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    Mario Pomilio, a cento anni dalla nascita

    "Il Quinto Evangelio"


    Gianfranco Ravasi

    «Fino a ieri la penna era per me una parte fisica della mia stessa mano. Ora a fatica la impugno e mi sembra tanto pesante ed estranea». Così, a pochi mesi di distanza dalla sua morte avvenuta il 3 aprile 1990 Mario Pomilio al telefono mi annunciava attraverso questo simbolo la gravità della sua malattia, la sensazione di una fine imminente e, quindi, l’impossibilità del mio desiderio di averlo a Milano per un dialogo pubblico comune. La scrittura, effettivamente, era stato l’impegno, anzi, la vocazione suprema della sua vita iniziata cento anni fa, il 14 gennaio 1921 nel piccolo centro di Orsogna, in provincia di Chieti. Dovremmo subito aggiungere che quella sua «scrittura» si era spesso confrontata con la «Scrittura» per eccellenza, quella sacra, ed è proprio a questa interazione che vorremmo puntare nella nostra nota più teologica che letteraria.
    È facile intuire che stiamo per rimandare innanzitutto a quel Quinto evangelio che l’editore Rusconi pubblicò nel 1975, un testo provocatorio gettato nella palude dell’indifferenza e, talora, persino dell’ostilità di una certa cultura «laica» di allora, ma rivolto anche alla fortezza ben munita della Chiesa ove serpeggiava la tentazione di trasformare l’ortodossia in gelido dogmatismo, la morale in precettistica, il culto in formalismo, l’autorità in autoritarismo. Di quel romanzo non è possibile ricostruire ora la trama ramificata in personaggi e vicende che oscillano tra passato e presente, con molteplici ritratti e temi cesellati con grande incisività. Al centro della ribalta è Peter Bergin, un ufficiale americano, allocato nella canonica di una chiesa bombardata di Colonia, negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale.
    È in quei polverosi archivi che egli scopre alcuni documenti che rimandano appunto a un quinto Vangelo inedito. Stregato da questa ipotesi, egli inizia una vera avventura, alla ricerca non di un’arca perduta, bensì di uno scritto del quale riesce solo a scovare lacerti, risalendo nel passato fino, ad esempio, a Cassiodoro, il senatore teologo e poi monaco di Squillace (VI sec.), all’abate di Bobbio Teodoro di Tortona (XIII sec.) o al giansenista cavaliere Du Breuil nel Seicento pascaliano e così via. Ma la sua investigazione procede anche in mezzo al brulicare di carte delle varie biblioteche e degli archivi odierni e incrocia figure come il sacerdote Domenico De Lellis segnato lui pure dall’anelito verso un Vangelo inedito, così da ritornare a una purezza assoluta di fede («un Vangelo è nulla se non lo si vive») che, però, lo condanna all’isolamento e persino alla persecuzione.
    La curiosità storica in Bergin si trasforma progressivamente in un pellegrinaggio, l’avventura diventa ricerca spirituale perché i Vangeli anche al «solo udirli pronunziare diversamente dall’usato, all’improvviso ci suonano sediziosi». Gli interrogativi che lo artigliano sono raccolti, in una sorta di premessa tematica, nel testo del dramma Il quinto evangelista che egli lascerà quasi come testamento e che verrà ritrovato dopo la sua morte. In quelle pagine è inserito un piccolo foglio che Bergin aveva scoperto all’inizio del suo percorso sulle tracce dell’ultimo e ignoto Vangelo. In esso era trascritta questa parabola emblematica: «Un uomo andava pellegrino cercando il quinto evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, per l’affetto d’averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: Procura d’incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio».
