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    La parabola della gioventù

    Bruno Meucci


     


    M
    ai come oggi si è fatta così tanta retorica sulla giovinezza. Celebrata come l'età più bella della vita, non è più destinata a fuggire e a essere rimpianta, come succedeva fin dagli antichi Greci nella poesia, ma a vedersi prolungata indefinitamente nel sogno di riuscire a non invecchiare mai. Un bel romanzo di formazione dello scrittore Pablo d'Ors ci aiuta a comprendere come stanno realmente le cose a proposito della gioventù. Anche a costo di distruggere quel mito "sessantottino" che ancora la circonda.

    La giovinezza come mito

    Forse non è mai è esistita, nella storia dell'umanità, un'epoca in cui la giovinezza sia stata celebrata, amata e inseguita come oggi. Il fenomeno è iniziato più o meno negli anni Sessanta, quando nel mondo occidentale, in piena espansione economica dopo il disastro della guerra, ha preso corpo l'utopia di poter prolungare la giovinezza all'infinito, fino a farla durare per sempre.
    Chi non ricorda, a questo proposito, la voce vibrante di Joan Baez che cantava Forever Young con accenti malinconici a metà strada tra il sogno e la nostalgia? Giovinezza come libertà, spontaneità, spirito di ribellione e di avventura. Come contestazione di una società che fissava per i giovani compiti e ruoli e inchiodava i figli al futuro che i padri avevano deciso per loro. Giovinezza come simbolo e mito di una generazione che voleva cambiare il mondo.
    Quegli anni sembrano davvero lontani, anche perché nel frattempo l'industria dei consumi si è impadronita di quella straordinaria utopia – restare giovani per sempre – sganciandola da qualsiasi velleità di trasformazione rivoluzionaria, per piegarla invece a sogni più soggettivi e privati. Sana alimentazione, cosmetici, esercizio fisico e spirito aperto ai cambiamenti convincono le persone che sia possibile realizzare il sogno di non invecchiare mai. Perché se non si è più giovani, anagraficamente parlando, bisogna almeno sembrare di esserlo. Qualcuno ha parlato della sindrome di Peter Pan, del bambino che ha paura di crescere. Qualcun altro della scomparsa dell'adulto e di un fenomeno di infantilismo collettivo, collegato ovviamente al narcisismo, che del sogno di onnipotenza del bambino è il naturale corrispettivo. Rimanere giovani per sempre significa non accettare i limiti che la vita impone, a cominciare dal deterioramento fisico, per non parlare della morte, e neppure delle responsabilità che derivano dalle scelte, mantenendosi sempre pronti ad afferrare ogni possibilità. La lotta per rimanere giovani, tuttavia, è lunga e stressante; quindi c'è chi l'abbandona, rassegnandosi allo scempio delle rughe e della pancetta, ma tirando un respiro di sollievo perché almeno la battaglia è finita. E c'è invece chi continua a combattere disperatamente fino all'ultimo, nonostante il rischio di cadere nel ridicolo o addirittura nella depressione ogniqualvolta, guardandosi allo specchio, non può fare a meno di constatare quanto l'ideale dí sé non corrisponda alla realtà. E così, quando si deve accettare, per un motivo o per un altro, che la giovinezza è finita, che ce la siamo ormai lasciata alle spalle, non rimane che rimpiangerla, magari con le parole dí una canzone di Renato Zero, come se con essa avessimo perduto «i migliori anni della nostra vita».

