicale, può servire a scuotere le coscienze e interrogarle sul significato del vivere. Così la lettura di certa letteratura dell'assurdo può trasformarsi in un pungolo in grado di scuotere il lettore che non si pone domande, che non ascolta e non fa silenzio, che non percepisce la sua radicale condizione di essere bisognoso di salvezza, perché si considera già sazio e soddisfatto. Si possono leggere, ad esempio, queste righe dello scrittore svedese Stig Dagerman: "Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa". Queste parole, sebbene possano apparire come la mera negazione di una fede vissuta, sanno parlare molto bene dell'uomo, essere incompiuto in attesa di una consolazione che egli non può darsi da se stesso. Persino la letteratura dell'assurdo può lavorare spiritualmente sul lettore, scuotendolo dalle sue false certezze e apparenze. È la stessa dinamica che può innescarsi leggendo, ad esempio, una celebre poesia di un altro celebre svedese, il poeta Pär Lagerkvist: "Uno sconosciuto è il mio amico, / uno che io non conosco. / Uno sconosciuto lontano lontano. / Per lui il mio cuore è pieno di nostalgia. / Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affatto? / Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza?". Qui il senso di nostalgia e di assenza tende a trasformarsi nel calco vuoto di una presenza misteriosa che si desidera in modo inquieto e struggente.
    A questo punto però cambiano i parametri valutativi della "religiosità" di un'opera letteraria. Non sono i contenuti religiosi che la rendono tale. L'opera è religiosa se essa "stimola" nel lettore l'esperienza religiosa della trascendenza e della salvezza o il suo desiderio. Quando si legge, il campo della nostra esperienza si amplia perché "viviamo" cose che altrimenti mai potremmo o vorremmo vivere. Cresce la comprensione dell'uomo e anche la capacità di discernere le emozioni che lo agitano e lo spingono ad agire e a scegliere. Aumenta la capacità di cercare e trovare Dio in tutte le cose, persino nel "territorio del diavolo", come scriveva Flannery O'Connor. Anzi - è sempre la O'Connor a scrivere - "spesso la natura della grazia si può spiegare solo descrivendone l'assenza".


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