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    L'anima poetica

    Gianfranco Ravasi


    «Che fai alma? che pensi? avrem mai pace? / avrem mai tregua? od avrem guerra eterna?» Così s'interrogava nei primi versi di un sonetto delle sue Rime [1] (n. 150) Francesco Petrarca, il poeta che, sulla scia di un ritrovato Agostino delle Confessioni, iniziava quel dialogo intimistico con la propria anima che avrebbe avuto il suo apice nel Secretum [2] (o meglio, De secreto conflictu curarum mearum). L'opera, non destinata alla pubblicazione, vero e proprio testamento spirituale del poeta, è l'autobiografia di un'anima immersa in una crisi irrisolta. Essa discute per tre giorni proprio con sant'Agostino, alla presenza muta della Verità personificata. Impietosa confessione, scavo nella misteriosa complessità dell'anima, decifrazione del conflitto interiore che intercorre tra l'anima e il fascino seduttore dei beni mondani, il fluire del tempo, la tempesta delle passioni, la caducità della realtà umana, il senso di colpa, la tentazione dell'accidia, l'incombere della morte: questo e altro ancora è racchiuso nelle pagine spesso dolenti del poeta, scritte tra il 1342 e il 1343 e ritoccate tra il 1353 e il 1358. Esse sono, però, idealmente sintetizzate nelle domande del sonetto da cui siamo partiti e rendono Petrarca un antesignano del discorso moderno sull'anima e sull'interiorità.

    «L'angelica farfalla»

    Quelle domande, comunque, dilagano nella letteratura di ogni terra e di ogni secolo, con un'ansia insonne, in forme sempre nuove, con poche certezze e molte attese. In questa tappa della nostra ormai prolungata navigazione lungo il fiume dell'anima siamo, allora, alla ricerca di quella che abbiamo chiamato «l'anima poetica», ossia l'anima scoperta, cantata, interpellata dagli scrittori. Come sempre, sarà una rotta limitata che s'accontenta di sostare solo nelle insenature più spaziose e frequentate, altrimenti ci sarebbe da smarrirsi. Se, infatti, volessimo scegliere autori e titoli suggeriti dal solo Dizionario letterario Bompiani delle opere e dei personaggi (1955) e dalla sua Appendice del 1964, peraltro non esaustivi, avremmo già un programma di proporzioni impraticabili. Si va dai trattati Dell'anima di Aristotele, Tertulliano, Cassiodoro, Avicenna, sant'Alberto Magno, san Gregorio di Nissa o Dell'anima intellettiva di Sigieri di Brabante (XIII secolo) o sull'Anima del mondo di Schelling o sull'Anima e la vita dello spagnolo Juan Luis Vives (XVI secolo) fino a romanzi più o meno celebri, come Le anime morte di Gogol', L'anima di Enrico Butti (1894), le Anime stanche del norvegese Arne Garborg (1891), o alla novella Le anime del Purgatorio di Prosper Mérimée (1834).
    Si passa dai drammi, come Anime solitarie di Gerhart Hauptmann (1890) o come il famoso testo L'anima buona di Sezuan di Brecht (1939; ma il titolo tedesco parla solo di «uomo buono»), fino ad altri scritti di vario genere, come saggi, poemetti, opere liriche, raccolte di aforismi... La lista potrebbe essere allungata a piacere, sconfinando anche nell'ironia surreale come quella di Achille Campanile (1900-1977) che nell'opera, quasi omonima rispetto all'asserto, pubblicata nel 1974, ci assicurava che «non c'è alcun rapporto fra gli asparagi e l'immortalità dell'anima»! [3] Fermo restando il fatto, come dimostreremo durante il nostro percorso selettivo, che le riflessioni più intense e suggestive sono da cercare in opere che non recano nel titolo il termine «anima», eppure al loro interno sono dominate da questo tema. Anzi, se si volesse scavare in profondità, andando oltre la terminologia e le esplicitazioni, questo capitolo dovrebbe essere lungo quanto l'intero tracciato storico della letteratura. Per usare ancora un'immagine petrarchesca, il nostro navigare nelle «chiare fresche e dolci acque» dell'anima dovrebbe essere «infinito» per il tema e «in-finito» per la documentazione da allegare e l'estensione del percorso.
    Il primo degli incontri selettivi che ora proponiamo è obbligatorio e quasi scontato. Non si può parlare dell'anima nella letteratura senza coinvolgere a pieno titolo Dante Alighieri. Se stiamo all'arida statistica, la parola «anima» risuona nella Divina Commedia 71 volte (più una volta in latino, nella citazione del Salmo 119,25 Adhaesit pavimento anima mea, in Purgatorio, XIX, 73), «anime» 42 volte, «animo» 20 e «animi» una sola volta. Una folla di aggettivi accompagna la parola «anima», creando un vero e proprio caleidoscopio lessicale: anima degna, cortese, viva, buona, mal nata, trista, fella, morta, fuia (ladra, dal latino fur), lesa, feroce, ria, fera, antica, nascosta, sciocca, confusa, intera, lieta, divisa, lombarda, gentil, carca, latina, semplicetta, avara, monda, vaga, santa, preclara, gloriosa, prima /primaia, sana, mia, sua... E un analogo giuoco di aggettivi accompagna le «anime»: tristi, prave, lasse, nude, affamate, offense, sorde, nere, stanche, distratte, crudeli, fortunate, degne, care, donne («signore»), converse, tacite, devote, sicure, sante, ingannate, note, liete, amiche...
    La trama stessa della Divina Commedia come viaggio nell'oltrevita non può che essere popolata di anime, ora tormentate dalle pene infernali, ora nell'attesa della purificazione del purgatorio, ora avvolte dalla gloria luminosa paradisiaca. L'anima è, dunque, protagonista sia a livello d'azione e di narrazione sia a livello di ideologia sottesa. A sigla ideale di questo primato potremmo porre un verso che, attingendo alla già nota iconografia e letteratura tradizionale, definisce l'anima come «l'angelica farfalla» (Purgatorio, X, 125), liberatasi dalla crisalide e dal bruco carnale, destinata a librarsi nella purezza dei cieli:

    Non v'accorgete voi che noi siam vermi
    nati a formar l'angelica farfalla,
    che vola alla giustizia sanza schermi?

