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    Montale

    un classico inattuale

    Romano Luperini 

    Comprai gli Ossi di seppia, nella collana dello Specchio Mondadori, nel novembre 1956, attingendo ai miei scarsi risparmi. La data è scritta nella prima pagina del libro, seguita dalla mia firma di adolescente. Non avevo ancora sedici anni e da pochi giorni frequentavo la prima del liceo classico Galileo Galilei a Pisa.

    Da pochi mesi era uscito presso Neri Pozza, in una edizione numerata di mille copie, La bufera e altro, ma io non lo sapevo. Per me Montale era Ossi di seppia.

    Durante l’estate avevo scoperto Sbarbaro in un’antologia popolare della poesia italiana del Novecento che ospitava cinque poesie di ognuno dei poeti più significativi della prima metà del secolo. Sbarbaro era stato una rivelazione. Poi da Sbarbaro ero passato al Montale degli Ossi. «Linea ligure», avevo trovato scritto da qualche parte. In pochi giorni, a furia di leggerle e rileggerle, avevo imparato a memoria quasi tutte le poesie di Ossi di seppia. E a una ragazzina di cui ero innamorato leggevo Incontro, ricorrendo a un uso della poesia lirica per dir così “privatistico” che oggi sarebbe impensabile. La letteratura non era stata ancora sostituita dalla musica leggera e dalla canzone. Agli adolescenti (o, meglio, ad alcuni liceali) di allora pareva di riconoscere il senso stesso della vita nelle formule aspre e perentorie degli Ossi: «ch’ io scenda senza viltà»; «e dunque non ti tocchi chi più t’ama»; «la mia vita è questo scialo/ di triti fatto, vano/ più che crudele»; «codesto solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò che nonvogliamo»; «bruciare,/ questo, non altro, è il mio significato».

    In classe non ero il solo a conoscere Montale. C’erano soprattutto due ragazze, sedute una dietro l’altra, dalla parte opposta dell’aula, che lo leggevano sotto banco, lo recitavano a mente. E un altro mio compagno, per quanto meno entusiasta di loro (si professava crociano e ostentava distacco dalle frivolezze della poesia), era capace di unirsi a noi tre e di dire la sua su qualche poesia montaliana.

    Allora Montale non era ancora senatore a vita, né aveva vinto il Nobel. Eppure era normale che dei sedicenni lo ammirassero e ne facessero oggetto di conversazione. Oggi ciò non è più possibile. Da un trentennio non sussiste più un’ autorità dei poeti. Esiste forse oggi un poeta italiano vivente che abbia l’autorità che hanno avuto da vivi non dico Carducci o d’Annunzio, ma Ungaretti o Montale?

    Gli anni sessanta e settanta furono di lotte politiche. Abbandonai Montale così come avevo abbandonato I Malavoglia a favore di Mastro-don Gesualdo. Troppo lirici l’uno e l’altro, mi occorreva qualcosa di più duro e cattivo. All’università avevo seguito i corsi in cui Silvio Guarnieri aveva spiegato le poesie di Montale commentando le lettere che il poeta gli aveva mandato in risposta ai suoi quesiti (se ne parla nel capitolo di questo libro su Guarnieri interprete di Montale). Con lui sostenni un esame sulle Occasioni e sulla Bufera Ma la parte di me che amava Montale doveva sembrarmi troppo incline a un atteggiamento sentimentale e romantico, troppo soggettivo, troppo poco risentita sul piano politico. Un poco me ne vergognavo. Così per un ventennio trascurai Montale.

