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    La via, la verità e la vita

    Jean D'Ormesson


     

    Francamente non era il caso di arrampicarsi in cima al pennone e mettere in subbuglio tutto il quartiere. Mi è capitata un'avventura piuttosto banale che è occorsa anche a un bel po' di ragazzi e di ragazze qui o altrove e di cui forse, sbaglio a parlare così a lungo; ma non riesco a capacitarmene: sono nato. Mi sono infilato in qualche punto dello spazio e del tempo. È un'esperienza molto strana. Non la dimenticherò presto.
    Certe volte mi sembra che le cose si siano fatte da sole e che io non c'entri per niente. Non ho scelto io di nascere. Non sono arrivato in un momento qualsiasi. Non mi hanno depositato in un posto qualsiasi. Non sono sbarcato ieri davanti a Troia, tra Achille e Ulisse. Né l'altro ieri per la guerra del fuoco. Né domani o dopodomani in mezzo a distinti e sempre più sapienti robot. No. Mi sono ritrovato senza volerlo tra due guerre mondiali, al tempo di Stalin e di Hitler, in un corpo che, volente o nolente, è stato mio per sempre, vale a dire per un istante.
    Sono piombato come dalla Luna in un vecchio paese che viene da lontano, carico di gloria e di ricordi, coperto di ferite e di bernoccoli, paralizzato da liti e divisioni, sicuro di sé e del suo fascino, al limite della boria, e già sulla via del declino. Per secoli è stato il più forte, il più ricco, il più seducente. Si ritrova impoverito e brontolone. Sembra che tutto si sfasci da ogni parte. Soprattutto la sua lingua, il suo bene più prezioso, che brillava di mille splendori e regnava sull'Europa che a sua volta regnava sul mondo, si disfa giorno dopo giorno. Confucio, all'epoca di Platone e di Sofocle, lo sapeva già: bisogna fare attenzione alle parole. Una lingua che s'indebolisce è un paese che vacilla.
    Continuiamo a pensare di essere al centro del mondo. Ma la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica, alcuni improbabili emirati che ancora ieri guardavamo dall'alto in basso adesso cominciano a scalzarci ferocemente dalla nostra posizione. La storia distoglie lo sguardo dalla terra dei grandi re e dei grandi capitani, di tanti pittori e poeti, di geniali confettieri e donne leggendarie. La festa è finita. Si chiude. I salotti, i giardini, i giochi di parole, la gaiezza, la forza e l'eleganza, l'altezza e la grandezza sono caduti nell'oblio. A fare ancora il furbo e mantenere prestigio c'è rimasto solo il denaro. La paura del futuro ha preso il posto della spensieratezza e per le strade si respira un'aria di tristezza.
    Ah! Vi sento fin da qui. Il solito ritornello. Una specie di lungo gemito: «Era meglio prima». No, non era meglio prima. Prima c'erano delle guerre, la gente moriva più giovane, i poveri erano ancora più poveri, tutti quanti soffrivano di più. La vita era più difficile. Nessuno ce la farebbe a tornare indietro. La gente è più felice oggi di quanto non lo fosse ieri. Ma non lo sa. Non è mai meglio prima. Né peggio. È all'infinito la stessa cosa.
    Il mondo che ci circonda è duro. Lo è sempre stato. Dal giardino dell'Eden e dalla fine di Neanderthal distrutto da Cro-Magnon, non è mai stato in pace. Il più delle volte va tutto abbastanza male, ossia piuttosto bene. Con delle catastrofi e delle gioie. Tutto oscilla sempre tra ascesa e declino. La storia non la smette mai di essere un disastro e una festa. Il progresso mena botte da orbi e raddoppia i suoi colpi. E si porta dietro una scia di sofferenze e insieme di speranza.
    La chiave dell'enigma è che il mondo sta cambiando. Non ha mai smesso di cambiare. Ma – eccetto all'inizio in cui mi assicurano che le cose si agitavano a un ritmo spaventoso – cambiava molto lentamente. Sul futuro si poteva contare. Con qualche colpo di scena che ti lasciava di stucco – la conquista del fuoco, l'invenzione della ruota, dell'agricoltura, della città o della scrittura... – domani era più o meno simile a ieri. Adesso, di colpo, la macchina è impazzita. Tutto si è messo sotto i nostri occhi a cambiare sempre più in fretta. E forse un po' troppo in fretta. In questa baraonda, ho solo tre convinzioni.
    La prima è la più semplice e la più luminosa: non c'è niente di più bello di questo mondo transitorio, così crudele e così allegro, illuminato e riscaldato – che fortuna! –da una stella che chiamiamo Sole e dove – che fortuna! – ci sono dell'acqua, delle capre, delle montagne, delle storie di guerra e delle pene d'amore, dei numeri, dei libri, dei segreti, quegli olivi e quegli elefanti di cui ho già parlato troppo, delle ambizioni, delle passioni, delle idee improvvisamente nuove che scoppiano come granate e dei sogni di fanciulle. Malgrado tante sventure e tante pene, è una fortuna essere nato.
