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    Passione e Resurrezione di Cristo

    nella poesia contemporanea

    Alessandra Giappi

    La Passione e la Resurrezione di Cristo costituiscono il nodo tematico più dirompente con il quale la letteratura si trovi a misurarsi. Si tratta di una missione quasi impossibile, perché la Pasqua è evento soprannaturale da dirsi con parole umane. Allora la poesia si attrezza, tentando di ambientare in una cornice quel tema indicibile, nel quale si contrappongono incessantemente vita e morte, luce e ombra, materia e spirito.
    Lo studio prende in esame il tema della Passione e della Resurrezione di Cristo nella poesia italiana del Novecento: sono compresi nel catalogo testi dedicati alla Pasqua da diversi autori: tra gli altri, Carlo Betocchi, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Cristina Campo, Leonardo Sinisgalli e soprattutto Mario Luzi, nel suo centenario, autore della Via Crucis commissionata dal pontefice Giovanni Paolo II per la processione del Venerdì Santo del 1999. L’analisi, di tipo prevalentemente testuale, non può non soffermarsi sulla natura della poesia che talvolta si fa preghiera invocazione e lode e talora si interroga sul mistero, o, ancora, riflette sulla dimensione sociale della religione. Il tema del ‘sacro’, talvolta affrontato problematicamente, come nel caso di Giovanni Testori, è tuttavia ben presente nella poesia del nostro tempo. La poesia non è fatta solo di cose o di occasioni: è una via per interrogare l’assoluto, l’assolutamente Altro.
    In causa è la portata stessa della poesia, la sua capacità di cantare l’ineffabile. 

    Dopo secoli in cui aveva ispirato poeti soprattutto credenti e devoti, ci si aspetterebbe di vedere affievolito il tema della Passione e Resurrezione nel secolo breve, intriso di nichilismo, in cui sembra prevalere la materia sullo spirito. Spogliato dalla minaccia di stilemi convenzionali e da ogni retorica, quel tema indicibile, perché innaturale, oltre che soprannaturale, acquista invece nuova tensione e nuova intensità nella lirica italiana contemporanea: anche nel caso in cui se ne dovesse registrare la crisi. Si intende qui darne prova, attraverso un piccolo inventario di grandi autori.
    Concluso il lungo silenzio letterario successivo ai Frammenti lirici e ai Canti anonimi, la poesia di Clemente Rebora (1885-1957) fattosi rosminiano tornerà a scorrere nella raccolta scaturita dal calvario della malattia, i Canti dell’infermità, nei quali Gesù è l’interlocutore privilegiato del poeta sofferente, che con lui perfettamente si identifica per la comune esperienza di agonia, tanto da considerare la propria vicenda come un mezzo per riprodurre il sacrificio dell’Agnello: così da proseguire l’attività sacerdotale celebrando non più il sacrificio sull’altare, ma il sacrificio della Croce, fino a comporre una sua personalissima Via Crucis. In una poesia del 1956 il poeta si immedesima nel Christus patiens solo, spremuto e quasi ebbro del suo stesso sangue, segno
    dell’amore che si immola:

    Solo calcai il torchio:
    con me non era nessuno:
    calcarono su me tutti:
    inebriato quasi spreco di sangue
    in una rossa follia:
    solo il torchio calcai:
    liquido amore profuso
    in estremo furore,
    calcai il torchio, solo:
    solo a torchiare,
    solo a spremere il sangue mio:
    tutto il mio Sangue sparso,
    tutto in me già arso
    dall’Immacolato Cuore di Maria:
    invisibile ardore, quaggiù:
    l’incomprensibile amore del Padre.
    Gesù Gesù Gesù! [1]

    Il fuoco della sofferenza sembra non raggiungere l’ardore. Gesù è medium invocato, il Padre si avverte lontano e incomprensibile. Sul trionfo della Resurrezione prevale il tema della Passione. La Croce [2] afferma che in un mondo instabile e vano solo l’amore di Cristo è indispensabile e vero. Rèbora è animato dall’ansia mistica, non si sottrae alla prova, affronta il suo Calvario: canta mentre il suo fisico si dissolve. Così in Notturno:

    Il sangue ferve per Gesù che affuoca,
    Bruciami! dico: e la parola è vuota.
    Salvami tutto crocifisso (grido)
    insanguinato di Te! Ma chiodo al muro,
    in fisiche miserie io son confitto.
    La grazia di patir, morire oscuro,
    polverizzato nell’amor di Cristo:
    far da concime sotto la sua Vigna,
    […]
    questo, Gesù, da me volesti… [3]

    Eppure, disfatto, non soccombe se il suo sacrificio si mescola con quello di Cristo, se oblativamente accetta di farsi martire, strumento di grazia: lo spirito vince la materia e il male.