    All’inizio degli anni ottanta, il clima culturale cambiò rapidamente e radicalmente: lasciai la lotta politica, intrapresi una terapia psicoanalitica, tornai a leggere Montale e cominciai a studiarlo. Pubblicai due libri montaliani in rapida successione, Montale e l’identità negata nel 1984 eStoria di Montale del 1986, e, alla fine di quel decennio, il saggio Note sull’allegorismo poetico novecentesco. Il caso di Montale, che ricompare in questo volume con titolo modificato Era quello un periodo di grande fervore negli studi montaliani. Il poeta era morto nel 1981, pochi mesi dopo la pubblicazione einaudiana di L’opera in versi, che lo canonizzava ancora vivente. Il fervore continuò nel quindicennio successivo, raggiungendo il suo culmine nel 1996, per il centenario della nascita, con il congresso di Genova, a cui partecipai con uno studio su Nuove stanze, ripubblicato con diverse correzioni in questo libro e ricollegabile anch’esso all’interesse critico e teorico per l’allegoria che nutrivo in quegli anni. Io stesso, con Maria Corti, organizzai a Siena un convegno, con relazioni, fra gli altri, di Mengaldo, Blasucci e Guido Guglielmi. Vi prese parte anche Sanguineti che, controcorrente, con brillante energia argomentò la tesi di Montale mediocre poeta piccolo-borghese, importante più che altro come illustratore del tema nietzscheano della inettitudine. In quella occasione avevo presentato il saggioMontale e il canone poetico del Novecento (anch’esso, ora, in questo volume), in cui sostenevo la centralità di Montale nell’evoluzione della poesia novecentesca. Credo anzi che proprio questa tesi avesse provocato la reazione di Sanguineti.

    Negli ultimi quindici anni, fra la fine degli anni novanta e oggi, Montale è diventato di colpo un poeta inattuale. Un classico a cui guardare con una riverenza che non esclude un moto di fastidio o una sostanziale indifferenza. La bibliografia critica sulla sua poesia continua a crescere, la filologia ad accanirsi sui dettagli, l’editoria a sfornare epistolari e improbabili opere in versi inedite. Ma il dibattito langue, e nuove interpretazioni critiche complessive scarseggiano. Montale oggi è un oggetto di studio accademico.

    Prima non era così. L’alta dimensione tragica delle Occasioni e soprattutto della Bufera, in cui la ricerca di senso poneva la vicenda privata dell’io empirico a confronto con quella della storia umana, aveva coinvolto il destino di due generazioni, quella che aveva fatto la guerra e la Resistenza e aveva vissuto il decennio della guerra fredda, e quella che aveva fatto il sessantotto e vissuto il clima degli anni di piombo. L’evoluzione successiva, da Satura ad Altri versi, che aveva portato Montale ad approdare a un ilare nichilismo, e a un disincantato postmodernismo, s’incontrava ancora con una temperie storica, quella degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, la rifletteva e contribuiva a crearla. Ma oggi non sono più proponibili né la dimensione di tragedia e di rarefatta grandezza degli anni trenta-cinquanta, né la prospettiva di leggerezza un po’ cinica del postmodernismo. La possibilità di elevatezza è stata spazzata via dal trionfo dell’informe e dell’indifferenziato, mentre il signorile, sorridente o sarcastico, distacco che le è seguito è postura oggi improbabile dinanzi alle guerre, agli scontri di civiltà, al terrorismo internazionale, alle immigrazioni di popoli interi, al dilagare della crisi economica in Occidente e al modo opaco, indiretto e a-traumatico con cui questi avvenimenti sono vissuti nella “società dello spettacolo”. A poco a poco Montale sta scivolando in un cono d’ombra. Che posto può trovare in tempi come questi, tragici senza tragedia e comici senza possibilità di riso distanziante e straniante?

    Questo libro non intende solo bruciare un grano d’incenso sull’altare degli studi accademici. Anche quando si piega ai modi del commento nei capitoli su Corno inglese, Felicità raggiunta, si cammina, Il balcone, Nuove stanze, il testo analizzato è sempre assunto come spunto per un discorso complessivo e una interpretazione generale. Una tesi unitaria percorre tutti i capitoli, gettando luce sul percorso di Montale dal simbolismo giovanile all’allegoria vuota dell’ultima stagione. I singoli saggi, tutti posteriori a Storia di Montale (Laterza 1986, ma giunto nel 2010 all’ottava edizione), intendono approfondire e, talora, correggere (particolarmente a proposito del rapporto fra classicismo, postsimbolismo e allegorismo) la linea interpretativa di questo libro. Nei due capitoli più lunghi e impegnati (quelli dedicati a Nuove stanze e aSchiappino) si vogliono poi illustrare i due momenti fondamentali della parabola montaliana, quello tragico e quello comico, mostrando come in modi molto diversi l’atto di significazione allegorica mantenga in essi la sua validità, in senso positivo e propositivo nell’uno, in senso negativo e distruttivo nell’altro.

