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    Raccontare storie

    Silvano Petrosino



    Si raccontano storie per dare voce e forma all’esperienza umana; è nel raccontare un viaggio, ad esempio, che quel determinato spostamento si costituisce come viaggio, entrando così a far parte dell’esperienza del soggetto; è attraverso l’esercizio del narrare che il soggetto trasforma un determinato spostamento spazio-temporale nell’esperienza di un viaggio. La «grande letteratura» è il luogo ove decantano e vengono salvaguardate le testimonianze relative ad alcuni aspetti essenziali dell’esperienza umana. È in questo senso, vale a dire in riferimento all’idea di esperienza, che bisogna intendere l’affermazione di Barthes secondo la quale la letteratura «la sa lunga sugli uomini»; ciò che la letteratura sa degli uomini è precisamente che la loro vita non è mai «nuda», dato che essi non possono fare a meno di abitarla che all’interno dell’«aggrovigliata trama» di un’esperienza che è «soggettiva per costituzione», vale a dire che è soggetta a segni, sogni, simboli, fantasmi, paure, rimorsi, aspettative, immaginazioni, speranze, illusioni, propositi, sensi di colpa eccetera. Ecco perché la «grande letteratura» si dimostra «grande»: le opere che la costituiscono non cercano mai, magari per andare incontro ai gusti dei lettori, alle aspettative degli elettori e alle esigenze del mercato, di risolvere o semplificare l’intreccio esperienziale; esse non mirano mai, magari per fornire «risposte semplici e rapide che escludono la domanda» (Kundera), a sciogliere lo «gnommero» (Gadda) attorno al quale si raccoglie ogni gesto umano; esse non si preoccupano di «fare cultura» e restano indifferenti di fronte ai «gusti raffinati» delle diverse élites. Il loro compito è infatti sempre lo stesso: cogliere e dare testimonianza al particolare modo d’essere dell’esperienza umana (Come pensa Anna Karenina? Come ama Emma Bovary? Come ride Dolores Haze?).
    Si colloca a questo livello la ricerca del mot juste sulla quale ha così tanto insistito Flaubert: si tratta di trovare la parola, l’unica parola, o meglio le uniche parole, o meglio ancora l’unico giusto intreccio tra le diverse parole in grado, non tanto di conquistare i favori del lettore (di questo si cura la retorica), quanto piuttosto di dare voce e forma a un gesto che umanamente è sempre intrecciato, aggrovigliato, stratificato, mobile, sfumato, denso, in una parola: drammatico. «La scienza è grossolana, mentre invece la vita è sottile ed è per correggere questo divario che la letteratura ci sta a cuore» (Barthes); si può ora precisare che l’esperienza, oltre a essere sottile, è, per l’appunto, anche sempre drammaticamente intrecciata, ed è per rendere testimonianza a un simile intreccio che per fortuna c’è la letteratura.
    Impegnato nella ricerca del mot juste, del giusto intreccio tra le diverse parole, il vero scrittore si trova così a lavorare ai limiti del linguaggio e al di là dei confini stabiliti dal senso comune e dalla sua cultura (in un certo senso il mot juste è sempre quello mancante): la fedeltà etica all’esperienza1 – è il cuore stesso della responsabilità dello scrittore: operando con e nel linguaggio, egli è l’unico essere parlante che non può mai parlare come vuole dovendo sempre parlare e scrivere come deve – lo costringe a essere politicamente rivoluzionario.
    La «grande letteratura», pertanto, è rivoluzionaria non perché abbia determinati interessi di parte che la spingono a sovvertire il potere vigente, ma perché, attraverso il duro lavoro sul linguaggio finalizzato alla ricerca del mot juste, essa si trova a «rimettere incessantemente in discussione i concetti essenziali della nostra cultura» (Barthes). Commentando l’interpretazione deleuziana della letteratura Marrati scrive:

    «I bei libri sono sempre scritti in una specie di lingua straniera». Questa frase di Proust in Contre Saint-Beuve – frase che Deleuze cita spesso e che figura in esergo a Critique et clinique – descrive perfettamente ciò che in gioco nella letteratura. Scrivere è sempre questa ricerca di una nuova lingua nella lingua, l’invenzione di una specie di lingua straniera. Scrivere è far sorgere delle nuove forme grammaticali o sintattiche che conducono la lingua al di fuori dei suoi solchi abituali: scrivere è far de-lirare la lingua, nel senso etimologico del termine, per portare il linguaggio verso un vedere e un ascoltare, verso delle «visioni» e delle «audizioni» che non dipendono più dal linguaggio, ma che esso solo rende possibili2.