    Essere giovani dopo la caduta del Muro

    Verrebbe da pensare che sia questo il motivo per cui lo scrittore, meditatore e sacerdote – così si definisce lui stesso – Pablo d'Ors ha scelto di dare al suo romanzo di formazione, uscito in traduzione italiana nel 2022, con le edizioni Arkadia, il titolo provocatorio di Contro la gioventù. Il titolo urta effettivamente la sensibilità del lettore perché sembra intenzionato a distruggere il mito della giovinezza come età più bella e desiderabile della vita. Eugen Salmann, il protagonista del libro, ha circa vent'anni quando l'agenzia pubblicitaria di Berlino, per cui lavora, lo spedisce a Praga con il compito di prendere contatti con aziende della capitale boema per aprirvi una succursale. Il muro che divideva in due l'Europa è caduto da poco e così alle imprese si aprono nuovi mercati, nuovi campi di iniziativa. E ai giovani, a cui è permesso finalmente di spostarsi da ovest verso est, e viceversa, si spalancano nuove possibilità. In realtà, Eugen arriva a Praga con un sogno nel cassetto: diventare un grande romanziere. È questo, in fondo, l'ideale che lo convince ad accettare la missione. Mettere piede nella città di Kafka e di Kundera, gli autori prediletti, i suoi maestri e modelli, gli sembra un'occasione da non lasciar sfuggire per provare a realizzare il sogno della gloria letteraria. Eugen è un giovane sensibile e ambizioso, insegue il successo, nel lavoro come nella letteratura, senza dimenticare l'amore per le donne. Ma è anche privo di esperienza, non conosce il mondo e tanto meno se stesso. Come tutti i giovani, non sí è ancora messo alla prova. Vive di sogni, di progetti, di proiezioni ideali, ma non ha mai sperimentato le proprie possibilità né i propri limiti. Conosce il proprio sé ideale, ciò che vorrebbe essere, ma non conosce il proprio sé reale, ciò che realmente è. Perciò, come sempre accade nell'età giovanile, fa coincidere íl sogno con la realtà, il volere con il potere. In particolare, fa notare Pablo d'Ors, Eugen non si è mai scontrato con una vera e propria delusione. Non ha mai fatto, cioè, quell'esperienza terribile che tutti fanno, presto o tardi, e che in un attimo fa svaporare tutti i sogni, tutti gli ideali, mettendo al loro posto il dubbio che siano stati soltanto illusioni. Il giovane, osserva Pablo d'Ors, si prende troppo sul serio, mancandogli quel distacco che gli permetterebbe di conoscersi per quello che è realmente e di guardarsi allo specchio con una certa dose di umorismo: «Perché i giovani, e su questo esistono pochissime eccezioni, prendono le cose troppo sul serio. È in questo, nella loro serietà, che dimostrano la loro gioventù. [.. .] In altre parole il giovane crede eccessivamente in sé stesso, non ha ancora vissuto l'esperienza del disincanto» (p. 17).
    Soltanto dopo aver elaborato le numerose esperienze dolorose che farà a Praga, Eugen si troverà in mano il contenuto del suo romanzo, con cui lascerà la giovinezza alle spalle e comincerà la sua vita adulti. Si tratta do un vero e proprio itinerario di morte e di rinascita. Eugen sarà costretto a mettere in discussione l'immagine ideale di se stesso e ad assumere uno sguardo disincantato e "umoristico" sugli esseri umani, compreso se stesso.
    «Era come se vedesse tutto per la prima volta, come se fosse stato messo al mondo a Praga», commenta a questo proposito Pablo d'Ors. È un percorso di trasformazione che sí può paragonare a quello che il bruco, l'insetto ripugnante simile allo scarafaggio della Metamorfosi kafkiana — non per caso evocato all'inizio del libro —, compie per dare nascita alla farfalla. Nel caso di Eugen, la farfalla è uno spirito libero dall'egoismo e dall'arroganza giovanile. Sì, perché il giovane crede che il mondo sia lì ad aspettarlo a braccia aperte, pronto a riconoscere il suo valore, come pure immagina di essere la persona più abile e intelligente che ci sia e che sia facile allungare la mano e prendere tutto ciò che si vuole. Sottovaluta il fatto che tra il sogno e la realtà si frappone un oceano di inevitabili difficoltà, di fallimenti, di delusioni e di motivi di scoraggiamento che metteranno a dura prova la consistenza e la sincerità dei suoi progetti.