    E il Cristo che progressivamente si delinea nel romanzo è, sì, ricomposto attraverso le reliquie dei frammenti testuali che l’ufficiale raccoglie, senza mai identificare lo scritto completo, ma alla fine è «il Dio vivente, salvatore di tutti gli uomini… Egli ha voluto salvarli tutti: altrimenti perché sarebbe venuto una volta sola?». La segretaria di Bergin, Anne Lee, davanti a quei frammenti dispersi, è convinta di scoprire «la mappa del cielo»: «essi, però, sono al massimo asteroidi orbitanti attorno a un remoto sole spento che, per quanto ci affanniamo, non riusciamo a localizzare». Il vero sole è, invece, vivo e risplendente: «Cristo non ci ha dettato una verità, ci ha lanciati in un’avventura… non è venuto a fondare delle certezze. È venuto a proporci un modo d’essere nella fede nella quale è incluso tutto, anche la possibilità del dubbio».
    Sulla scia di questo Cristo alla Bernanos, alla Mauriac o alla Julien Green, si può collocare un altro gioiello letterario-teologico che Pomilio pubblicò, sempre da Rusconi, nel 1982 e che gli valse il Premio Strega 1983: Il Natale del 1833. Anche in questo caso, in modo lacerante, lo scrittore si confronta con la Scrittura e lo fa annodando le sue pagine alle «smarrite vertigini» delle domande incandescenti che Giobbe scagliava verso un cielo muto e alla sanguinante theologia crucis della fede cristiana. Nel cuore dell’opera – che è una sorprendente e calibrata mistura tra documentazione storico-letteraria e libera creatività poetica – vibra la desolazione drammatica di Alessandro Manzoni che, proprio il giorno di Natale del 1833, aveva perso l’amatissima moglie Enrichetta Blondel.
    A Leopoldo II di Toscana due mesi dopo il grande scrittore confessava di essere un «uomo terribilmente visitato da Dio»: tra l’altro, l’anno successivo morirà anche la figlia Giulietta, moglie di Massimo D’Azeglio. La catarsi di tanto dolore è cercata anche attraverso la poesia, e le due redazioni sono a noi giunte incompiute e persino (nel primo tentativo) ridotte a «stilemi visibilmente slegati, a piccoli grumi espressivi», come osserva Pomilio. Nella seconda versione le quattro strofe si aprono a una quinta della quale, però, rimane una sola parola, «Onnipotente!», rivelando che la mano di Manzoni non era riuscita a procedere, nella consapevolezza che le domande radicali dell’esistenza sono interdette alla poesia e aperte solo alla fede perché, come aveva scritto a Leopoldo II, «la sventura è una rivelazione tanto più nuova quanto è più grave e terribile».
    A questo punto entra in scena Pomilio che s’accosta a Manzoni, anzi, cerca di introdursi nella sua anima e ne fa fluire tutti gli interrogativi più lancinanti: perché Dio e il male? Perché giusti e perversi sono ugualmente colpiti? Perché «la disperante oscurità dei disegni di Dio»? Dov’è la Provvidenza divina se la giustizia è calpestata? Perché il «perpetuo olocausto dei buoni»? Il male non è forse lo scacco di Dio? Potremmo continuare in questa elencazione che, forse in forma meno alta, è affiorata anche in molte persone semplici durante l’esperienza atroce della pandemia.
    Le pagine di Pomilio sono un continuo duellare con queste domande e, sia pure sotto i panni di Manzoni, si intuisce la sua stessa ricerca di credente (anzi, di ogni credente, a partire dall’Abramo del monte Moria col crudele comando divino del sacrificio del figlio Isacco, e soprattutto da Giobbe). Alla fine sembrerebbe stendersi sulla vicenda solo il sipario del silenzio di Dio e l’incombere di un firmamento freddo e disabitato. In realtà, c’è nella finale una frase emblematica: «La storia delle vittime è la storia di Dio», accompagnata da una riflessione intensa e acuta.
    Come scriveva Dietrich Bonhoeffer, il teologo martire del nazismo, «Dio in Cristo non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in forza della sua impotenza». Non si china per cancellare la sofferenza, ma diventa lui stesso sofferente e mortale. Non ci libera dal male, ma è con noi nel male fisico e interiore. E proprio perché, anche quando soffre e muore, non cessa di essere Dio, depone nella nostra carne misera e caduca, fragile e mortale che lui stesso indossa, un seme di eternità e di speranza destinato a sbocciare. È questo il vero senso della risurrezione, «l’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi», come diceva Rainer M. Rilke.

    (“Il Sole 24 Ore” - 14 febbraio 2021)


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