    La Pasqua dei poveri [4] di Carlo Betocchi (1899-1986) è una poesia corale nella quale sono i rappresentanti del sottoproletariato ad attendere e a celebrare la Pasqua, intesa come festa spirituale e sociale.

    Forse per noi, che non abbiam che pane,
    forse più bella è la tua Santa Pasqua,
    o Gesù nostro, e la tua mite frasca
    si spande, oliva, nelle stanze quadre.

    Povero il cielo e povere le stanze,
    Sabato Santo, il tuo chiaror ci abbaglia,
    e il nostro cuore fa una lenta maglia
    col cielo, che ne abbraccia le speranze.

    Semplice vita, alle nostre domande
    tu ci rispondi: Su coraggio, andate!
    Noi t’ubbidiamo; e questa povertà
    non ha bisogno più d’altre vivande.

    Noi siamo tanti quanti alla campagna
    sono gli uccelli sulle mosse piante,
    cui sembra ancor che le parole sante
    giungan col vento e l’acqua che li bagna.

    A noi, non visti, nelle grigie stanze,
    miriadi in mezzo alla città che fuma,
    Sabato Santo, la tua luce illumina
    solo le mani, unica festa, stanche:

    a noi la pace che verrà, operosa
    già dentro il cuore e sulla mano sta,
    che ti prepara, o Pasqua, e che non ha
    che il solo pane per farti festosa.

    Lo scenario è un quadro urbano dominato dalla tonalità grigia (della città e degli interni). E i poveri, grigi a loro volta, mimetici in una città già in preda ai fumi, provvisti solo di pane e non di companatico, rivolgono una preghiera a Gesù: e la sua parola li sostiene e li sazia: «Su coraggio, andate». I poveri sono un popolo di invisibili, più numerosi degli uccelli della campagna che hanno abbandonato per trovare lavoro nelle fabbriche. Se la povertà è assenza di luce («Povero il cielo e povere le stanze»), la vera ricchezza è lo splendore del Sabato santo. Invitati prediletti di Cristo sono gli appartenenti al terzo stato; destinatari privilegiati del mistero sono i semplici che nutrono speranza e aspettano con fede una risposta, i miti che riempiono le stanze quadrate di rami di ulivo. La luce di Cristo inonda le mani stanche dei poveri: apporta pace e rende operose le loro mani e il loro cuore. L’effetto dell’obbedienza all’incitamento di Gesù è una pacificazione che diventa fermento di operosità nelle intenzioni e negli atti (il cuore, le mani). Non soltanto slancio dunque, ma predisposizione a compiere il bene: perché il bene non sia cieco o casuale serve intelligenza e intenzione. E la pace interiore ne è la condizione preliminare. Si comprende facilmente che l’ingrediente indispensabile e sufficiente alla festa è il pane: non fu forse Cristo a spezzare il pane nell’ultima cena? E non è il pane nel mistero eucaristico il corpo di Cristo che straziato e vituperato nella Passione risorge in tutto il suo fulgore? Più strettamente liturgico risulta un altro componimento di Betocchi: Resurrexit. [5] Se solo il titolo sembra alludere alla Pasqua (si celebra in realtà la prima comunione delle bambine della parrocchia), un verso suggerisce il desiderio di rinnovamento, insito nel pensiero pasquale: «Via il peso delle private abitudini!». Ancora una volta si auspica il mutamento, invocato come si invoca la pioggia benedetta. La preghiera investe in questa cerimonia uno dei padri astanti, in attesa della moglie e delle figliole: un padre-tipo, onesto e magari comunista: «Dio ti benedica nelle tue speranze». La virtù (di moglie e figlie) si qualifica qui come «attiva innocenza»: che di nuovo sottolinea l’operatività della poesia, la fattualità dello stupore che essa genera.

    Dedicata a Giorgio Caproni, Per Pasqua: auguri a un poeta [6] si apre con uno scenario di croci sul monte e sulle colline: croci non di prima scelta, croci di poveri: anche Gesù ebbe una croce rimediata tra gli scarti di un falegname, «eppure estesa, ed alta, ed indomabile / e tentennante com’è la miseria». La precarietà diviene, come in tutto il Novecento, garanzia di reattività e di grandezza. Gli auguri non sono di circostanza, ma dettati da quel solito motivo che scampa dalle occasioni: del cuore che soffre solo di non amare.

