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    La solitudine

    in una lirica di Goethe

    Giandomenico Mucci

    Tra il 1° e il 10 dicembre 1777, Goethe, che allora aveva poco più di 28 anni, scrisse una lirica che fu pubblicata la prima volta nel 1789.
    Il titolo della poesia è Harzreise im Winter (Viaggio invernale nello Harz). Essa è stata, dunque, composta 240 anni or sono.
    È un testo complicato, tanto come costruzione quanto come significato, sicché non è facile capirlo.
    Goethe stesso condivideva questo giudizio della critica posteriore. Nel 1820, cioè 43 anni dopo che la poesia era stata composta, a chi gli chiedeva schiarimenti per intenderla, rispondeva che era un Rätsel (indovinello) anche per lettori tedeschi, perché era abstrus (astrusa) [1].
    La lirica consta di 11 strofe.
    Sono rapidissime impressioni di viaggio vissute durante la salita sul Brocken, che è la vetta più alta della catena dello Harz: impressioni che riflettono situazioni e figurazioni tipiche, eterne, dell’anima umana [2].
    I compagni di viaggio del poeta erano partiti per fare una partita di caccia contro un feroce cinghiale che infestava la zona. Goethe, prima di associarsi a loro, aveva l’intenzione di visitare le miniere dei monti vicini e, contemporaneamente, di conoscere un giovane che, sconvolto dalla lettura del Werther, gli aveva più volte scritto per avere conforto e consiglio, e intanto, pieno di malinconica misantropia, viveva solo nel folto della boscaglia come in un deserto.
    Nella lirica, «la figura di questo ipocondriaco ispira lo stupendo intermezzo di tre strofe centrali, che s’imperniano sul contrasto fra la sorgente ed il deserto, fra l’amore del prossimo, che è la sola vera gioia dell’anima, ed il disprezzo e l’odio che sono dolore torturante, letale veleno del cuore» [3].
    Queste tre strofe hanno il carattere di una dolorosa elegia, e non è certo per caso che Brahms, con il suo «nobile pessimismo laico» [4], le abbia poste in musica, nell’estate del 1869, nella Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra, op. 53.

    Le tre strofe [5]

    «Ma là, in disparte, chi è?
    Nella boscaglia si perde il suo viottolo,
    dietro di lui
    si richiudono gli arbusti,
    l’erba si rialza,
    la solitudine [die Oede] lo inghiotte.

    Ah, chi potrà guarire i dolori
    di colui al quale il balsamo diventò veleno?
    Che dalla pienezza dell’amore
    bevve odio per l’umanità?
    Prima disprezzato, ora sprezzatore,
    egli consuma segretamente
    il suo proprio valore
    in un egoismo [Selbstsucht] che non lo appaga.

    Se nel tuo salterio,
    Padre dell’amore, c’è una nota
    percepibile al suo orecchio,
    consola il suo cuore!
    Apri lo sguardo offuscato
    sulle mille sorgenti
    [che stanno] accanto a colui che ha sete
    nel deserto!».

    Il «Padre dell’amore» è il nume atmosferico la cui invocazione fonde il tema psicologico-morale della lirica con il tema goethiano del misticismo cosmico.

    Quel giovane

    Come dicevamo, l’occasione da cui nacque la lirica fu la visita che Goethe, nel dicembre 1777, fece a Wernigerode, nello Harz, a un giovane che gli aveva scritto raccontandogli il turbamento e la crisi da cui era stato assalito dopo aver letto il Werther. Non era la prima volta, né sarà l’ultima, che il poeta riceveva lettere di lettori del suo celebre libro. Le pagine, che esprimevano uno stadio giovanile di tedio del poeta, che l’aveva rapidamente superato, fecero esplodere in molti giovani passioni e dolori che giacevano, inappagate e irrisolti, nel fondo dei loro spiriti. E il Werther «fu uno dei livres de chevet dell’ultima generazione dell’antico regime e di quelle che si formarono nell’età turbinosa della Rivoluzione, del Consolato e dell’Impero» [6]. Goethe ebbe la curiosità di conoscere quel giovane di persona e gli si presentò come disegnatore e pittore di paesaggi [7].
    Il giovane era F. V. Leberecht Plessing e abitava, solo e scontroso, a Wernigerode, piccolo paese dello Harz, con i suoi tormenti, i suoi sogni e i suoi libri. Successivamente, fu professore universitario a Duisburg.
    Lo era già nel 1792, quando Goethe andò per la seconda volta a visitarlo in questa città. Scrisse di filosofia antica, specialmente sulla misteriosofia degli antichi popoli mediterranei.
    Goethe disse di lui che era «sempre preoccupato di se stesso».
    Secondo quanto Goethe stesso scrisse quattro decenni più tardi in Campagne in Frankreich, il colloquio a Wernigerode si svolse nel modo seguente. In quella sera d’inverno, Plessing andava irrequieto su e giù nella stanza e domandava ansiosamente: «Ma perché Goethe non scrive? perché non mi risponde? Gli ho aperto la mia anima!». E Goethe: «Credo che Goethe sia lontano dal vostro stato d’animo»; e ancora: «egli ha molto da fare». Il poeta in incognito consigliava al giovane di vincere l’inquietudine e il ripiegamento su se stesso con l’attività e il contatto con la natura, magari con lavori manuali come il giardinaggio.
    Poi, lasciato Plessing con la promessa che il giorno dopo sarebbe tornato per un altro colloquio, Goethe, in quella notte di stelle e di neve, s’avviò su un sentiero lungo un torrente. Con la ferma determinazione di non volerne più sapere del giovane ipocondriaco, ordinò una cavalcatura per il giorno dopo e fece arrivare a Plessing un biglietto con il quale disdiceva l’incontro promesso8.
    Su questo dramma della solitudine e dell’infelicità resta il commento del poeta nella seconda strofa della lirica:

    «Poiché un Dio ha
    designato
    a ognuno la sua strada,
    quella che il fortunato
    percorre rapido
    sino alla meta felice;
    ma a chi l’infelicità
    comprime il cuore,
    quegli s’aderge invano
    contro i limiti del filo di bronzo,
    che le forbici pur sempre amare [delle Parche]
    un giorno recideranno».

    «Il legno storto»

    È stato Kant a dire che «da un legno così storto (aus so krummem Holze) come quello di cui è fatto l’uomo non si può costruire nulla di perfettamente diritto (ganz Gerades)» [9]. L’uomo ha una naturale inclinazione alla felicità, al libero e sereno dispiegamento dal suo essere, che è naturalmente incline al rapporto e allo scambio tra ciò che gli arriva dal mondo esterno a lui, specialmente da quello degli uomini, e ciò che egli rielabora con la riflessione e l’emotività.
    Di una tale rielaborazione sono componenti essenziali il contesto storico e sociale, la personalità e il temperamento individuali, la cultura, che modifica, plasma e può alterare in varia maniera l’una e l’altro.
    Vengono fuori allora incertezza, insicurezza, disagio, solitudine, crisi sulle motivazioni che reggono la volontà di vivere. Allora l’uomo si ritrova nella situazione psicologica che Zygmunt Bauman descrive come la sensazione che proverebbe il passeggero di un aereo se scoprisse che la cabina di pilotaggio è vuota [10].
    La solitudine, tuttavia, non è un semplice effetto traumatico causato da fattori culturali e storici. Se fosse soltanto tale, essa dovrebbe essere esperienza di alcuni, ma non necessariamente di ogni uomo. Ed è qui che il caso di Plessing conserva il suo valore emblematico, sia pure attraverso l’arte di Goethe.
    La solitudine è costitutiva dell’esistenza umana ed è la presa di coscienza di un limite. In larga parte indipendente dalle realtà esterne all’intimità di una persona, la coscienza del limite può risolversi in un doppio esito, e su questo influiscono le realtà esterne: o la chiusura e la disperazione, che manifestano la potenza e l’impotenza del limite; o la liberazione sia dalla presunzione di poter bastare a se stessi sia dall’illusione di poter essere saziati immergendosi nelle cose. Raggiunto questo traguardo, l’uomo è maturo per iniziare a vivere la sua relazione con gli altri e con Dio, che è la via a ogni comunicazione. Il che equivale a dire che è la comunione a sconfiggere la solitudine [11].
    Su questo travaglio riesce illuminante una pagina di Jaspers: «Il tragico ci si presenta come un evento che mostra tutto l’orrore dell’esistenza umana avvolta nelle spire della sua natura. La visione del tragico, però, genera una liberazione dal tragico stesso, una sorta di catarsi e redenzione. L’essere ci appare nella frustrazione, nel fallimento. Nel fallimento l’essere non va perduto, ma al contrario si fa pienamente, interamente sentire. Non esiste tragicità priva di trascendenza. La stessa fierezza di affermare se stesso, pur nella rovina, di contro il fato e gli dèi, è, in fondo, una forma di trascendenza; l’uomo, in tal modo, attinge la sua più vera essenza, ritrovando, nella catastrofe, il suo autentico io» [12].
    Notiamo che, se il termine «trascendenza » ha nel filosofo tedesco una valenza, almeno principalmente antropocentrica e immanentistica, altri pensatori collegano il senso ultimo dell’uomo, la sua decifrazione e il superamento della sua solitudine al fatto religioso. Per esempio, esplicitamente, Kolakowski: «In un mondo ipotetico dal quale il sacro fosse spazzato via, resterebbero solo delle eventualità: o il fantasma vano, che si riconosce come tale, o la soddisfazione immediata, che si esaurisce in se stessa» [13]. Assenza di Dio e solitudine sono realtà correlative.
    L’assenza di Dio è la ferita aperta nel fianco dell’esistenza [14].
    Ma ritorniamo a Goethe e Plessing.