    Un romanzo di formazione

    Contro la gioventù di Pablo d'Ors si inserisce nella lunga tradizione del romanzo di formazione che ne I dolori del giovane Werther riconosce il suo capostipite e modello originario. Il presupposto del romanzo di formazione è che la gioventù non dura in eterno. Franco Moretti, profondo studioso di questo genere letterario, ha scritto che il punto di partenza di ogni romanzo di formazione, così come è nato sul finire del XVIII secolo, è l'assunto «La gioventù non dura in eterno». Esso ci parla, dunque, del passaggio dall'età giovanile a quella adulta. La gioventù, osserva lo studioso, è un periodo temporalmente circoscritto in cui l'uomo – e poi più tardi anche la donna – ha l'occasione di costruire la propria identità di adulto. Ma non come nelle società premoderne, nelle comunità stabili, chiuse, impermeabili al cambiamento, dove il giovane è ancora un non-adulto e niente di più, perché la sua gioventù ricalca pari pari quella dei suoi antenati, non prevedendo un'entelechia, una finalità sua propria. Quello che il romanzo di formazione descrive è un nuovo modo di essere giovani, che si caratterizza essenzialmente come mobilità, come possibilità di uscire dalla comunità di origine, di viaggiare, di esplorare il mondo, e come interiorità, cioè come scoperta del proprio desiderio, della propria vocazione, spesso in contrasto con i ruoli prestabiliti. «Esplorazione desiderata: perché quello stesso processo genera speranze inaspettate, e alimenta così un'interiorità non solo più ampia che in passato, ma soprattutto – come ben vide Hegel, che peraltro deprecò tale sviluppo – perennemente insoddisfatta e irrequieta» (Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1986, p. 11). Sembra una descrizione di quello che capita a Eugen quando, giunto a Praga, pensa che quella città gli possa dischiudere possibilità inesplorate e quindi immagina il suo viaggio come un appuntamento col destino perché là comincerà a scrivere il romanzo a lungo sognato.
    Di fatto, seguendo le vicende di Eugen, vediamo che egli non realizza mai il suo desiderio di scrivere, ma si limita a sognarlo. Gli basta aspirare a diventare un grande scrittore per sentirsi davvero tale, appagato dagli elogi che certe persone, più o meno interessate, gli rivolgono. Nel frattempo, gli piace vagabondare per Praga, incapace com'è di mettere a frutto tutto il tempo che avrebbe a disposizione. Il centro dei suoi interessi non sembra essere la letteratura, quanto piuttosto le donne. Ma le sue sono avventure che non sceglie né riesce a controllare. In men che non si dica si trova coinvolto contemporaneamente in due storie di amore (meglio sarebbe dire di sesso) con due donne diverse, più grandi di lui. Donne che non ama, ma che lusingano il suo orgoglio maschile. Si incapriccia invece di una studentessa candida e ingenua, che diventa ben presto l'unico oggetto da conquistare, a tal punto da confondere il desiderio di conquista con l'innamoramento. Elabora quindi strategie complicatissime per sedurla, trasformando a poco a poco quella che era cominciata come un'amicizia casta e pura in una guerra di conquista. Le tattiche spregiudicate a cui Eugen ricorre ricordano per certi aspetti quelle di Johannes, il personaggio del più celebre Diario di un seduttore di Søren Kierkegaard. Alla fine, la ragazza si lascia prendere, ma proprio allora Eugen si rende conto, con raccapriccio, che l'amore con cui la ragazza lo ricambia non era ciò che desiderava. Tutto il castello di menzogne che Eugen ha costruito, per ingannare sé stesso e la fanciulla, crolla miseramente, provocando un trauma spaventoso nella giovane incredula. Trauma che si traduce per Eugen in vergogna e rimorso, in un vero e proprio orrore di sé stesso. Benché non sembri molto importante per la propria coscienza, Eugen si avvicina anche alla problematica religiosa quando inizia a frequentare un gruppo di preghiera e, in seguito, la casa di un tipo strano e affascinante, un artista e guida spirituale. Anche in questo caso, presume troppo di sé, tanto che gli basta porsi qualche domanda sull'esistenza di Dio per atteggiarsi già a filosofo e progettare di iscriversi all'università di teologia.
    Alla fine dei conti, Eugen deve riconoscere che il periodo trascorso a Praga – che coincide con la fase più bella e promettente della sua giovinezza – è stato un fallimento totale. Dei suoi desideri non ne ha realizzato neppure uno. La sua vocazione letteraria è fallita, come pure i suoi tentativi di amare. Non può fare altro che ritornare a Berlino da sconfitto. Per di più, ha conosciuto i lati più oscuri e ripugnanti del proprio io: la sua inconcludenza, la sua pigrizia, la capacità di mentire, la vanità, il cinismo, l'egoismo e la mancanza di scrupoli nell'usare le persone per soddisfare i propri desideri. Ma anche la debolezza e la disponibilità a farsi usare, persino in maniera umiliante, se lusingato nella vanità o preso dal lato dell'ambizione. È così che si diventa adulti, vuole dirci Pablo d'Ors: non solamente quando si sognano grandi obiettivi, sospinti dal desiderio di volare in alto, ma anche quando si comprende quanto siamo capaci di sprofondare verso il basso. E allora si capisce perché ha voluto intitolare questo romanzo, che è anche evidentemente autobiografico, Contro la gioventù: perché la giovinezza non è l'età più bella della vita, ma soltanto una fase di passaggio, e neppure quella di cui andare più orgogliosi. Sbagliato sarebbe non solo illudersi, ma addirittura desiderare di rimanere giovani per sempre. Per tutta la vita continueremmo a sognare di vivere, invece di vivere davvero. E avremmo di noi un'immagine idealizzata, e in fin dei conti falsa, stridente più che mai con quello che siamo veramente.