    A questo biglietto d’auguri fa eco idealmente il destinatario, Giorgio Caproni (1912-1990), con la sua Pasqua di Resurrezione [7]. Non fosse il calendario a segnare la data, nulla farebbe presumere la festa: nessun indizio allude a una festosità assente dalla scena popolata da figure – da figuri – perverse che appaiono dal nulla. La bellezza primaverile incarnata dalla rosa è subito minata da una simbolica vipera dalla lingua bifida (quella che Maria schiaccerà col piede). Ogni tentativo di esultanza o di leggerezza è negato da improvvisi cali di luce: «Inutile / cercare di alzare il bicchiere». Il sintagma ossimorico «brulla risorgenza» nega una qualità precipua della rinascita, la facoltà di (ri)fiorire: che invece così, spoglia e senza gemme, suggerisce più una condanna che una liberazione. Somiglia piuttosto a un’antipasqua quella che si va rappresentando in questo quadro in cui a prevalere sono i divieti, le impossibilità. Questo componimento è in linea con la smagata ironia e il sarcasmo che pervadono l’intera raccolta caproniana (e molta parte del Novecento poetico italiano), nella quale l’unico approdo non potrà che essere il nulla.

    Elegia pasquale, [8] di Andrea Zanzotto (1921-2011), concepita negli anni ’43-44, e appartenente al libro del 1951, Dietro il paesaggio, risente del clima cupo e del desiderio di uscire dalla pesantezza del periodo bellico:

    Pasqua ventosa che sali ai crocifissi
    con tutto il tuo pallore disperato,
    dov’è il crudo preludio del sole?
    e la rosa la vaga profezia?
    Dagli orti di marmo ecco l’agnello flagellato
    a brucare scarsa primavera
    e illumina i mali dei morti
    pasqua ventosa che i mali fa più acuti

    E se è vero che oppresso mi composero
    a questo tempo vuoto
    per l’esaltazione del domani,
    ho tanto desiderato
    questa ghirlanda di vento e di sale
    queste pendici che lenirono
    il mio corpo ferita di cristallo;
    ho consumato purissimo pane.

    Discrete febbri screpolano la luce
    di tutte le pendici della pasqua,
    svenano il vino gelido dell’odio;
    è mia questa inquieta
    gerusalemme di residue nevi,
    il belletto s’accumula nelle
    stanze nelle gabbie spalancate
    dove grandi uccelli covarono
    colori d’uova e di rosei regali,
    e il cielo e il mondo è l’indegno sacrario
    dei propri lievi silenzi.

    Crocifissa ai raggi ultimi è l’ombra
    le bocche non sono che sangue
    i cuori non sono che neve
    le mani sono immagini
    inferme della sera
    che miti vittime cela nel seno.