    Prima, però, di seguire questo volo senza impedimenti che l'anima compie dalla terra alla suprema giustizia divina, è necessario conoscere la strumentazione ideale che Dante adotta per il suo «folle volo» nell'oltrevita. È facile risalire alla sua fonte poetica e simbolica più immediata e trasparente: è il VI libro dell'Eneide di Virgilio, il «Maestro» per eccellenza, «fonte che spandi di parlar sì largo fiume» (Inferno, I, 79-80). In quel libro, che funge da controparte al canto XI dell'Odissea, e che è diviso tra l'orizzonte terrestre e le profondità delle viscere degli inferi, ma che si apre anche alla solarità dei Campi Elisi, Enea intraprende un viaggio tra le ombre, una «catabasi» verso i misteri dell'oltretomba.0
    Varcato il vestibolo dei mostri terrificanti, l'eroe virgiliano s'imbarca sul traghetto delle anime pilotato da Caronte e avanza sulle acque dell'Acheronte. Scorge Palinuro, la cui spoglia insepolta gli impedisce l'approdo alla pace eterna, ammansisce il Cerbero, s'imbatte nelle anime dei bambini morti, dei condannati innocenti, delle eroine tra le quali spicca una sdegnata e sdegnosa Didone, la donna che l'aveva amato e che era morta suicida per amore, dei combattenti greci e troiani alla guerra di Troia. Davanti a Enea si bloccano le porte invalicabili del Tartaro i cui abitanti, i grandi dannati, sono evocati dalla Sibilla, l'unica che ebbe accesso a quelle plaghe infernali. Ma alla fine, ecco spalancarsi in un effluvio di luce le porte dell'Elisio, il «paradiso» popolato di eroi, poeti, vati e sacerdoti: là Enea può riabbracciare il padre Anchise, compiendo così il sogno del suo viaggio escatologico. Questo è dunque il modello tenuto presente dal poeta fiorentino per elaborare la mappa del suo itinerario nel mondo delle anime.
    Ma nella trama stupenda e fantasmagorica della Divina Commedia si intravede in filigrana un'altra fonte di ispirazione, che rende il poema dantesco una specie di libero ma efficace compendio della dottrina cristiana sull'anima. Nel 1885 un professore, D. Giacomo Poletto, pubblicava un particolare dizionario dantesco [4] con il quale si raccoglievano tutti i rimandi, le allusioni, gli spunti che gli scritti di Dante rivelano come appartenenti alla teologia di Tommaso d'Aquino. La compilazione della voce «Anima» manifesta la vastità e la profondità delle conoscenze metafisiche del poeta, depositate soprattutto nella Divina Commedia e nel Convivio. Analogo risultato si avrebbe ricorrendo alla voce «Anima» dell'Enciclopedia dantesca, redatta da un docente di filosofia medievale.[5] Cerchiamo, allora, attraverso il sussidio offerto da queste analisi, di abbozzare in modo essenziale la teologia e la filosofia dell'anima proposta dall'Alighieri.
    Principio vitale, infuso da Dio, per Dante l'anima designa la realtà spirituale della persona e quindi, come tale, è incorruttibile: per questo il poeta relega Epicuro e «tutti i suoi seguaci» nel sesto cerchio dell'inferno abitato dagli eretici, perché costoro «l'anima col corpo morta fanno» (Inferno, X, 15), dottrina bollata con ardore nel Convivio (II, 8, 8) come «intra tutte le bestialitadi quella stoltissima, vilissima e dannosissima». Capace per libera scelta di atti morali, l'anima si avvia verso il suo destino glorioso o tenebroso, quel destino che costituirà la sostanza poetica oltre che teologica delle tre cantiche. Durante il percorso nel mondo delle «anime prave» oppure in quello delle «anime degne di salire a Dio» o, infine, nel cielo delle «anime sante» e «gloriose», Dante coglie l'occasione per incrociare tutti i temi della filosofia e della teologia cristiana sull'anima. Pur basandosi saldamente sulla dottrina aristotelica per cui «l'uomo è composto di anima e di corpo» (Convivio, IV, 21, 2), secondo un'unione che è sostanzialmente «in essendo» e non solo «in operando» (come volevano Averroè e Sigieri di Brabante, pensatori pur venerati dal poeta), l'Alighieri esalta nettamente la natura spirituale dell'anima. Essa è una sola, contro l'opinione platonica del triplice principio vitale (anima concupiscibile, anima irascibile, anima razionale), ma è dotata di molteplici potenze che la rendono capace di operazioni differenziate, vegetative, sensitive, intellettive e su questo aspetto il Convivio è ricco di analisi che rivelano il robusto temperamento teorico di Dante.
    Egli non teme - soprattutto in quell'opera, ma con molteplici ammiccamenti nel suo poema - di inoltrarsi nell'analisi delle correlazioni tra anima, corpo e passioni, arrischiandosi anche sul terreno mutevole dei rapporti tra essenze e potenze, pur senza mai impegnarsi a favore delle tesi tomiste o di quelle agostiniane, rinverdite creativamente da Duns Scoto. Come non esiterà nel canto XXV del Purgatorio a impegnarsi in un'impervia riflessione sulla possibilità dell'anima di soffrire pene corporee: infatti, come può l'anima nell'aldilà patire pene fisiche se essa è separata da quel corpo che è rimasto quaggiù nel sepolcro? L'anima «separata» deve perciò mantenere una certa qualità corporea non solo per subire le punizioni fisiche infernali o purgatoriali, ma anche per sussistere, ferma restando la tesi dell'unità sostanziale dell'anima e del corpo, già ribadita. Si sente in questa affermazione il magistero dell'Aquinate.
    Sempre in questa linea, dopo un lungo peregrinare filosofico non privo di asperità, il poeta, ora affidandosi alla speculazione teologica, ora imboccando il linguaggio dei simboli, riesce a escogitare una sua ipotesi per spiegare l'arco intermedio tra morte e risurrezione finale. L'anima in quella fase, per la sua intima virtù di essere forma del corpo, continua a irraggiare attorno a sé una corporeità, come l'arcobaleno è segno del sole nell'aria ancora tenebrosa e umida di pioggia o come il bagliore, che va ben oltre il fuoco che lo irradia. Come scriveva Anna Maria Chiavacci Leonardi nel suo bel commento alla Divina Commedia, «qui vibra l'animo di uno dei massimi ingegni dell'umanità che parla in versi commossi di uno dei più gravi problemi dell'uomo. La stessa profonda sensazione accade di provare a volte quando si leggono certe pagine di Platone o di Agostino». [6]
    Non è nostro compito offrire un'esegesi di quel canto XXV del Purgatorio, ma sarebbe interessante seguire l'argomentazione antropologica dantesca sul tema arduo e delicato dell'anima «separata» che, quando «solvesi dalla carne ... in virtute [ossia nella sua essenza virtuale, in radice] ne porta seco e l'umano e 'l divino», cioè conserva sempre in sé le facoltà umane vegetative e sensitive e quella intellettiva divina (XXV, 80-81). Proprio per questo segno di trascendenza, l'anima originata da Dio reca impressa in sé un'irresolvibile inquietudine, una mai placata nostalgia: è, questa, non solo le stimmate del divino nell'uomo, ma anche l'epifania anticipata della nostra necessaria immortalità. A quest'ultimo proposito, Dante è teso tra la via razionale aperta da Tommaso d'Aquino per dimostrare filosoficamente l'immortalità dell'anima e la strada mistica battuta da Duns Scoto ed è per questo che nei suoi scritti si rivela esitante. Nel Convivio si aggrappa al consenso universale dei pensatori e persino ad argomenti «sperimentali» come la divinazione e i sogni. Ma alla fine proclama la sua fede nella «dottrina veracissima di Cristo ... dottrina dico che ne fa certi sopra tutte le altre ragioni» (II, 8, 8-15). Nel Paradiso la vita umana è mirabilmente rappresentata come sospesa tra il soffio creatore del sommo amore divino («beninanza») e lo stesso desiderio umano di ritornare a quella sorgente vitale:

    Vostra vita sanza mezzo spira
    la somma beninanza, e la innamora
    di sé sì che poi sempre la disira (VII, 142-44).

    In questo abbraccio di due amori, l'uno, quello divino, generatore dell'altro, l'amore umano, si concepisce l'immortalità non tanto come un'esistenza duratura per sempre, ma come un dono di comunione che il Dio eterno offre alla creatura umana. E in questi versi si sente pulsare lo stesso ardore dell'agostiniano «Fecisti nos ad te, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te», ci hai fatti per te, e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te (Confessioni, I, 1, 1).

    «Caddi, e rimase la mia carne sola»

    All'interno di quell'immenso patrimonio di poesia e di teologia che è la Divina Commedia noi ora ritaglieremo una duplice scena impostata quasi a dittico: essa vede come protagonista l'anima di un padre e quella di un figlio, ma con esiti antitetici. Noi invertiremo l'ordine cronologico e narrativo e partiremo dalla prima tavola di questo dittico simbolico, quella a sbocco positivo. Il tema è, comunque, lo stesso, il destino ultimo dell'anima oltre la morte, in entrambi i casi lasciato quasi in sospeso per esplodere appunto in modo drammatico e opposto. Siamo nel V canto del Purgatorio. Lo sfondo è quello del secondo balzo dell'Antipurgatorio, ove si aggirano le anime delle vittime di morte violenta. Al centro di una trilogia grandiosa di personaggi, inserito fra la tragica fine per assassinio di Jacopo del Cassero, colui che vide delle sue vene «farsi in terra laco», e la dolce e lirica presenza di Pia de' Tolomei («ricorditi di me, che son la Pia...»), ecco il potente ritratto a tutto tondo di Buon-conte da Montefeltro, figura immersa nell'atmosfera di un «mistero» sacro e cantata – come scriveva Natalino Sapegno nel suo commento [7] al capolavoro dantesco – nell'«elegia del misero corpo rimasto insepolto», ma anche nella professione di fede nella certezza che «la forza di un istante solo di pentimento basta a redimere un'intera esistenza di peccato». Proprio il contrario speculare di quanto era accaduto al padre di Buonconte, Guido, che, come si vedrà, è la dimostrazione dell'«inutilità di un lungo periodo di penitenza, distrutto da un solo peccato senza pentimento».
    «Io fui da Montefeltro, io son Bonconte...» Così si presenta il figlio del famoso condottiero ghibellino che Dante aveva già incontrato nel XXVII canto dell'Inferno, il citato Guido. Buonconte aveva guidato i ghibellini di Arezzo nella guerra contro i fiorentini, sfociata nello scontro sanguinoso della piana di Campaldino. Era l'11 giugno 1289 e in quella battaglia Buonconte era stato ucciso. Il cadavere, però, non fu mai ritrovato. Il poeta ricostruisce le ultime ore del personaggio in un affresco cupo eppur pacato, dipinto nei versi 85-129 del canto. Al centro della scena c'è un uomo con un foro di spada alla gola, che avanza barcollando e «'nsanguinando il piano» dove si era svolto il combattimento, il cui terreno è quasi striato da questa scia di sangue. Ormai stremato, il guerriero va a morire sulla
    sponda di un fiume, l'Archiano, affluente di sinistra dell'Arno. È proprio in quest'ultimo istante che si delinea in modo originale il tema dell'anima, chiamata da Dante
    «l'etterno» che è nell'uomo, e del suo destino. Lasciamo la parola al poeta che dà voce a Buonconte:

    Quivi perdei la vista, e la parola;
    nel nome di Maria fini, e quivi
    caddi, e rimase la mia carne sola.

    Io dirò vero, e tu 'l ridì tra' vivi:
    l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno
    gridava: «O tu del ciel, perché mi privi?

    Tu te ne porti di costui l'etterno
    per una lacrimetta che 'l mi toglie;
    ma io farò dell'altro altro governo!» (vv. 100-08).