    Il significato della giovinezza 

    La giovinezza, tuttavia, non va intesa solamente come età anagrafica perché essa, come è noto, è anche una dimensione dell'anima.
    Molte sono le sue caratteristiche, ma quella che più ci interessa è il suo concentrato di energia, di speranze e di idealismo che devono, inevitabilmente, misurarsi con la realtà. La giovinezza in questo senso è un sogno a occhi aperti che a un certo punto però deve fare i conti con la vita reale. Lo scontro con la vita reale può durare molti anni, a seconda dei cammini individuali e delle diverse sensibilità, e in teoria non finire mai. Perciò la giovinezza può terminare a livello anagrafico, ma continuare a sopravvivere come modo di essere, come atteggiamento o come postura finanche nella vecchiaia.
    Essa finisce nel momento in cui il sogno, misurandosi con la realtà, ne esce sconfitto oppure trasformato. L'adulto, in ogni caso, sembra nascere quando il giovane muore. Ma ci sono diverse tipologie di adulto. Se il sogno ne esce sconfitto, avremo l'adulto deluso, pessimista e scettico. Il classico tipo cinico e disilluso, che rimpiange la giovinezza, ma allo stesso tempo la disprezza, perché giudica ingenuo l'idealismo, inutili le speranze, ingannevoli le utopie. Un tipo di adulto molto diffuso, si direbbe, nel mondo di oggi, in quanto alle delusioni personali si aggiungono quelle collettive, storiche e sociali. Sembra di vivere, infatti, in una società – soprattutto pensando a quella italiana – che è vecchia non solo anagraficamente, ma anche psicologicamente: una società in cui non si spera più nulla, dove anzi le proiezioni sul futuro sono fosche, inquietanti e foriere di paura. Perfino i giovani non sembrano più tali, nella maggioranza dei casi. Dove sono finiti l'idealismo, l'immaginazione, i sogni a occhi aperti, la voglia di vivere e di rischiare, lo spirito di avventura e il desiderio di rendere il mondo migliore? Appiattiti sul consumo immediato, conoscono soltanto desideri di corto respiro.
    E finché possono lasciano agli adulti l'onere di occuparsi di un mondo-che sembra essere fuori controllo, senza accorgersi che il consumismo gli sottrae i desideri e con essi anche la vita. E così si conferma l'osservazione dí cui sopra, che la giovinezza cioè non è soltanto un'età anagrafica, ma una configurazione psicologica influenzata fortemente dai contesti storici e culturali i quali, al limite, possono arrivare a cancellarne í connotati. Ma siamo esseri umani e la giovinezza che è in noi non può essere completamente annullata. Basterebbe trovare il segreto per farla rinascere, similmente a quanto avviene nelle fiabe quando l'eroe vince la regina cattiva e il mondo si risveglia dall'incantesimo che lo teneva prigioniero.
    Per chi invece è riuscito a comprendere gli sbandamenti della gioventù e a conservare integri i propri ideali, alla giovinezza subentra l'età della saggezza. Perché è difficile, come si sa, essere giovani e saggi insieme. Allora sí comprende che tutti gli esperimenti andati a vuoto, tutti gli errori e i fallimenti e tutte le illusioni che sono andate in frantumi, erano comunque tappe necessarie per entrare nella maturità della vita. Non è stato dunque un tempo sprecato, quello della gioventù, pur nella sua apparente inconcludenza. Ma un tempo in cui le speranze e gli ideali dovevano necessariamente sbattere sugli scogli della vita e naufragare, per trasformarsi in progetti più solidi e ben piantati, costruiti sulla consapevolezza di sé e sulla capacità di un impegno effettivo. La saggezza, appunto.
    Impara molto, Eugen, dagli errori della propria giovinezza. E dagli incontri che ha fatto quando si trovava a Praga. Comprende ad esempio che «per scrivere un romanzo [...] non c'è niente di peggio che volerlo scrivere». E che nelle strade contorte della vita si perde sempre l'innocenza, facendo soffrire gli altri a causa del nostro egoismo, della nostra confusione e della nostra leggerezza. Scopre inoltre che abbiamo una capacità straordinaria di ingannarci e di mentire a noi stessi, di illuderci e di credere alle nostre stesse menzogne, oltre a quella di mentire agli altri per ottenere ciò che vogliamo. Apprende infine la lezione su cosa non è l'amore, quando lo confondiamo con il desiderio di possedere l'altro; e perfino in cosa consiste l'amore oblativo, quando capisce che Karla, una delle sue amanti, lo ama davvero senza aspettarsi niente da lui. Contemplando a ritroso la ricerca disordinata della propria vocazione, Eugen si domanda «quante vite altrui iscriviamo nella nostra prima di trovare quella che ci appartiene veramente». Infatti, prima di conoscere realmente chi siamo, è come se vivessimo molte vite immaginarie, spesso ricalcate su modelli più o meno ideali con cui piace identificarsi. Qualche tempo dopo essere ritornato a Berlino, Eugen osserva la propria giovinezza con dolore e distacco. La riconosce piena di errori e di fallimenti, quindi non la rimpiange, ma neppure la rinnega con vergogna o disprezzo. La contempla con tenera compassione, come un tempo della vita che ci è dato per andare alla ricerca di noi stessi, inevitabilmente sbagliando, soffrendo e purtroppo facendo soffrire gli altri. Un tempo in cui, sembra concludere, l'esperienza più profonda e dolorosa che facciamo è quella dell'umiliazione: assistiamo alla caduta rovinosa di tutti gli idoli, di tutte le fantasie, come se la vita si divertisse a spogliarci di ogni illusione. Ma è proprio da questa esperienza, osserva giustamente Pablo d'Ors, che nascono i veri scrittori.