    Il tema pasquale si affaccia qui per la prima volta nella poesia di Zanzotto, accostato a quello primaverile: ma la primavera è scarsa, ossia prematura e improduttiva. Promette ma non mantiene («la rosa la vaga profezia»). È una primavera implacabile nella sua ventosità questa che anziché lenire le ferite le rende più nitide e quindi più acute, spazza via le illusioni. Si concentrano i simboli pasquali - su tutti, l’agnello flagellato, il corpo fragile del poeta che si assimila a Cristo - ma mescolati e confusi ad aspetti esteriori della festa: il belletto, le uova, i rosei regali, le mani oranti. La luminosità è tagliente, febbrile: nient’altro che un «pallore disperato». C’è un’assunzione di responsabilità da parte del poeta («è mia questa inquieta / gerusalemme»), la consapevolezza di un destino individuale e certo collettivo non facile, di una sorte da vivere fino in fondo. La consapevolezza rivela la realtà qual è: le bocche sono sangue, i cuori neve, le mani immagini paralizzate della sera che nasconde vittime. È questa una Pasqua più che ‘dietro’ calata ‘nel’ paesaggio: ha pendici e croci sui monti, gli orti sono cimiteri immobili, sterili. Manca lo scatto verso l’alto, il guizzo di vitalità. Non si cangia in inno l’elegia. Anche in Pasqua di maggio, [9] appartenente al libro del ’73, Pasque, il poeta indica chiaramente un adunaton, un’impossibilità. Questa è una Pasqua altissima, tardiva: tanto più strano risulta allora il freddo diffuso, dominante nella sera dalle tinte verde-rosa-azzurro, che immaginiamo pastello, con nuvole che si accumulano e si sfanno, in un passaggio di biciclette. «Pasqua è Pasqua non è che un passa e va»: Pasqua è davvero un passaggio, ma qui più psicologico ed esistenziale che spirituale e religioso. Tanto più che il soggetto è ributtato da un’onda anomala oltre il «giusto significato». L’eccesso di slancio produce un fuori luogo (l’ennesimo). Sopravvive il simbolo della festa laica e pagana, l’uovo con i significati di nascita, di passaggio e di sorpresa che gli sono connessi. Soprattutto sono i sogni-uova a scivolare via. Eppure Pasqua che «tuba» da ogni parte dichiara la stagione dell’amore, nonostante una pioggia puntuale si accanisca come un pettine sul panorama. L’augurio-desiderio umano oltre che cristiano è che tutti siamo Pasqua e possibilità aperte: persone nuove, strumenti docili e consapevoli di un disegno di rinnovamento. Si tratta dello svolgimento di un rito interiore, mentale, ambientato nella campagna veneta che ha i colori dei dipinti di Paolo Veronese o del Tiepolo: un vero processo di percezione e di proiezione delle minacce più latenti, insite nell’apparentemente semplice e lucido teatrino naturalistico e antropologico. Peccato non ci sia più Zanzotto a parlarci di queste tracce, di queste vene, di questo gioco crudele sottostante la realtà. A rappresentare questo groviglio di sensi è, oltre alla partitura cromatica, lo spartito sonoro, giocato in chiave musicale attraverso la contaminazione, la sperimentazione linguistica ricorrente ad allitterazioni, anafore, onomatopee ma anche ad inserti di pittogrammi, stranierismi, cifre, lingue speciali. Un corredo al quale Zanzotto ci ha abituati (e Pascoli prima di lui). Nello stesso libro, La Pasqua a Pieve di Soligo [10] è un omaggio a Cendrars, autore di Le Paques à New York. Costituita da alessandrini a rima baciata, è il resoconto della rifioritura dell’io in tempo pasquale:

    è il tempo del Passaggio, del (Signore): piangete
    e gioite meco voi che di erbette avete fame, di vini sete.

    È il tempo tuo, (Signore), che fa e disfa il bianco e il blu
    nei fossati pei cieli sui monti e oltre e più.

    Pieve di Soligo è un intrico nel quale l’io prende le distanze dalla festa. Sopravvivono i simboli sacri: «salita trave spugna lancia che squarcia il petto» e vengono percorse le Stazioni della Via Crucis. Ma la sacra rappresentazione dialogata si fa critica corrosiva contro la pseudociviltà dei consumi e dell’immagine, nella quale la vista si è imbastardita e si è persa la possibilità di riconoscere il miracolo:

    Dic nobis Maria: quid vidisti in via?
    Ho visto attizzarsi e consumarsi il mito del vedere.

    Dic nobis Maria: quid vidisti in via?
    Ho visto trionfare le cose puttane, emarginarsi le vere.

    Dic nobis Maria: quid vidisti in via?
    Ho visto insaccarsi incensarsi il vinario il braciere.

    Fa’ o Signore che – ma il tuo fare cos’è?
    Fa’ o Signore che – ma non vedo il perché.

    La preghiera si perde nell’interrogazione o nel dubbio. E ancora:

    Fa’ o Signore – e tutto si disponeva, ma altrove, in valore.
    Fa’ o Signore – e s’apre lo schizoma nel suo puro albore.

    Fa’ o Signore – e preme e lievita il comico soma
    congiuntamente a vita e a morte nel producente schizoma.

    I valori sono altrove. Sul tono iconoclastico prevale quello ironicamente destrutturante che radiografa la scena rivelandone la fantasmagoria imperdibile ma anche le contraddizioni che irrimediabilmente la crettano. Il «soma», il corpo, è «comico». Il tutto è percepito e reso con accenti e non coperti rimandi lacaniani e freudiani: «cerco a tentoni i congegni per cui s’inneschi l’universa euforia; / per questo scatto, schizo, tic, rovesciata è la pietra». Il grido «gloria gloria» si confonde con il rombo dei motori. Il poeta è immerso in un’insolita turbolenta atmosfera pasquale, nel rito collettivo (da sagra o da luna park) che ha scardinato l’ordine consueto del «suo paese». In un componimento di Fosfeni Zanzotto apostroferà così la Pasqua: «Pasqua, tu, mutevole» e «sempre, forse, la più mutevole di tutte, / la più faina delle feste, la più infrugabile» e ancora: «Pasqua, inutile rincorrerti». Pasqua è una festa irraggiungibile, intangibile: solo da desiderare.