    D’altra parte – è impossibile negarlo e anche se lo fosse è bene non farlo – si raccontano storie anche per ingannare e ingannarsi. Il potere delle parole in generale e della narrazione in particolare è talmente forte ch’esse riescono a mettere in scena un simulacro in grado di produrre degli «effetti d’esperienza»: non c’è stato alcun viaggio ma continuando a parlarne se ne gode come se esso fosse realmente avvenuto. Si configura in questo modo un’immagine del mondo che non ha nulla a che fare con il mondo reale, un’immagine che tradisce la concretezza e soprattutto la drammaticità all’interno delle quali il soggetto quotidianamente vive (è il mondo alla rovescia stigmatizzato da Sartre e oggi veicolato da una moltitudine di scriventi, che si credono scrittori, della rete digitale). Non per caso la narrazione, il raccontare storie, si configura come efficace strumento politico per ingannare il soggetto ma anche per l’ingannarsi del soggetto; come si usa dire, «gliela raccontano» ma anche «se la racconta», e in questo modo, proprio attraverso simili narrazioni, il soggetto riesce in una qualche maniera a evitare certi interrogativi e soprattutto a sorvolare su alcune verità scomode che lo riguardano.
    Il dramma dell’esperienza umana a cui la «grande letteratura» cerca, con insistenza e determinazione, di dare voce e forma è pertanto lo stesso che la «pseudo-letteratura», con altrettanta insistenza e determinazione, cerca invece di mettere a tacere e trasfigurare: quest’ultima, infatti, non avendo alcuna intenzione «di sporcarsi le mani, di scendere nell’animo, anche quello più traviato e corrotto: l’illustre dimora dell’uomo» (Cayrol), vuole soprattutto salire e far salire, vuole fare opera di cultura, vuole commuovere, convincere, consolare, rinfrancare, edificare, «elargire saggezza in forme abbastanza semplici perché il mondo sia in grado di assorbirle» (O’Connor). Alla fine, distratta da simili nobili propositi, essa si trova a raccontare storie proprio per «non pensarci» e soprattutto per «non farci pensare».
    Queste due modalità del narrare si intrecciano in modo talmente inestricabile da costituire il tessuto stesso del «raccontare storie». Ecco una questione che non potrà mai essere risolta in «dieci minuti»; infatti, come insegna la parabola evangelica del grano e della zizzania, di fronte a un simile intreccio bisogna dimostrare la stessa sapienza e la stessa pazienza a cui ci invita il padrone del campo: bisogna a ogni costo evitare che il giusto rifiuto di quella finzione che è al servizio dell’inganno finisca per renderci del tutto sordi al vibrare sottile e soave di quella finzione che è invece uno dei più sorprendenti luoghi in cui la verità umana non cessa di far sentire la sua voce.

    (Cap. 6, Conclusione, di Contro la cultura. Le letteratura, per fortuna, Vita e pensiero 2017)

     

    NOTE

    1 È questa fedeltà a spingere con insistenza la psicoanalisi verso la letteratura. Non si tratta, infatti, semplicemente di illustrare con alcuni passaggi tratti dalle opere letterarie determinati aspetti della vita psichica dell’uomo, quanto piuttosto di riconoscere nell’esperienza del soggetto che viene a parola in tali opere la stessa materia sulla quale opera l’analista. Da questo punto di vista la letteratura e la psicoanalisi si incontrano precisamente laddove si riconosce la pertinenza di quello scarto essenziale tra esperienza del soggetto e vita dell’individuo che, come più volte sottolineato, caratterizza drammaticamente l’esistenza di ogni singolo uomo. Su questo grande tema mi limito a rinviare a J. Kristeva, Polylogue, Paris, Seuil, 1978; Ph. Willemart, Au-delà de la psychanalise: Les arts et la littérature, Paris, L’Harmattan, 1998; M. Lavagetto, Freud. La letteratura e altro, Torino, Einaudi, 2001; J.-M. Rabaté, Jacques Lacan: Psychoanalysis and the subject of literature, Hampshire-New York, Palgrave, 2001; AA.VV., Lacan & La littérature, Houilles, Éditions Manucius, 2005; S. Žižek, Sulla letteratura. Shakespeare, James, Kafka, Beckett, Napoli-Salerno, Orthotes, 2016.
    2 P. Marrati, Contro la doxa: filosofia e letteratura nell’opera di Gilles Deleuze, in AA.VV., Il potere delle parole. Sulla compagnia tra filosofia e letteratura, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 145-170, citazione p. 161.


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