    Con la vista annebbiata, la gola quasi esangue e l'agonia ormai alle soglie della sua conclusione, il moribondo riesce a lanciare un'ultima implorazione a Maria, un'umile giaculatoria nella quale si condensa tutta la speranza e la fiducia di un disperato. Ed è subito silenzio su quel cadavere abbattuto, ridotto a un ammasso di «carne sola» e ferita. Si scatena, allora, una sorta di duello verbale tra l'angelo, che viene a reclamare l'anima di Buonconte per quel supremo e perfetto attimo di fede che ha cassato un'esistenza di peccato, e il diavolo che ironizza su quella «lacrimetta» che dovrebbe bastare per strappargli una preda che riteneva già a lui assegnata. Non un lungo pianto penitenziale, non una solenne preghiera, non una completa confessione delle colpe, ma una sola lacrima sincera che riga un volto esanime basta dunque a strappare l'anima all'inferno e a riportarla a Dio. Il pensiero corre a un passo neotestamentario, presente nella lettera di Giuda, che, citando un apocrifo giudaico, l'Assunzione di Mosè, descriveva già un simile duello: «L'arcangelo Michele, quando - contendendo con il diavolo -disputava per avere il corpo di Mosè, non ardì accusarlo con parole offensive, ma disse soltanto: "Ti condanni il Signore!"» (1, 9). È però evidente anche la distanza tra i due testi: là era di scena Mosè, la grande guida dell'esodo di Israele dall'Egitto, «amico» di Dio, uomo giusto e mansueto; qui, invece, è protagonista un peccatore; là l'oggetto del contendere è il corpo di Mosè, essendo l'anima già assunta al cielo; qui è proprio l'anima a essere oggetto di disputa.
    Avviene, così, un ribaltamento. Satana, con una violenta bufera che sconvolge quel campo di battaglia, il cielo stesso e il fiume, riesce a impossessarsi almeno del cadavere di Buonconte. Si ha, quindi, una certa dissociazione tra corpo e anima, benché non totale. Infatti quella salma reca anch'essa un segno dell'estrema conversione, cioè le braccia incrociate sul petto come simbolica espressione di fede e come traccia dell'appello a Maria e a Cristo salvatore. Ecco, allora, l'atto dissacratorio del diavolo che può solo accontentarsi di infierire su quel corpo martoriato, ma segnato dalla fede dell'anima:

    Lo corpo mio gelato in su la foce
    trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse
    nell'Amo, e sciolse al mio petto la croce

    ch' i' fe' di me quando 'l dolor mi vinse:
    voltommi per le ripe e per lo fondo;
    poi di sua preda mi coperse e cinse (vv. 124-29).

    Il quadro poetico si dissolve con questo corpo scaraventato qua e là tra le onde, detriti di tronchi, rami e sassi, che sono «preda» della corrente del fiume ingrossato. Rimane inalterata e limpida la certezza che, nonostante lo scempio dissacratorio esteriore operato da Satana, deciso a cancellare ogni traccia della vicenda interiore, all'anima è concessa la salvezza. Essa è scaturita da un'opzione fondamentale, come si dice nel linguaggio teologico moderno, ossia da una scelta perfetta, radicale e assoluta, emessa con tutto l'essere, intelletto cuore e volontà, capace di cancellare la lunga serie delle particolari decisioni negative e peccaminose. L'anima è considerata, dunque, come il vertice e la sintesi della persona, sede della libertà, spazio terminale per l'epifania della grazia divina che redime, in attesa che l'intera realtà dell'uomo, corpo e anima, sia salvata nella finale trasfigurazione della risurrezione. In questa economia della salvezza una funzione significativa è quella di Maria che - secondo l'antica tradizione ecclesiale che ha in Dante un grande cultore, come attesterà anche la stupenda preghiera che suggella il Paradiso (canto XXXIII) - espleta la missione di «avvocata» intercedente presso il Cristo, suo figlio. Tra parentesi, vorremmo a questo proposito ricordare che anche Petrarca in un suo sonetto, il 346 delle Rime, fa incontrare Maria con le «anime beate» nel giorno della sua assunzione al cielo:

    Li angeli eletti e l'anime beate
    cittadine del cielo, il primo giorno
    che Madonna passò, le fur intorno
    piene di meraviglia e di pietate.

    «Che luce è questa e qual nova beltate»
    dicean tra lor «per ch'abito sì adorno
    dal mondo errante a quest'alto soggiorno
    non salì mai in tutta questa etate?»

    «Tu non pensavi ch'io loico fossi!»

    C'è un dittico da ricomporre, come si è detto, tra i due Montefeltro, padre e figlio. Dobbiamo ora evocare la tavola oscura e negativa, cronologicamente e narrativamente antecedente. Anche se primaria è - come scriveva Attilio Momigliano [8] nel suo commento dantesco - «la solenne e religiosa aura di elegia» che accompagna la sorte salvifica di Buonconte, importante è anche la scena parallela, ma tematicamente antitetica che vede come protagonista il padre di Buonconte, Guido da Montefeltro, e che è immersa nella tenebra infernale dell'ottava bolgia, quella dei consiglieri fraudolenti. Il canto è il XXVII dell'Inferno, uno dei più tesi e tragici, segnato anche dalla passione politico-profetica del poeta. Il cuore della vicenda è, però, di natura squisitamente etica e ci riconduce al nostro tema: per la salvezza dell'anima è necessaria e insostituibile la conversione del cuore; ogni altro mezzo, anche canonicamente riconosciuto, non può essere sufficiente né servire da surrogato.
    La vicenda è presto detta e Dante stesso la narra con icastica brevità. Il ghibellino Guido era stato paladino della resistenza antipapale in Romagna, aveva combattuto contro i fiorentini, schierato dalla parte dei pisani, era divenuto signore di Urbino e, con una conversione politico-religiosa, aveva deciso di avvicinarsi a papa Bonifacio VIII e di farsi frate francescano fino alla morte, avvenuta nel 1298. Per tutta la vita si era, dunque, abbeverato al calice del potere, aveva praticato tutti «li accorgimenti e le coperte vie» dell'inganno, ma in età avanzata aveva affidato l'anima a Dio, convinto di essersi salvato. Tuttavia, proprio un ultimo rigurgito della sua vita passata l'avrebbe rovinato. Infatti, Bonifacio VIII, nella sua implacabile lotta contro i Colonna, aveva convocato Guido dal ritiro conventuale per ottenerne un consiglio basato sulla sua esperienza e sulla sua astuzia perversa, esercitata in passato, promettendogli comunque l'assoluzione anticipata. Il vecchio condottiero, stretto tra due scelte, quella del peccato e quella del timore nei confronti della «superba febbre» del papa-padrone, aveva optato per il pontefice, consigliandogli una strategia fondata sull'inganno: promettere ai Colonna la pace e sorprenderli poi con un attacco.
    Dopo quella consulenza perversa Guido era ritornato nella quiete conventuale; erano passati alcuni anni ed era giunta alla fine la morte. Proprio nell'istante estremo si era però scatenato il dramma. Il nostro personaggio, infatti, si era appena spento quando al capezzale si era presentato san Francesco a raccoglierne l'anima, perché il defunto apparteneva al suo Ordine. Ma ecco la sorpresa:

    Francesco venne poi, com'io fu' morto,
    per me; ma un de' neri cherubini
    li disse: «Non portar; non mi far torto.

    Venir sen dee giù tra' miei meschini
    perché diede 'l consiglio frodolente...» (vv. 112-16).

    Il diavolo si fa persino teologo, argomentando contro Francesco la correttezza del suo diritto di prelazione sull'anima di Guido perché

    assolver non si può chi non si pente,
    né pentere e volere insieme puossi
    per la contradizion che nol consente (vv. 118-20).

    A questo punto l'anima di Guido ha come un sussulto e, quasi risvegliandosi bruscamente da un'illusione di salvezza, si vede perduta per quel momento di debolezza nei confronti del papa. Ma, inesorabile e sarcastico, il nero cherubino infernale gli ribadisce la logica ineccepibile del suo diritto contro il sofisma escogitato da Bonifacio VIII e accolto come scampo di redenzione da Guido:

    Oh me dolente! come mi riscossi
    quando mi prese dicendomi: «Forse
    tu non pensavi ch'io 'dico fossi!» (vv. 121-23).

    Come osservava il critico Giorgio Petrocchi, «nella bolgia infernale il contrasto è dominato dalla beffarda sottigliezza "loica" del diavolo, e san Francesco appare quasi in un angolo, muto e impotente dinanzi all'irrevocabilità del peccato mortale; anche l'angelo che s'impadronisce dell'anima di Buonconte, il figlio di Guido, è silenzioso, ma sovrasta la scena davanti alla querimonia del diavolo, inutilmente devastatore di quel corpo senz'anima». [9] La vicenda è, come si diceva, parallela ma antitetica nel suo esito. In questo confronto tra padre e figlio si configurano due opposti destini dell'anima, di gloria e di dannazione. A deciderli è una scelta intima e libera, non il mero accadere esteriore, come poteva essere la lacrima o l'assoluzione papale. Alla radice del destino dell'anima c'è, dunque, l'opzione della coscienza, un atto che non si quantifica temporalmente né è frutto di costrizione. Questa scelta fondamentale riesce a mettere in azione armonica libertà e grazia, fede e salvezza, ma anche libertà e dannazione, calcolo e rovina. Il messaggio di Dante sull'anima è, allora, severo e consolante al tempo stesso.