    Con Pasqua 1952, [11] appartenente alla raccolta La vigna vecchia, Leonardo Sinisgalli (1908-1981) ci immerge nel clima della sua campagna, quella lucana:

    […]
    Cristo risorgerà dal sepolcro di iris:
    i messaggeri ce l’hanno annunziato
    bussando alle imposte.
    I piccoli pastori ci portano i primi
    asparagi dalle spinete, l’ortolana
    scalza è entrata con un cesto di fiori di rape.

    Aspettavo da trent’anni una Pasqua
    tra i fossi, il muschio sopra i sassi,
    le viole tra le tegole. Ma i morti
    dormono nelle bare di castagno,
    sugli archi delle stalle e dei porcili,
    sulle crociere delle cantine e dei pollai.
    Fanno fatica ad abbandonare per sempre
    le nostre sedie, i nostri letti,
    dove vissero tanti anni di lenta agonia.

    […]
    M’ero messo in viaggio verso una Pasqua
    in fiore, incontro al Cristo purpureo
    che solleva il coperchio di grano bianco
    cresciuto nelle grotte.

    […]

    Ci è toccata questa valle, questa valle
    abbiamo scelta per tornarci a morire.
    Dove Gesù risorgerà con molta pena
    noi speriamo ardentemente di sopravvivere
    nel cuore dei compagni,
    nel ricordo dei vicini di casa e di campo.

    Si tratta ben più di una poesia d’atmosfera. È il bilancio di un destino: esprime la speranza disattesa e l’accettazione della realtà. Nella Pasqua fredda la famiglia si seppellisce in casa. Ad annunciare la Pasqua sono i giovani che bussano alle persiane e l’ortolana che reca fiori e rape, sorella della donzelletta leopardiana. Vita e morte si intrecciano in questa valle che è culla e sepolcro. La morte si annida e permane nella casa. E a Cristo che risorge fa da contrappunto il padre morente del poeta. Eppure non c’è tragedia: si avverte una continuità di affetti e di memoria. Agli umani resta la speranza di non morire completamente, di sopravvivere foscolianamente nel ricordo degli amici. La religione, con i suoi riti popolari, unisce e accompagna il passaggio sulla terra. Viene ribadita l’insufficienza della conoscenza rispetto allo choc dell’esperienza: si celebra la vittoria della realtà sulla teoria.

    La non mai abbastanza studiata Cristina Campo (1923-1977) ci ha lasciato due poesie di argomento pasquale: nella prima, Mattutino del venerdì santo, [12] un «magistrale discorso» si tiene in una scena che evoca l’antica alleanza, quando Mosè ricevette le Dodici Tavole, ma attualizzata: «l’altare vuoto e spoglio / al centro di un Cespuglio Ardente / di bocci e braci». Dio Padre che germoglia e brucia si rivolge a «proni volti in fiamme». Il sangue di Cristo, «cruenta porpora», è l’inchiostro necessario con il quale è stato possibile firmare un nuovo patto di alleanza tra Dio e l’umanità. Grazia del Dio immortale e condanna del Dio morto sono i due termini dello stesso grandioso e tremendo mistero. «Nella carne addormentato», Cristo risorge. L’altro componimento, Ràdonitza (Annuncio della Pasqua ai morti), [13] è un inno altissimo e modernissimo di lode alla Pasqua:

    Vento di primavera
    traslucido come spada:
    esilia dal sépalo affilato
    il boccio cremisi che ancora trema,
    come dall’anima lo spirito,
    il sangue dalla vena.
    L’inverno, occulto stelo
    che cullò le intenzioni, incubò le mortali esitazioni,
    falcia senza un grido;
    le psichiche vecchiezze recide
    dalla terribile vita.
    Pasqua d’incorruzione!
    Nel vento di primavera
    l’antica chiesa indivisa
    annuncia ai morti che indivisa è la vita:
    su lapidi d’ipogei
    posa i sepali che ancora tremano
    e al centro, al plesso, al cuore,
    là dov’è sepolto il Sole,
    là dov’è sepolto il Dono,
    il piccolo uovo cremisi del perenne tornare,
    dell’umile, irriconoscibile
    trasmutato tornare.
    Pasqua che sciogli ogni pena!