    La seconda strofa delle tre che della lirica abbiamo citato comincia così: «Ah, chi potrà guarire i dolori / di colui al quale il balsamo diventò veleno?». «Ah, chi» (Ach, wer) è una domanda che prepara il richiamo al «Padre dell’amore», che è una risposta di intonazione sia pure vagamente religiosa. Il poeta sente il bisogno di aiutare il giovane, solitario e senza amore, invocando il «Padre dell’amore»: «consola», «apri».
    È possibile che in Goethe ci sia stata abitualmente l’influenza di Spinoza, forse pure in questa lirica.
    Ma anche chi lo pensa, avverte che, nell’occasione determinata da Plessing, ha agito sul poeta non quanto di panteistico e di razionalistico è in Spinoza, ma quella sua pietas fatta di amore per la divinità e per tutte le cose, quell’apertura verso l’immenso e l’illimitato che il poeta ha incluso nel «Padre dell’amore» [15].
    Ci sono, nella lingua tedesca, tre parole portate a notorietà da Heidegger: Unheimlichkeit, l’inquietudine, che costituisce il dramma umano; Mitsein, essere insieme; e Umwelt, il mondo che è intorno all’uomo.
    La prima parola evoca lo stato d’animo di chi non ha una casa (Heim), non tanto come edificio quanto come porto dove il viandante approda dopo aver peregrinato; allora, ritornando, gli sembra che le sue mura lo stringano come tra le braccia, ed egli gusta la gioia del riposo. Goethe e Hölderlin sono i maestri di questa Stimmung e di questa poesia. Lo stesso Vangelo, parlando di Gesù, allude all’angoscia dell’uomo che non sa dove posare il capo (cfr Lc 9,58).
    La seconda parola dice che «essere» è «essere insieme». Altrimenti si è come in prigione, sia pure dorata quanto si voglia. La solitudine, che può essere talvolta il castigo della superbia, è il tormento dell’uomo che, sebbene viva con l’altro, ha stabilito con l’altro il vuoto.
    La terza parola richiama alla mente l’idea che intorno all’io individuale sono disposte le cose vedute e conosciute, che fanno compagnia, colmano la distanza.
    Secondo un’antica etimologia, compagno viene da cum pane, è colui che condivide con me il pane.
    Probabilmente senza precisi riferimenti filologici, queste tre parole possono essere adoperate come una griglia interpretativa del dramma del solitario Plessing.
    Beninteso, lasciando al lettore la cura di scoprire che quelle tre parole, come rimandano alla sofferenza della solitudine, così rimandano all’Unico che possa durevolmente lenirla. Se non ci si ostina in quella Selbstsucht del verso goethiano, che letteralmente significa «ricerca di sé», e si vogliano vedere «le mille sorgenti che stanno accanto a colui che ha sete», nonostante tutto.


    NOTE

    1. Cfr B. Tecchi, Sette liriche di Goethe, Bari, Laterza, 1949, 19 s.
    2. Cfr L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. II/2, Torino, Einaudi, 1984, 492.
    3. Ivi, 493 e 483.
    4. M. Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1963, 322.
    5. Citiamo la versione di Bonaventura Tecchi. Cfr B. Tecchi, Sette liriche di Goethe, cit., 13; 45-49.
    6. V. Santoli, Storia della letteratura tedesca, Firenze, Sansoni, 1985, 261 s.
    7. Cfr B. Tecchi, Sette liriche di Goethe, cit., 23-27.
    8. Cfr ivi, 26.
    9. I. Kant, «Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht», in Id., Gesammelte Schriften, vol. VIII, Berlin, Reimer, 1910, 23.
    10. Cfr A. Possieri, «Dalla società liquida alle vite di scarto», in Oss. Rom., 11 gennaio 2017, 5.
    11. Cfr G. Masi, «Solitudine», in Enciclopedia filosofica, vol. IV, Firenze, Sansoni, 1957, 776 s.
    12. K. Jaspers, Del tragico, Milano, il Saggiatore, 1959, 19.
    13. G. Ravasi, «Kolakowski, l’ateo religioso», in Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2010, 41.
    14. Cfr Ch. Delsol, Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva, Macerata, Liberilibri, 2010, 95.
    15. Cfr B. Tecchi, Sette liriche di Goethe, cit., 49-51.

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