    «All'attimo dirò: Fermati! Sei bello!»

    Pochi giorni prima di morire, Goethe (1749-1832) definiva il suo Faust [10] con l'aggettivo «incommensurabile». E in effetti un simile capolavoro, oggetto di incessanti contese interpretative, è «fuori misura» in tutti i sensi, incomparabile e inesauribile, immenso e immane com'è. Per questo, l'unico parallelo degno con la Divina Commedia ci sembra essere proprio il dramma che il poeta di Francoforte elaborò in modo discontinuo durante quasi tutta la vita, a partire dall'età di ventiquattro anni (1773) con la «Prima parte» del Faust per giungere al 1831 con la «Seconda parte», alle soglie della morte, avvenuta appunto l'anno successivo. Come Ulisse o Antigone o Don Giovanni, secondo la definizione del poeta francese Paul Valéry, Faust è una di quelle figure che sono «strumenti dello spirito universale: esse vanno di là di ciò che furono nell'opera del loro autore che le ha consacrate per sempre all'espressione di taluni estremi dell'umano e dell'inumano, e quindi svincolate da ogni avventura particolare».
    È noto che il Faust di Goethe riprende e rielabora un soggetto che affonda le sue radici nel mito di Prometeo o nella sfida del neotestamentario Simon Mago, desideroso di acquistare venalmente lo Spirito Santo (At 8,9-24), e che aveva un modello narrativo in un anonimo libro popolare tedesco, una Historia von Johan Fausten del 1587. Essa raccontava e giudicava aspramente la sete implacabile di sapere, piacere, potere di un uomo, cupidamente ansioso di impossessarsi del mistero della natura e della vita. Ma alle spalle del Faust di Goethe ci sono altre opere, come La tragica storia del dottor Faust, superbo dramma dell'inglese Christopher Marlowe (1564-1593), e soprattutto davanti a lui si stenderà una lunga genealogia di epigoni: pensiamo solo al Manfred che il poeta inglese George G. Byron compose nel 1817, proprio mentre Goethe stava lavorando al suo capolavoro, o al Faust straziato e suicida del poeta austroungarico Nikolaus Lenau (1836), un personaggio differente da quello goethiano, incapace di afferrare la vita e convinto di essere solo un inquietante sogno divino. Pensiamo naturalmente al Doktor Faustus, famoso romanzo di Thomas Mann (1947) in cui il protagonista Adrian Leverkün vende l'anima al diavolo per ottenerne in cambio la creatività artistica, incarnando alla fine non solo il fallimento dell'arte contemporanea, in particolare della musica, ma anche la catastrofe della storia tedesca.
    Non è nostro compito ricomporre la trama della tragedia «incommensurabile» di Goethe. Facciamo solo entrare in scena il protagonista nel momento teso ed emozionante del celebre patto con Mefistofele. Ricordiamo tra l'altro che, secondo quanto affermava una leggenda medievale tedesca, se l'uomo vende l'anima al diavolo, rimane senza ombra, segnalando così in modo visibile il suo patto scellerato. Ma ritorniamo al dramma di Goethe. Avvolto nelle spire tenebrose della magia, tormentato dal desiderio del suicidio, Faust è nel suo studio. Alla porta bussa il Tentatore e Faust gli obietta sarcasticamente: «E che cosa puoi mai offrirmi tu, povero diavolo?». Infatti, Mefistofele gli aveva avanzato una proposta chiara:

    Io mi impegno a servirti quaggiù
    a un tuo cenno, sempre e subito.
    Quando di là noi ci ritroveremo,
    dovrai fare altrettanto con me.

    Il cambio si regge sull'opposizione «quaggiù» e «di là». Ma non sono i modesti piaceri della carne o della ricchezza ad allettare lo spirito di Faust. Egli è pronto ad accettare il patto diabolico e a cedergli l'anima solo se Mefistofele riuscirà ad appagarlo in forma così totale e assoluta da fargli esclamare nei confronti di quell'attimo di felicità pura e perfetta: «Fermati! Sei bello!». Ecco alla fine l'accordo raggiunto, che il diavolo vorrà siglato «bianco su nero», cioè con un oscuro protocollo d'intesa:

    Qua la mano!
    Dovessi dire all'attimo:
    «Fermati! Sei bello!»,
    allora gettami pure nelle tue catene,
    allora beatamente calerò nella perdizione!
    Allora batta a morto la campana ...
    s'arresti l'orologio, cadano le sfere del quadrante
    e per me cada finito il tempo!

    Nel desiderio che spinge Faust a questo patto nefando c'è una mozione interiore che in tedesco è definita Streben: è un anelito, una tensione, un'aspirazione, un'inquietudine che ha forse una lontana risonanza agostiniana («inquietum est cor nostrum...») ma che è soprattutto un atteggiamento moderno. Questa brama può essere una proiezione totale verso l'eterno e l'infinito, un «desiderio» in senso etimologico, ossia qualcosa che venga de sideribus e alle stelle ritorni, così da saziare pienamente l'anima; essa può sfaldarsi, però, nella frenesia, nell'angoscia, nell'assillo nevrotico. Ciò che è realmente in grado di saziare questa brama è, secondo Goethe, l'attimo perfetto in cui l'anima si placa e raggiunge l'immobilità vitale dell'eternità, un punto che non viene mai meno e che è un condensato di totalità divina. Come è noto, la vicenda di quest'uomo che aspira a ottenere una qualità divina seguirà una trama complessa e grandiosa. In essa si delinea anche una figura quasi antitetica, Margherita, l'anima innocente, sulla quale Mefistofele riconosce di non avere alcun potere: «Sopra un simile genere di persone non ho potere alcuno».
    Faust riuscirà a cogliere quel fiore puro, a imbrattarlo, a ferirlo, riuscirà a condurre quella figura angelica nelle catacombe del male e della disperazione, riuscirà a rinchiuderla nel carcere esteriore della condanna e in quello
    mo della follia. Ma l'anima di Margherita rimane incontaminata nel suo recesso più segreto: è per questo che il suo destino ultimo è la salvezza, come appare nelle concitate battute finali della Prima parte del Faust:

    Margherita: «O giudizio di Dio, a te mi abbandono! ...
    Sono tua, Padre. Salvami!
    Angeli, voi, sante schiere, circondatemi voi, difendetemi voi!» ...
    Mefistofele: «È condannata!»
    Voce dall'alto: «È salva!»

    Un'anima salva, dunque, perché è dalla sua intima purezza - che permane nonostante la fragilità di un'esistenza tormentata e umiliata - che fiorisce la redenzione e la salvezza. A questo punto, per il nostro tema, non rimane che attendere l'esito della vicenda di Faust. La monumentale e complessa trama della Seconda parte accoglie al suo interno vari spunti che sembrano preparare il progressivo sprofondare del protagonista nell'abisso del male. Significativa, anche per il nostro discorso, è per esempio la scena del laboratorio (la II del II atto): Wagner crea un essere umano in provetta, Homunculus, coltivando e continuando il mito medievale ebraico del Golem. È una sfida al Creatore e alla natura. Racchiuso in una fiala, con una morfologia fisica incompiuta, con un'apparenza di animazione intellettiva e spirituale, questo mostricciattolo incarna il sogno di una vita, di una mente e di uno spirito artificiali, sogno che non cessa di tentare la scienza, anche e soprattutto nei nostri tempi.
    Ritorniamo, però, a Faust e alla sua hybris forsennata che si esplica in particolare nell'azione, conquistando e dominando spazi sempre maggiori, oltrepassando e violando le frontiere dell'etica (la sottrazione del terreno di Filemone e Bauci che periscono tra le fiamme). La fine, però, incombe. I Lemuri, spettri della notte, stanno già scavando la fossa per Faust, il quale scambia il rumore delle loro vanghe con quello degli operai che stanno allargando il fossato destinato a raccogliere le acque di un'immensa palude da lui fatta bonificare e prosciugare. Questa colossale opera di recupero, che inorgoglisce il suo autore, sta per essere completata e Faust è ormai all'apice del potere e della soddisfazione che sembrano sedare ogni ansia e inquietudine o desiderio (Streben). Egli intona un inno prometeico, convinto di aver aperto «a milioni di persone nuovi spazi salubri, ove vivranno, se non in sicurezza, in libera e insonne attività». Egli sa che, quando avrà completato quest'opera grandiosa che gli permetterà di «esistere in una terra libera fra un popolo libero», potrebbe

    dire a quell'attimo:
    «Fermati! Sei bello!» ...
    Presentendo in me quella felicità eccelsa,
    ora godo l'attimo supremo.