    Nucleo centrale della poesia è l’annuncio ai morti da parte della chiesa che la vita è intera. Non c’è separazione tra vita e morte. Un vento di primavera lucido e affilato decapita i sepali, stronca di colpo l’inverno, pigro alimentatore di intenzioni e di indugi, taglia i pensieri decrepiti. La giovane Pasqua non ammette ciò che è corrotto, esige un rinnovamento radicale. Soltanto così garantisce la liberazione da ogni dolore, pronto a sciogliersi sotto l’effetto del perenne ritorno della vita. La testimonianza della «morte della morte» è affidata a donne agghindate e attonite in una metropoli. La «notizia tremenda» della resurrezione chiama in causa ogni
    popolo, ogni regione, ogni storia, ogni pensiero: è una notizia globale ed eterna: è memoria proiettata nel futuro per i millenni a venire.

    Violenti chiaroscuri, compresenza di buio e di splendore sono poli indispensabili alla poesia religiosa di Margherita Guidacci (1921-1993). Nel libro del 1980, L’altare di Isenheim, ispirato al maestoso e sconvolgente polittico [14] di Grünewald, proclamando la riconsacrazione della vita attraverso la meditazione sulla morte, la poetessa dedica alcuni componimenti al tema, così adatto all’ossimoro di ombra-luce: Crocifissione, Deposizione, Resurrezione. Leggiamo il primo:

    A questo crocevia di tenebre
    davanti a noi sorgi tremendo,
    albero secco, stadera
    che reggi il gran corpo inerte.

    Un nudo legno trasversale
    taglia lo spazio
    e un nudo legno verticale
    svetta oltre il tempo:

    assi cartesiane
    della vita e della morte,
    intorno a cui si schiude
    ora il nero quadrifoglio.

    Nei lobi in alto, il vuoto ed il terrore
    come al grido «Mio Dio
    perché mi hai abbandonato?».
    In basso, fatto roccia in tre figure,
    tutto il dolore umano.

    Ma ecco avanza l’Agnello vittorioso
    verso la sua piagata controparte.
    E un Profeta ci addita, perentorio,
    salvezza nella metafora! [15]

    La croce di Cristo squadra lo spazio e vince il tempo, è misura di tutte le cose, determina direzione e senso. Al terrore dell’abbandono, al dolore umano coagulato nella concentrazione delle tre figure - Maria, Maria di Magdala, Giovanni - impietrite ai piedi della croce che regge il corpo del Dio piagato ed esanime subentra la vitalità dell’Agnello che sconfiggendo la morte ha procurato la salvezza a tutta l’umanità. In Deposizione regna il silenzio assoluto: «Nulla più turba la natura esausta. / La terra che tremò nell’ora nona / adesso giace immota». [16] E in Resurrezione la luce del Risorto vince le tenebre:

    Come naufraghi, a stento
    sopravvissuti alla burrasca,
    atterriti sul lido della notte
    stanno i tre soldati,
    con l’inutile spada
    e l’inutile elmo
    su cui improvviso si riflette il guizzo
    d’una luce violenta –
    il Signore s’innalza dalla tomba
    e s’aprono le tenebre
    davanti a Lui come un tempo le onde
    del Mar Rosso davanti ad Israele [17]

    Di Giovanni Testori (1923-1993) si ricordano diverse poesie di ispirazione religiosa che esprimono un percorso di ricerca e di fede costantemente messo alla prova. In Crocifissione [18] Cristo cade per la seconda volta sotto il legno della croce: è il pegno e il segno del suo amore. Le analogie spesso fioriscono:

    è qui il pegno,
    sacro legno,
    fama,
    orma.

    Cristo è anche «stella» e «astro»: sintetizzando la sua parabola di uomo, l’autore nota che scelse una nascita umile, illuminata dalla stella, destinato a sua volta a far ritorno al cielo. Le cadute di Cristo si moltiplicano, ben oltre le tre attestate dalla Via crucis: corrispondono ad ogni colpa reiterata dell’uomo. In Nel tuo sangue la provocazione diventa sempre più forte, fino a rasentare la profanazione iconoclastica:

    Perché hai gridato
    che ti lasciava
    se era tuo padre
    e t’amava? [19]

    E ancora:

    Hai voluto morire come uno
    che volesse qualcosa dimostrare.
    Ma tu dovevi soltanto
    vivere e amare. [20]

    La poesia di Testori, che egli stesso definisce «religiosa», si risolve in drammatico incontroscontro, in estremo confronto, con un Cristo non mistico ma carnale: un rapporto di amoreodio tra il poeta e Dio; e in ultima istanza individua nell’assenza di religiosità la ragione della crisi della cultura moderna.