    Montale si interroga comunque sull’atto di dare senso. Il gesto dell’allegoria può rivelarsi vuoto e scoprire la propria insensatezza, ma non rinuncia a porre in termini conoscitivi e problematici il rapporto io-mondo.

    Che la poesia non consista nella realizzazione, ma nella mancanza è acquisizione di tutta la modernità. In fondo l’ultimo Montale è coerente con una esigenza che affiora già nel primo: meglio l’atonia che la delusione e la frustrazione che ne deriva: «e dunque non ti tocchi chi più t’ama». La differenza sta in questo: nel primo c’è ancora una dialettica aperta, e la felicità è nominata, è ancora possibile, è dolce e turbatrice (si veda, in questo volume, la conclusione del capitolo su Felicità raggiunta, Si cammina). Nell’ultimo, no; la rimozione si direbbe completata.

    E tuttavia, una traccia di resistenza persiste anche nell’ultima stagione montaliana. Schiappino non è una figura angelica e il tasso è solo un animale che per fuggire al cacciatore fa palla di sé e si lascia rotolare giù nel pendio. Il poeta spiega al lettore come a torto lui un tempo lo abbia elevato a simbolo o a emblema allegorico. Eppure la poesia trova il proprio senso solo scavando sulla distanza fra passato e presente, fra quel bisogno di significato e l’insignificanza attuale. Proprio mentre l’ultimo Montale dichiara la normalità della insignificanza, la sua, direi, ovvietà, riesce a definirla solo attraverso un confronto e una contraddizione. La molla della sua ultima poesia consiste in questo accanimento autodistruttivo, in questo impulso a sfregiare il proprio autoritratto perché colpevole di portare in sé la vocazione del senso. Nonostante tutto, la questione del significato continua ad assillarlo. Per questo, sino alla fine, non sa rinunciare – Schiappino è a questo proposito esemplare – alla ricerca di un allegorema in cui suggellare l’allegoresi della propria vita.

    Certo, ogni poeta che meriti questo nome si pone la questione del senso della esistenza. Ma Montale s’interroga proprio sul bisogno di senso, sulla gamma delle sue possibilità storiche e ontologiche, sulla sua ragione e sui suoi limiti, e anche sulle procedure con cui si manifesta, dal simbolismo giovanile all’allegorismo delle maturità e della vecchiaia, dall’impressionismo metaforico agli oggetti-emblema e alle figure angeliche, donne o animali che siano, sino al loro annientamento ironico e parodico e all’affermazione dell’insignificanza generale. Da questo punto di vista farlo rientrare sotto l’etichetta del “classicismo moderno” (d’altronde, accettabile per Le occasioni, ma assai meno per Ossi di seppia e La bufera e altro, e per niente per Satura e le raccolte successive) può essere riduttivo. Piuttosto che sul sostantivo, punterei sull’aggettivo. Montale non ha, se non episodicamente, la sicurezza del poeta classicista; piuttosto conosce l’inquietudine del bisogno frustrato di senso che è proprio del grande modernismo europeo.

    Al centro della sua poesia resta il problema del significato: esso può essere dichiarato col vigore sapienziale degli Ossi, o svuotato, svilito, beffeggiato come nell’ultima produzione. Ma solo di esso ci parla Montale. In fondo, a modo loro, lo avevano già intuito gli adolescenti che lo leggevano in una classe di liceo mezzo secolo fa. 

    (Capitolo introduttivo di R. Luperini, Montale e l'allegoria moderna, Liguori Editore, Napoli 2012). 


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