    Nello stesso istante in cui egli già intuisce di aver raggiunto l'attimo più alto e perfetto, che spegne ogni desiderio perché contiene ogni pienezza, il suo corpo cade riverso e i Lemuri si affrettano ad afferrarlo e adagiarlo al suolo. È così giunto il momento tanto sospirato da Mefistofele, quel momento per il quale Faust aveva stipulato il patto con il diavolo, che ora avrebbe diritto di riscuotere la ricompensa pattuita, ossia l'anima di quell'uomo che ha fissato il tempo in un attimo di eternità, irrevocabile, pieno e assoluto. Ma Goethe, a sorpresa, introduce una svolta che tutto sovverte e che è stata oggetto di varie e contrastanti interpretazioni: Faust si salva o tutto resta sospeso? Per quale misteriosa ragione o forza la sua anima è strappata a Satana? Essa è veramente avviata alla gloria, come era accaduto a Margherita? Con l'allusività propria della grande poesia Goethe ci lascia sospesi, facendo serpeggiare il sospetto con quel finale celestiale, popolato di santi anacoreti, sulle balze di un dantesco monte paradisiaco, ma anche segnato da un'aura di elusività e di reticenza.

    «L'eterno Elemento Femminile»

    La nostra impressione è che si assista a un'epifania di grazia divina, per un certo verso analoga a quella che suggella la vicenda di Buonconte da Montefeltro. Infatti anche qui la salvezza estrema, che riesce a trionfare sul mistero del male, avviene attraverso l'intercessione di Maria: «Vergine, Madre, Somma Regina, intercedi per noi, Luce divina!». Il coro mistico finale, enigmatico e glorioso, lascia intravedere l'empireo supremo, destino ultimo delle anime, verso il quale ci attrae quell'enigmatico das Ewigweibliche, «l'eterno Elemento Femminile», principio vitale di trascendenza (esso, infatti, non attrae verso se stesso, ma eleva verso l'alto, verso l'empireo):

    Tutto l'effimero
    è solo una figura.
    Quello che è inattingibile
    qui si fa evidenza.
    Quello che è ineffabile
    qui è realtà.
    L'eterno Elemento Femminile
    ci trae verso l'empireo.

    Permane il mistero di quella salvezza: essa ha in sé tutta la potenza della grazia divina il cui primato, vigorosamente esaltato da san Paolo, costituiva il cuore della teologia luterana. Sull'anima empia e perversa di Faust si stenderebbe, allora, il manto salvatore della redenzione operata da Cristo, oltre e sopra ogni nostro merito, anche perché l'approdo dell'anima non è in un'asettica immortalità atemporale, ma nella comunione con la divinità nelle celesti immensità dell'empireo. La radicale miseria dell'essere umano, pure marcata con veemenza dalla teologia luterana, paradossalmente esaltata dall'orgoglio, è ben illustrata anche dal poema. Faust, infatti, si era illuso di essere come un cherubino e aveva usato in modo blasfemo la nota dichiarazione biblica dell'uomo «immagine di Dio»:

    Immagine di Dio,
    pensavo già di fronteggiare
    lo specchio dell'eterna Verità ...
    già mi sentivo più di un cherubino,
    e osavo già per ogni vena far scorrere
    della Natura il libero vigore,
    farneticando, nell'atto del mio creare,
    di godere la vita di un dio.

    Ma sempre in quella impressionante scena notturna con cui si apre, dopo il prologo, la Prima parte del dramma, Faust aveva dovuto confessare la sua misera e sconfortante fragilità, che lo spingerà appunto al patto diabolico:

    Non somiglio agli dei! Nel più profondo
    sento la verità di questo asserto.
    Al verme che la polvere rovista
    io rassomiglio: al verme che si nutre
    di quella solamente...

    Si può immaginare un'eco del Salmo 22,7 ove l'orante confessa: «Io sono un verme, meno di un essere umano». Si ricordi anche che in quel canto della morte e dell'impossibile immortalità che è l'Epopea di Ghilgamesh è proprio il verme che esce dalle narici dell'amico defunto Enkidu a convincere il protagonista della morte irreversibile. In chiave più etica già Pascal aveva sviluppato il contrasto che lacera Faust quando, nei suoi Pensieri, aveva esclamato: «Con quanto poco orgoglio un cristiano si crede unito a Dio! Con quanta poca abiezione si fa simile ai vermi della terra!» (n. 538 ed. Brunschvicg). Tuttavia, nella visione cristiana la grazia può imprimere su questa creatura così misera il sigillo dell'immagine divina e assicurarle la liberazione, la redenzione e la salvezza.
    Dopo tutto Faust confessa: «Filosofia ho studiato, diritto e medicina e, purtroppo, teologia». Quel «purtroppo» indica la pericolosità di una scienza che vuole andare oltre la superficie dei fenomeni e penetrare nei grovigli oscuri del bene e del male dell'anima. Come ha dimostrato in un attraente saggio Jaroslav Pelikan,[11] uno statunitense luterano divenuto ortodosso e insediato all'università di Yale a insegnare storia del cristianesimo, il Faust dottore in teologia, che sfida il «loico» Mefistofele come era accaduto al san Francesco dantesco, percorre tre vie fondamentali. Come scienziato, si lascia attirare dal panteismo; con la poesia è risucchiato dal politeismo (la Notte di Valpurga); ma alla fine si riporta al monoteismo cristiano con la grazia e l'amore divino che irrompono dall'alto salvando la sua anima. È forse lo stesso itinerario di Goethe, se stiamo a una battuta delle sue Massime e riflessioni: «Studiando la natura siamo panteisti, poetando politeisti, eticamente monoteisti». [12]
    Certo è che, pur in questo travagliato percorso religioso, per Faust (e per Goethe) non c'è spazio per l'ateismo e lo scetticismo assoluto. Come scriveva in un suo saggio del 1952 il critico Robert Hering, «il Faust di Goethe non ha affatto rinunciato a Dio ... Egli è un cercatore di Dio, non un suo negatore». Illuminanti sono le parole che egli rivolge a Margherita nel dialogo ambientato nel Giardino di Marta della Parte prima:

    Chi si azzarda a nominarlo
    e ad affermare con il nome: Io credo in Lui?
    E chi mai osa, invece,
    se appena appena ha sentimento nel cuore,
    chi osa, invece, dire: In Lui non credo?
    Quegli che tutto abbraccia e tutto regge,
    oh, non abbraccia forse e non sostiene
    e te e me, e insieme anche se stesso?

    Anima, «vivi, e sii grande e infelice»!

    Aveva iniziato a scriverlo nel 1910 ma lo concluderà e pubblicherà solo nel 1912 a Monaco di Baviera con il titolo Della spiritualità nell'arte. [13] Ebbene, in questo saggio il famoso pittore russo Vasilij Vasilevič Kandinskij (1866-1944) aveva formulato una metafora incantevole per illustrare il nesso tra arte e spirito, anzi, tra il colore e l'anima: «Il colore è un mezzo per esercitare sull'anima un'influenza diretta. Il colore è il tasto, l'occhio è il martelletto che colpisce, l'anima è lo strumento dalle mille corde». Questa immagine che fonde insieme visione, suono, arte e spiritualità ben si adatta a definire simbolicamente l'incessante intercedere tra l'anima e l'arte in tutte le sue manifestazioni. Noi abbiamo imboccato la via della poesia con due figure possenti come Dante e Goethe. A suo tempo, parlando dello spiritismo e delle sue radici nobili, avevamo coinvolto un altro gigante della letteratura mondiale, Shakespeare con l'Amleto e il Macbeth. L'orizzonte in cui ci muoviamo è così vasto e iridescente da ammettere solo selezioni esemplificative. Questa volta abbiamo pensato di ricorrere a due grandi della letteratura italiana moderna, Leopardi e Pirandello, coinvolgendo indirettamente un pensatore e scrittore tedesco suggestivo, anche se meno noto, Franz Rosenzweig.
    Cominciamo con Giacomo Leopardi (1798-1837). Blocchiamo subito un percorso forse attraente, ma impossibile e insostenibile per la nostra breve e semplificata navigazione testuale: non possiamo, infatti, inoltrarci nel mondo unico e tormentato della poesia leopardiana perché è troppo grandioso ed esteso. Eppure in esso il dialogo con l'anima è costante: basti pensare ai cosiddetti «grandi idilli» delle Ricordanze, del Passero solitario, della Quiete dopo la tempesta, del Sabato del villaggio, del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia o alla successiva poesia A se stesso. Dovremmo perciò interessarci di quasi tutta la sua opera poetica più importante. Anzi, il poeta di Recanati aveva progettato di comporre un vero e proprio «romanzo dell'anima», lasciando però alla fine solo appunti e frammenti minimi: al riguardo, per intuire qualcosa di più intorno al progetto, bisognerebbe a lungo scavare nel suo Zibaldone o nell'Epistolario.
    Noi, invece, punteremo solo verso le Operette morali, elaborate a Recanati dopo il viaggio a Roma del 1822 e dopo la prima avventura filologica vissuta con passione dal giovane Giacomo. Queste pagine lente, distaccate, stilizzate, s'impegnano sui grandi temi leopardiani della natura e della morte, del piacere e del dolore, della felicità e della noia e lo fanno in modo teorico-narrativo-drammatico. Ci dedicheremo ora a una di queste «operette» dal titolo esplicito, Dialogo della Natura e di un'Anima. [14] In essa la Natura invia l'Anima nel mondo, «destinata a vivificare un corpo umano», visto come un carcere, secondo la tipica concezione platonica. Il saluto che la Natura le rivolge è, infatti, inequivocabile: «Vivi, e sii grande e infelice»! E qui emerge subito il cuore della riflessione leopardiana: l'anima che «informa» (cioè che dà la «forma» sostanziale al corpo) la persona umana è inesorabilmente votata all'«infelicità comune degli uomini». Anzi, quanto più alta è l'intelligenza di un'anima, tanto più intensa è la consapevolezza di questa amarezza inguaribile: «l'intelligenza delle anime importa maggiore (in)tensione della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell'infelicità propria». Il pensiero corre al Qohelet-Ecclesiaste biblico che confessava: «Grande sapienza è grande tormento. Chi più sa più soffre» (1,18). A questo destino – ripetutamente ribadito nello Zibaldone («Gli uomini sono sempre scontenti perché sono sempre infelici» annotava Leopardi il 17 aprile 1824) – l'anima non può sottrarsi perché «tutto questo è contenuto nell'ordine primigenio e perpetuo delle cose create», ordine che la Natura non può alterare.
    L'argomentazione del poeta si allarga avviluppandosi però sempre attorno a quel concetto basilare: «Tutte le anime degli uomini sono assegnate in preda all'infelicità, senza mia colpa» riconosce la Natura che è chiamata «Madre» e che interpella l'Anima come «figliuola». Si ha, quindi, un Fato o un Dio innominato che presiede a quest'ordine dell'«universale miseria della condizione umana», la cui gradazione è paradossalmente parallela alla grandezza dell'anima stessa, così che dolore ed eccellenza sono tra loro proporzionali. Di fronte a questa legge assurda è inevitabile la domanda dell'anima, che chiede di essere collocata «nel più imperfetto» dei livelli corporei e umani e dalla Natura invoca questo dono sconcertante:

    Spogliata delle funeste doti che mi nobilitano, fammi conforme al più stupido e insensato spirito umano che tu producessi in alcun tempo.

    L'Anima giunge fino al punto di fare un'estrema richiesta, tragica ma logica: «In cambio dell'immortalità, prego-ti di accelerarmi la morte il più che si possa». Una simile immortalità, infatti, ben lontana da quella cristiana, legata a una permanenza senza fine in uno stato inaccettabile, sarebbe solo un eterno supplizio.
    Il dialogo si conclude con una fredda battuta della Natura, che svela la sua dipendenza da un ignoto e indecifrabile arbitro della realtà, un misterioso destino: «Di cotesto conferirò col destino». La dialettica tra Natura e Anima si placa nella comune consapevolezza di essere impotenti. Commenta giustamente il critico Cesare Galimberti: «In accordo con lo svanire delle ragioni in contrasto, il dialogo trapassa, dalle complesse argomentazioni che si sono contrapposte subito dopo le battute iniziali, a frasi sempre più rapide e sommesse, congedo ultimo dal ragionare e preludio a un silenzio funebre». Per Leopardi, allora, l'anima altro non è che la consapevolezza lucida e impietosa della condizione umana, votata alla tensione permanente, sorgente di scontentezza e quindi di infelicità, incastonata in un progetto trascendente incomprensibile e obbligatorio, quello disegnato da un enigmatico «destino». Anche il biblico Giobbe scopriva alla fine del suo tormentato interrogarsi di essere inserito in una 'esah, in ebraico un piano, un progetto superiore (38,2; 42,3); ma esso non si manifestava come irrazionale bensì come metarazionale, non fatalmente assurdo ma declinato secondo una logica trascendente.

    «Fratello corpo, sorella anima!»

    Il dialogo tra Natura e Anima proposto da Leopardi conosce una variante non di genere, ma di soggetto: è il dialogo tra anima e corpo, spesso praticato anche a livello di «sacra rappresentazione», come ha suggerito anche di recente la studiosa toscana Antonella Lumini con il suo Dialogo dell'Anima e del Corpo (2002). Un piccolo gioiello in questo senso è stato offerto da un filosofo tedesco che è anche un raffinato scrittore, Franz Rosenzweig, ebreo, nato a Kassel nel 1886 e morto a Francoforte nel 1929. Chi ha letto la sua opera La stella della redenzione, [15] composta mentre era ricoverato in un ospedale militare, prima a Lipsia e poi a Belgrado, durante la Prima guerra mondiale, sarà rimasto impressionato per l'originalità non solo dei contenuti, ma anche dello stile e della struttura del pensiero di questo autore. Rosenzweig aveva trascorso gli ultimi sette anni di vita paralizzato da una sclerosi che l'aveva reso muto ma ancora capace di scrivere grazie a una macchina appositamente progettata. L'ebraismo delle sue origini era diventato la sostanza della sua ricerca, che tuttavia s'intersecava continuamente con il cristianesimo, nella consapevolezza che entrambe le religioni gli fossero necessarie per il loro reciproco interagire.
    Nel gennaio del 1918, mentre si trovava in licenza di due settimane dal fronte balcanico nella cittadina francese di Montmédy, Rosenzweig aveva elaborato un dialogo secondo il genere sopra indicato, intitolandolo Von Einheit und Ewigkeit. Ein Gespriich zwischen Leib und Seele (Unità ed eternità. Un dialogo tra corpo e anima). Aveva però proposto per la pubblicazione il titolo Der Schrei (Il grido), adottato anche nella versione italiana con testo tedesco a fronte e con ampio commento. [16] Il colloquio emozionante e poetico tra anima e corpo svela subito che essi sono segnati da un'«inguaribile ferita» perché si percepiscono necessariamente uniti proprio quando sono apparentemente separati, secondo una sconcertante alternanza:

    Il corpo: «Sempre, quando mi sveglio al mattino, sento questo come una separazione da te. Ero una cosa sola con te durante il sonno; dove te ne vai, quando io mi sveglio?».
    L'anima: «E sempre, quando alla sera vengo meno sprofondando nel sonno, sento questo come una divisione da te ... Separato tu da me quando io so che tu sei con me, abbandonata io da te quando tu sogni che io sono una cosa sola con te».

    Questa sorta di corrente alternata, simile a un «nuotare con bracciate non concordi nel fiume» dell'esistenza, è l'«inguaribile ferita della vita». Eppure essa permette la nascita della coscienza del tu e dell'io: «tu» è la parola che il corpo sente a lui indirizzata; «io» la parola primordiale che l'anima sente per sé quando «beveva nel giardino del Padre il suo eterno mattino». La struttura intima e costitutiva dell'essere umano è dunque dialogica. Egli si percepisce come un io nell'anima e sperimenta nel corpo il tu, esperienza radicale che gli permette di incontrare poi l'altro come distinto da sé ma non separato.
    C'è, allora, una dualità tra anima e corpo sia nel percepirsi (la differente sensazione sperimentata nella notte e nel giorno) sia nell'esistere personale (io e tu); ma non è un dualismo perché «ci unisce il grido che invoca eternità e unità». Unità che era nel disegno divino e che è la meta verso la quale aneliamo e che sarà il nostro destino eterno:

    Al tempo della vita non si mescola l'eternità, ma al di sopra del tempo ormai morto si rinchiudono le acque dell'eternità.

    Il «grido» finale che anima e corpo pronunziano è appunto quello dell'«unità ed eternità» del titolo iniziale di quest'opera: è la celebrazione della pienezza della redenzione e della nostra vera sorte finale. Allora, infatti, l'anima griderà: «Bruder Leib!», Fratello corpo! E il corpo: «Schwester Seele!», Sorella anima! La tensione anima-corpo che, durante l'esistenza nel tempo sentiamo così lacerante, si placherà allora in un'armonia che solo un «grido» di gioia e di pace, di ebbrezza e di amore può esprimere.
    In appendice, e solo con un breve cenno, accostiamo al dialogo di Rosenzweig un altro testo dello stesso genere, anche se di diversa estensione e prospettiva. È quel «dialogo della storia e dell'anima carnale», come dice il sottotitolo, presente nel saggio incompiuto intitolato Véronique [17] del poeta francese Charles Péguy, contemporaneo di Rosenzweig, morto però sul fronte opposto, nella battaglia della Marna nel 1914, a quarantun anni. Attraverso l'evocazione della dolce leggenda della Veronica che raccoglie su un velo il volto sofferente di Cristo, si celebra l'«impressione» che Gesù ha lasciato nella storia e nel tempo degli uomini. Mentre Clio, la musa della storia, si affanna a scavare nel passato, «una bambina, la piccola Veronica, tira fuori il suo fazzoletto e dal volto di Gesù riesce a ottenere un'impronta eterna. Lei si è trovata al momento giusto. Clio è sempre in ritardo». In Cristo s'incrociano Spirito e Umanità, Logos e sarx, cioè Verbo e carne, come dice il prologo del Vangelo di Giovanni, il divino e il terreno. Per questo è essenziale «ritrovare quel legame incredibile dello spirito con la materia, dello spirito con il corpo, dell'anima con la carne, quell'incredibile legame dell'anima carnale». Il velo della Veronica ne è il simbolo paradigmatico. Péguy propone una lettura cristologica dell'anima: nel suo legame essenziale ed esistenziale con il corpo essa ricalca l'incarnazione del Verbo nella carne, ne è una reale analogia e questa unità anima-corpo può anch'essa diventare il luogo della rivelazione della grazia salvifica.