    La Passione [21] di Mario Luzi (1914-2004) è da ritenersi poema sacro d’occasione. Il poeta non l’avrebbe composto se Giovanni Paolo II non glielo avesse espressamente richiesto: non si sarebbe cimentato in un’impresa tanto ardua. Eppure la morte e la rinascita alludono a uno dei temi più cari al poeta: il mutamento, secondo il cui principio ciò che è vecchio deve decadere per lasciare spazio al nuovo. Non a caso la festa pasquale coincide con la primavera: il mistero della Resurrezione non poteva che essere celebrato nella stagione della rinascita e del risveglio della luce. 
    Luzi concepisce una Via Crucis del tutto nuova: in forma di recitativo, è un lungo monologo di Gesù che parla in prima persona, da uomo, rivolgendosi al Padre che è Dio. A Lui, come sono soliti fare i figli, Egli confida i propri dubbi e il proprio sgomento di fronte all’agonia che lo attende, all’ultimo atto della missione che sa che di dover compiere («Tutto è compiuto», dirà sulla Croce). La natura umana di Gesù trema; quella divina sa. Mai la poesia aveva osato tanto: diventare Parola di Dio. Le stazioni di questo testo offrono spunti teologici e filosofici: esiste una sola eternità, quella governata da Dio, che è anche dove pare assente. Anche nella morte. Gesù parla nel gorgo del tempo che domina gli umani e di cui avverte la tristezza indicibile: Dio ne è immune. Gesù è vittima di una giustizia ingiusta che vuole uccidere il divino in Lui. In presa diretta Egli commenta la propria Passione: il bacio di Giuda, la cattura, il tradimento di Pietro, le cadute, il gesto pietoso della Veronica, la croce… Cristo che è vita («io sono la via, la verità, la vita») teme, più della morte stessa, la Via Crucis e i tre giorni di esilio nel nulla dopo la morte. Lo assale un dubbio umanissimo - Dio non dubita - circa l’utilità della sua missione salvifica: «La mia permanenza sulla terra è stata vana?». Vorrebbe essere stato più dio, per meglio testimoniare il Padre e per non patire, ora, il distacco; e più uomo, per meglio calarsi nella vicenda umana. Al Gesù di Luzi dispiace lasciare il mondo. Lui, Dio, è innamorato della terra, «terribile» ma «bella», così amabilmente umanizzata, sulla quale si conduce una vita «dolorosa» eppure «gioiosa». Tutto ciò che è umano è pieno di contraddizioni e di fascino. Il Figlio di Dio si intenerisce davanti alla creazione magnifica del Padre:

    XIII
    Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto.
    È bella e terribile la terra.
    Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto
    in un suo angolo quieto
    tra gente povera, amabile e esecrabile.
    Mi sono affezionato alle sue strade,
    mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
    le vigne, perfino i deserti.
    È solo una stazione per il figlio tuo la terra
    ma ora mi addolora lasciarla
    e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
    le loro case e i loro ricoveri
    mi dà pena doverli abbandonare.
    Il cuore umano è pieno di contraddizioni
    ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
    Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
    o avessi dimenticato di essere stato.
    La vita sulla terra è dolorosa,
    ma è anche gioiosa: mi sovvengono
    i piccoli dell’uomo, gli alberi, gli animali.
    Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
    Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
    Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
    Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
    La nostalgia di te è stata continua e forte,
    tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. [22]