    La seconda, apparentemente opposta alla prima, ha qualcosa di più cupo: nascere vuol dire cominciare a morire e la vita che ho tanto amato è una specie di illusione destinata evidentemente a dissiparsi al più presto e a perire per sempre. Questa seconda convinzione fa ampiamente premio sulla prima. Con le sue gioie e la sua tristezza, con i suoi drammi e i suoi incanti, l'esistenza su questa terra mi appare come un setaccio, una specie di tirocinio, una prova, un esame di passaggio: ma verso che cosa e verso dove?
    La mia terza convinzione è la meno sicura e la più contestabile. Assume la forma di una scommessa: non credo a un caso che abbia organizzato con un rigore e un genio sorprendenti il mondo che mi circonda e, come se non bastasse, anche me. Malgrado tutti i miei dubbi, ripongo la mia speranza in una oscura necessità e in una forza sconosciuta in cui vedo la fonte di quella verità, di quella giustizia e di quella bellezza di cui conosciamo solo i riflessi e che si è convenuto di chiamare Dio.
    Non è certo che Dio sia morto né che il mondo sia assurdo. Io propendo piuttosto per un segreto, un enigma, un mistero che non dipendono da me, che rimandano a qualcos'altro e che mi restano oscuri.
    Di sicuro, in fin dei conti, c'è una cosa sola: morirò. Per me la vita è stata un'avventura piuttosto piacevole. Aspetto, senza impazienza, un'altra specie di avventura, banale ed eccitante quanto lo è stato il mio arrivo sul palcoscenico di questo illustre teatro: l'ora del mio pensionamento e del mio addio alle scene. Già m'immagino il quadro, sul genere, per esempio, di quelle ingenue vignette in cui una famiglia prostrata si abbandona al dolore. Un poco d'esaltazione. Sobrietà. Emozione. Molta dignità. Qualche lacrima. Magari qualche signora in nero. Il defunto era così affascinante. E io mi dispero perché non posso partecipare al mio funerale. Mancherà un poco d'allegria.
    Verrà molto presto il momento in cui mi troverò di fronte a Dio. In cui mi troverò di fronte a Dio... Per noi poveri viventi in queste parole incerte tutto è soggetto a cauzione e a dubbio. Quando mi troverò di fronte a Dio probabilmente non ci sarà più assolutamente niente. Non ci sarà più il tempo. E a capire che non c'è niente io non ci sarò più. E forse non ci sarà nemmeno Dio.
    Io non lo so se Dio esiste. Dio, o la natura, mi ha rifiutato il dono della fede. Chi sono io per rispondere con un sì o con un no a una domanda più grande di noi? Dio, o la natura, non mi ha permesso di decidere su un segreto e su un mistero così remoti al di sopra di me. Nel dubbio che mi assilla e spesso mi sommerge brilla tuttavia la speranza. Unamuno dice, non ricordo più dove, che credere a Dio forse consiste nello sperare che esista. Allora, sì, credo in Dio. Perché spero che esista.
    Quando comparirò di fronte a quel Dio a cui devo tutto – la mia vita, le mie gioie, le mie pene, l'universo che mi circonda, il sole sul mare, la mia allegria che era viva e i miei dubbi che erano crudeli – mi getterò ai suoi piedi e gli dirò: «Signore, perdonami. Ti ho tradito molto. Sono stato indegno della grandezza e della fiducia che mi avevi accordato poiché, nella tua bontà, mi hai dato la vita e mi hai lasciato libero di scegliere. La mia mediocrità la disprezzo con forza, ma purtroppo un po' tardi. Non sono stato né un eroe, né un martire, né un santo. Mi sono occupato di me molto più che di coloro che mi avevi affidato come fratelli. Sono stato indegno delle promesse che mi avevi elargito. Ho ricevuto molto più di quanto abbia mai dato. Ho ceduto troppo alla pigrizia, alla vanità, all'indifferenza nei confronti del prossimo, al gusto del guadagno, al delirio di voler essere sempre primo tra i primi. Ho vissuto nel tumulto e nell'agitazione. Ho cercato la felicità e troppo spesso il piacere.
    Tu lo sai, mio Dio. Ho amato le baie, il tuo mare che ricomincia all'infinito, il tuo Sole che era diventato mio, molte tue creature, le parole, i libri, gli asini, il miele, gli applausi di cui provavo vergogna, ma che coltivavo. Ho amato tutto ciò che passa. Ma ciò che ho amato soprattutto sei tu, che non passi. Ho sempre saputo di essere meno di niente sotto lo sguardo della tua eternità e che sarebbe venuto il giorno in cui sarei comparso di fronte a te per essere finalmente giudicato. E ho sempre sperato che la tua eternità di mistero e di angoscia fosse anche e soprattutto un'eternità di perdono e d'amore.
    Non ho fatto quasi nulla del tempo che mi hai prestato e poi ti sei ripreso. Ma, in maniera maldestra e ignorante, dal fondo del mio abisso non ho mai smesso di cercare la via, la verità e la vita».

    (Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella, Neri Pozza 2016, Ultimo capitolo: pp. 367-371)


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