    Una lampada accesa «con l'olio puro dell'anima»

    Passiamo ora a un'altra figura rilevante della letteratura moderna italiana: dopo Leopardi, ecco Luigi Pirandello (1867-1936), che, pur nella differenza delle coordinate storiche e culturali, rivela alcune affinità ideali di fondo con il poeta di Recanati. I suoi drammi, infatti, riflettono un pessimismo che, pur non raggiungendo le dimensioni «cosmiche» di quello leopardiano, si rivela ben radicato e profondo nell'esistenza umana. Per lo scrittore siciliano, se vogliamo stare al nostro tema, l'anima non è più un principio di identità, essendo l'uomo moderno non più «uno» ma «centomila», «secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi» e persino secondo «quello che gli altri lo fanno», riducendolo spesso a diventare un «nessuno». Anche l'affacciarsi sull'oltrevita è forse improduttivo e sconsolante. Ne sa qualcosa il fanatico religioso Diego Spina nel dramma Lazzaro. Morto clinicamente per alcune ore, scopre che oltre l'ultimo confine della vita non c'è nulla; là
    neppure Dio si presenta. E, allora, ritornato in vita, deve accontentarsi di ripetere: «Tu devi credere e non sapere». Noi scegliamo non tanto la via indiretta, peraltro difficilmente praticabile considerati i limiti della nostra analisi, quanto piuttosto quella specifica ed emblematica. Abbiamo, così, optato per un particolare dialogo sull'anima: è quello, inquietante, e al tempo stesso divertito, che intercorre tra il signor Adriano Meis, lo pseudonimo sotto cui si cela Il fu Mattia Pascal [18] del celebre romanzo (1904) e il suo stravagante padrone di casa Anselmo Paleari. Costui parte da una visione materialista, sostenuta anche nell'antichità e in epoche successive, come abbiamo avuto occasione di segnalare. Anche l'anima è materia, ma lo è quasi fosse una realtà «eterea». L'anima è connessa alla corporeità come frutto dell'evoluzione che la spinge progressivamente ai vertici della creazione intellettuale. Essa è, quindi, intrinsecamente correlata e condizionata dal corpo. Pirandello ha, allora, l'occasione di introdurre una riflessione, a prima vista svagata come il personaggio che la propone, ma in verità significativa, sul cervello e il suo collegamento con l'anima. Ecco le argomentazioni del Paleari, che tra l'altro coinvolgono Leopardi e l'immagine «musicale» di Kandinskij sopra evocata:

    «Lei vorrebbe provare che, fiaccandosi il corpo, si raffievolisce anche l'anima, per dimostrar così che l'estinzione dell'uno importi l'estinzione dell'altra? Ma scusi! Immagini un po' il caso contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la luce dell'anima: Giacomo Leopardi! ... Immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due o tre corde si spezzano; ebbene, sfido! con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se il pianoforte poi tace, non esiste più neanche il sonatore?»
    «Il cervello sarebbe il pianoforte; il sonatore l'anima?»
    «Vecchio paragone, signor Meis! Ora se il cervello si guasta, per forza l'anima s'appalesa scema, o matta, o che so io. Vuol dire che, se il sonatore avrà rotto, non per disgrazia, ma per inavvertenza o per volontà lo strumento, pagherà: chi rompe paga: si paga tutto, si paga. Ma questa è un'altra questione. Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l'umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l'aspirazione a un'altra vita, di là? È un fatto questo, un fatto, una prova reale.»

    L'argomentazione di Paleari è, come quella dei folli lucidi, contraddittoria, ora oscillando sulla spiritualità dell'anima, ora affidandosi al legame con il corpo debole e caduco, ora proiettandosi su un'altra questione come quella dell'oltrevita. In questo Pirandello coglie e rappresenta la radicale relatività delle convinzioni umane, comprese quelle filosofico-spirituali. Ma seguiamo ora l'argomentare di Paleari sull'oltrevita, un elemento importante «perché non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte. Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscir da questo labirinto, il lume insomma deve venirci di là, dalla morte». E qui il nostro personaggio – che prima ha dimostrato la sua insoddisfazione di permanere solo attraverso il processo ininterrotto dell'evoluzione per cui «l'individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione» – apre il suo discorso verso uno sbocco inatteso di netta impronta spirituale:

    Provi ad accendervi una lampadina di fede, con l'olio puro dell'anima. Se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita, come tanti ciechi, con tutta la luce elettrica che abbiamo inventato! Sta bene, benissimo, per la vita, la lampadina elettrica; ma noi, caro signor Meis, abbiamo anche bisogno di quell'altra che ci faccia un po' di luce per la morte.

    Come non di rado accade nelle opere di Pirandello, è un folle a far balenare verità o possibilità impensate e impensabili per la razionalità più severa e rigorosa. Transitando per piani differenti di ragionamento, si viene condotti nel grembo oscuro delle domande ultime che non ammettono soluzioni univoche né si placano in risposte argomentate secondo canoni logici. In questa luce i «salti» innaturali di Paleari si rivelano meno contraddittori di quanto sembri e lasciano socchiusa la porta attraverso la quale l'anima si presenta e si impone. Il nostro itinerario puramente esemplificativo nel mondo dell'anima «poetica» potrebbe finire proprio con la mobilità del pensiero pirandelliano. Vorremmo, però, aggiungere ora una sorta di florilegio liberamente selezionato e fatto solo di richiami allusivi, attinti a opere e ad autori celebri ma anche a soggetti e scrittori minori e fin marginali. Sarà quasi un giuoco di colori, che ogni lettore potrà allargare a piacimento, un caleidoscopio capace di far intuire quanto sia variegato l'affacciarsi dell'anima.

    «Una favilla di spiritualità»

    «Bestemmiando fuggì l'alma sdegnosa / che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.» Sono questi gli ultimi versi di quel capolavoro che è l'Orlando furioso [19] di Ludovico Ariosto (XLVI, ottava 140): essi disegnano con uno schizzo essenziale eppur potente la morte dell'eroe di un poema epico indimenticabile, pubblicato per la prima volta nel 1516. L'affacciarsi oltre la morte, alla ricerca dei celesti itinerari dell'anima e del suo destino trascendente, è certamente, come insegnava Dante, una delle vie privilegiate per parlare dell'anima. Anche in forme paradossali e fin stravaganti come in queste righe del filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) che fa leva sulla forza della nostalgia, della memoria e della poesia:

    L'abbaiare lontano di un cane, che ci riporta con il pensiero ai luoghi cari e ben noti, fornisce la più bella prova dell'immortalità dell'anima.

    Questo tema dell'immortalità spesso affiora negli scritti letterari. Vorremmo solo rimandare a un passo significativo di un autore che avrebbe tanto da dire sull'anima e che è già stato nominato altre volte nelle nostre pagine: lo scrittore russo Dostoevskij, colui che ha fatto dello scavo dell'anima nei suoi bassifondi, ma anche dell'ascesa alle vette immacolate dello spirito, la sostanza dei suoi romanzi. Ecco il brano desunto dai Demoni, un'opera che dalle caverne del nichilismo, dell'assenza di Dio e del silenzio della morale trae un grido di eternità:

    La mia immortalità è indispensabile, perché Dio non vorrà commettere un'iniquità e spegnere del tutto il fuoco d'amore dopo che questo si è acceso per lui nella mia anima. Che cosa c'è di più caro dell'amore? L'amore è superiore all'esistenza, è il coronamento dell'esistenza, e come è possibile che l'esistenza non gli sia sottomessa? Se ho cominciato ad amarlo e mi sono rallegrato del suo amore, è possibile che lui spenga me e la mia gioia e ci converta in zero? Se c'è Dio, anch'io sono immortale. [20]