    Se l’eternità pertiene a Dio, il tempo, invenzione umana, si declina lungo stagioni fragili, labili. È plausibile aspirare all’eternità: ma stranamente Gesù prova nostalgia della terra fin dal momento in cui si appresta a lasciarla: lui, destinato a tornare all’eternità con il Padre. Tutto il monologo si incentra sul contrasto (e la compresenza) di divino e umano - di celeste e terrestre, scriverebbero Agostino e Luzi -: che sono i due piani sui quali si gioca la promessa pasquale, concentrati nella sacra effige della Sindone. Il mistero della Passione e della Resurrezione di Cristo intessuto con la storia dell’umanità è quello che più radicalmente esprime la vocazione di una poesia che non esaurisca la propria ispirazione entro l’orizzonte della quotidianità: e che dunque si fa cercatrice dei fondamenti invisibili, soprattutto attraverso l’esperienza del magma del mondo. Chiamando in causa il nostro destino, individuale e collettivo, alimenta la nostra fiducia in una rinascita possibile, ci sospinge al rinnovamento dello spirito, alla ricerca di affrancamento. Ci dà speranza ed energia. In un mondo spesso triviale e distratto, ci fa avvertire la coscienza di una separatezza, della lontananza mai arresa dall’origine. La ripresa di temi generi e forme del sacro nella poesia di Mario Luzi muove da una sua convinta adesione alla fede, maturata durante l’infanzia grazie all’esempio e all’educazione materna, misurata poi negli anni dall’esperienza quotidiana. Ma il fattore biografico certo non basta a sostenere le ragioni essenzialmente poetiche del dettato. Si tratta di poesia del sublime in senso dantesco, attecchita nel terreno petrarchista e fertile dell’ermetismo fiorentino. La verticalità della poesia di Luzi presuppone però sempre la dimensione orizzontale, il senso della natura e della storia, della creaturalità degli esseri: direzioni perfettamente rappresentate dai bracci ortogonali della croce. Il poeta, figura naturale [23] per eccellenza, cerca in alto il proprio riferimento e il proprio interlocutore; in pieno relativismo novecentesco si ostina a perseguire le cause prime e il senso dell’esistere, a invocare l’assoluto. La poesia è spesso già preghiera, in Dante come in Luzi: è verbo che non smette di interrogarsi intorno all’Essere ed è a sua volta verbo creante. Il dire della poesia presuppone il fare, nella sua forma più semplice e più alta. La parola è germe ed essenza della realtà, idea che produce forma e svolgimento. Il tema religioso alimenta la sofferta necessità del mutamento, collettivo e individuale. Il riflesso del sacro nella poesia di Luzi afferma la bontà e la verità del divenire, riscattando così la parola occidentale dalla condanna che la confinava ad essere fossile di un’idea, crocifissa sul foglio bianco. Il suo discorso da «estremo principiante» che si colloca sempre «in quel punto pullulante dell’origine continua», dove sorgiva sgorga la vena dell’infinità dei possibili, dei virtuali - e dunque più intensi sorgono l’interrogativo e il dubbio - ha la stessa forza di una preghiera sempre ritornante e mai uguale a se stessa.

    Il tema del sacro, soprattutto del mistero più alto, quello della Passione e della Resurrezione di Cristo, è, come si è visto, presente nella lirica italiana contemporanea. La poesia del nostro tempo non è solo fatta di ‘cose’ o di ‘occasioni’ per visitare l’altrove sfuggendo a un ‘qui e ora’ costipato, stringente e apparentemente invalicabile: è una via per interrogare l’assoluto passando attraverso la realtà, per porsi le domande ultime.

    FONTE: https://www.italianisti.it/upload/userfiles/files/GIAPPI.pdf

    NOTE

    [1] C. RÈBORA, Le poesie, a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1988, 286.
    [2] Al tema della croce è dedicata una poesia scritta per la festa di Cristo Re del 1955, quando, in occasione del centenario della morte di Antonio Rosmini, venne issata un’alta croce sul Sacro Monte Calvario di Domodossola: «La Croce irraggia luce dal Calvario, / di nuovo posta da Rosmini al sommo: / dice in
    salvezza del mondo precario / che un solo Amore è vero e necessario». (ID., Le poesie…, 266).
    [3] Ivi, 273.
    [4] C. BETOCCHI, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1996, 79.
    [5] Ivi, 341.
    [6] Ivi, 20.
    [7] G. CAPRONI, L’opera in versi, Milano, Mondadori, 1998, 615.
    [8] A. ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori, 1999, 49.
    [9] Ivi, 433.
    [10] Ivi, 423.
    [11] L. SINISGALLI, La vigna vecchia, Milano, Mondadori, 1956.
    [12] C. CAMPO, La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991, 52.
    [13] Ivi, 56.
    [14] Il celebre polittico, realizzato da Grünewald per l’altar maggiore della chiesa del convento di Isenheim, è ora custodito nel Museo Unterlinden, a Colmar.
    [15] M. GUIDACCI, Crocifissione, in Le poesie, a cura di M. Del Serra, Firenze, Le Lettere, 1999, 293.
    [16] EAD., Deposizione, in EAD., Le poesie…, 294.
    [17] EAD., Resurrezione, in EAD., Le poesie…, 296.
    [18] G. TESTORI, Opere 1965-1977, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 1997.
    [19] Ivi, 977.
    [20] Ivi, 981.
    [21] M. LUZI, La Passione, Milano, Garzanti, 1999. Lo stesso monologo venne contemporaneamente pubblicato anche a Brescia per i tipi de l’Obliquo con il titolo Via Crucis al Colosseo. L’opera fu recitata dall’attore Sandro Lombardi durante la processione del venerdì santo del 1999 a Roma.
    [22] ID., Via Crucis al Colosseo, Brescia, l’Obliquo, 1999, 27.
    [23] Cfr. ID., Naturalezza del poeta, Milano, Garzanti, 1995.


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