    Lo scrittore moscovita aveva confessato di «avere a cuore l'eterno, non il temporale utilitario», convinto com'era sulla scia evangelica che «l'anima umana è più importante di tutti i regni di questo mondo». Anche l'argomentazione appena letta sull'immortalità dell'anima si muove in questa linea, che è anche biblica. Essa parte dall'esperienza trascendente che noi iniziamo a compiere già in questa vita, attraverso la grazia dell'amore. Se Dio ha acceso in noi questa scintilla di eternità, collocandola nella nostra fragilità, non può poi contraddirsi spegnendola, non può sterilire quel seme divino che ha deposto nell'anima umana, trasformata nel sacrario della presenza divina già ora durante l'esistenza terrena.
    Ma nel nostro florilegio puntiamo anche verso altri autori meno intrisi di spiritualità cristiana. Non si può non allegare alla nostra sia pure scarna antologia quella parabola sull'anima come identità inafferrabile ma permanente della persona che è il famoso Ritratto di Dorian Gray, [21] romanzo che lo scrittore inglese (ma nato a Dublino nel 1854) Oscar Wilde pubblicò nel 1891. Si ripropone per qualche aspetto anche il mito di Faust: Dorian con la magia riesce a trasferire l'immoralità e l'abiezione della sua anima nel ritratto che gli ha confezionato il pittore Basil Hallward, conservando così la sua persona immune e perfetta. Ma l'assassinio del pittore da parte di Dorian Gray segna la svolta tragica. Il volto deforme e orrendo del ritratto si erge come atto d'accusa contro Dorian che invano cerca di farlo tacere squarciandolo, nel desiderio di pugnalare la sua anima e di imporre il silenzio alla sua coscienza. L'esito è tutt'altro: è lui a cadere esanime, acquisendo le fattezze di un vecchio osceno e disgustoso, mentre il ritratto miracolosamente torna a mostrare un volto integro e puro. L'opera si rivela come una complessa allegoria dell'anima nella sua dimensione morale, nella sua capacità di essere autocosciente, di liberarsi e di dannarsi e quasi di oggettivarsi, contemplandosi dall'esterno. Un po' come aveva detto il poeta Pietro Metastasio (1698-1782) nel II atto (II scena) del suo Artaserse, dramma del 1730:

    Un'alma grande
    è teatro a se stessa. Ella in segreto
    s'approva e si condanna,
    e placida e sicura,
    del volgo spettator l'aura non cura.

    Ma veniamo più vicino a noi e ai nostri giorni. Nonostante l'apparente ostracismo che rende l'anima, al pari della morte, la grande assente dai pensieri e dai discorsi degli uomini e delle donne di oggi, essa continua a farsi strada e ad affacciarsi in varie forme, anche le più inattese e le più banali. Vorremmo perciò offrire anche un esempio tratto dalla «bassa» letteratura, quella di consumo. Prendiamo allora un thriller sanguinolento del giallista Hubert Corbin, autore francese di Montpellier. Ecco un frammento di dialogo tra due etologi:

    «È una questione di anima» disse, scandendo le parole.
    «Da quando l'anima è diventata un argomento di interesse
    scientifico?»
    «Il corpo non vale poi granché: soltanto l'anima conta!» disse ... «L'anima degli animali è l'istinto! L'istinto irriducibile, che è al servizio della loro potenza fisica per tutta la vita ... Che cos'è la salute? Niente, assolutamente niente se non c'è l'anima! Se non c'è l'istinto vivo, fiero, pulsante che spinge i grandi felini a superare tutti gli ostacoli e a regnare come sovrani assoluti nelle foreste del Bengala, nella taiga dell'Ossuri, nelle savane del Botswana!» [22]

    Anche in questa visione così positivistico-scientista fa capolino una concezione significativa dell'anima. Essa è una sorta di inconscio fremente, è un appello necessitante all'oltre, a essere sempre in tensione verso una meta più alta. È per questa via che si può pensare a una spia insita nella persona e situata proprio nell'anima, una spia che segnala la fame di superamento del proprio orizzonte, verso una meta trascendente. È una fame che poi crea da sola divinità e spiritualità, ossia Dio e anima, per autoplacarsi o è una fame indotta da un Dio e da un'anima che effettivamente sono in noi e operano nella nostra realtà intima? Attorno a questo dilemma ruota la trama dell'unico romanzo a nostra conoscenza chiaramente centrato sull'anima prodotto dalla letteratura italiana più recente. Ed è con questa testimonianza che concludiamo la nostra antologia, libera e limitata, di testi sull'anima «poetica».
    Nel 2000 Carlo Castellaneta, narratore milanese, spesso sensibile nei confronti dei problemi e delle nevrosi dell'uomo di oggi, ha infatti pubblicato un romanzo esplicitamente intitolato Le tracce dell'anima. [23] Il protagonista, Lorenzo, un attore di prosa giunto alla maturità, vive in solitudine un tormento: ritrovare quell'anima che sembra essere sfuggita dal suo intimo per migrare nei vari personaggi interpretati sulla scena. Egli sente in modo cogente la necessità di ritrovare dentro di sé questa presenza fondamentale. Essa talora occhieggia, si offre, si rivela, ma subito scompare. È una specie di vertigine che lentamente si trasforma in ossessione. Non possiamo ora descrivere il pellegrinaggio «laico» alla ricerca della propria spiritualità, che è poi la stessa identità personale smarrita, l'intima essenza dell'uomo. Si tratta, comunque, di una parabola della ricerca dell'anima senza la quale non si dà autentica umanità.
    In questa luce il romanzo sottende un invito a non lasciarsi irretire dall'esteriorità e dall'alienazione così da perdere per strada la propria anima, sommersi dalle cose. L'eros, incarnato dalle due donne di Lorenzo, Rossana e Sissi, è infatti insufficiente a restituire l'anima perduta, La foce anzi può essere un ostacolo. La sazietà psicologica e fisica è altrettanto insufficiente perché l'anima è l'autotrascendimento che ogni individuo incessantemente tenta di compiere nel suo anelito verso l'infinito. Potremmo quasi immaginare un'eco del monito di Cristo, già da noi presentato: «Quale vantaggio avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?» (Mt 16,26).
    Ecco, comunque, la testimonianza diretta di Lorenzo che, in questo, dà voce a molte persone, descrivendo una sensazione improvvisa che talora attraversa l'esistenza:

    È molto raro che io avverta la presenza dell'anima, ma quando accade è sempre sotto la forma di una vibrazione che parte dal cuore e si irradia nel corpo per pochi istanti, un lampo, una scossa elettrica, il clic di un obiettivo fotografico che si è aperto e richiuso per la frazione di un secondo, un'illusione probabilmente, quella di possedere anch'io, a dispetto del mio radicato materialismo, una favilla di spiritualità che ho spesso rinnegato.

     

    NOTE 

    1 Francesco Petrarca, Rime e Trionfi, a cura di Ferdinando Neri, Torino, Utet, 19832.
    2 Francesco Petrarca, Il mio segreto, a cura di Enrico Fenzi, Milano, Mursia, 1992.
    3 Achille Campanile, Asparagi e immortalità dell'anima, Milano, Bur-Rizzoli, 1999.
    4 D. Giacomo Poletto, Dizionario dantesco di quanto si contiene nelle opere di Dante Alighieri con richiami alla «Somma Teologica» di san Tommaso d'Aquino, Siena, Stab. Tip. all'Ins. S. Bernardino, 1885.
    5 Efrem. Bettoni, Anima, in Enciclopedia dantesca, vol. I, Roma, Treccani, 1970.
    6 Dante Alighieri, Divina Commedia. Purgatorio, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1994.
    7 Dante Alighieri, Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957.
    8 Dante Alighieri, Divina Commedia, a cura di Attilio Momigliano, Firenze, Sansoni, 1951.
    9 Dante Alighieri, La Commedia secondo l'antica vulgata, 4 voll., Milano, Mondadori, 1966-67.
    10 Johann Wolfgang Goethe, Faust, a cura di Vincenzo Errante, trad.it., Firenze, Sansoni, 1963; oppure Faust, a cura di Franco Fortini, trad. it., Milano, Mondadori, 1970.
    11 Jaroslav Pelikan, Faust teologo, trad. it., Milano, Medusa, 2002.
    12 Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, a cura di Siegfried Seidel, trad. it. di Marta Bignami, introd. di Paolo Chiarirti, Roma, Theoria, 19902.
    13 Vasilij Vasilevič Kandinskij, Della spiritualità nell'arte, particolarmente nella pittura, trad. it., Roma, Edizioni di Religio, 1940.
    14 Giacomo Leopardi, Operette morali, a cura di Cesare Galimberti, Napoli, Guida, 19883.
    15 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di Gianfranco Bonola, trad. it., Casale Monferrato, Marietti, 1985.
    16 Franz Rosenzweig, Il grido, a cura di Francesco Paolo Ciglia, trad. it., Brescia, Morcelliana, 2003.
    17 Charles Péguy, Véronique. Dialogo della storia e dell'anima carnale, trad. it., Casale Monferrato, Piemme, 2002.
    18 Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 1988.
    19 Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Ricciardi, 1954.
    20 Fédor Michailovié Dostoevskij, I demoni, trad. it., in Tutti i romanzi, Firenze, Sansoni, 1993.
    21 Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, a cura di Raffaele Calzini, trad. it., Milano, Mondadori, 1993.
    22 Hubert Corbin, Weekend di sangue, trad. it., Casale Monferrato, Piemme, 2002.
    23 Carlo Castellaneta, Le tracce dell'anima, Milano, Mondadori, 2000.

     

    (Fonte: Breve storia dell'anima, Mondadori 2003, pp. 253-286)


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