    Identità in divenire

    Nonostante ciò, come sarebbe triste la nostra vita se non ci fosse dato il tempo di sbagliare e di imparare poi dagli errori! Cosa sarebbe in fondo la vita senza «la ferita della giovinezza»? E poiché, come dicevamo poc'anzi, la giovinezza non è soltanto un'età anagrafica, ma una categoria dello spirito, a tutti è concesso, se lo desiderano, rinascere una seconda volta. Non si tratta, come pretende la nostra epoca, di rimanere giovani per sempre, ma di essere pronti al cambiamento, ogni volta che lo spirito lo chiede. Non siamo, infatti, identità fisse e immutabili, come la società vorrebbe farci credere. E come noi stessi giungiamo a pensare fissandoci sui ruoli pubblici per i quali le persone ci conoscono. La nostra identità è continuamente in evoluzione, in divenire, almeno per chi comprende che la vita interiore, con i suoi sviluppi e le sue trasformazioni, conta più delle posizioni sociali che riusciamo a raggiungere e che comunque prima o poi dovremo abbandonare. Come osserva acutamente Hannah Arendt, noi non siamo un «che cosa», come le cose che sono quelle e non altre, ma un «chi»: persone che rielaborano il proprio vissuto alla luce del presente, in vista del futuro che desideriamo costruire. E quando qualcuno ci domanda chi sei, ammonisce sempre Hannah Arendt, dovremmo sempre rispondere: «lascia che ti racconti una storia», perché noi siamo esattamente la storia che raccontiamo. Questo perché sia chiaro che non ci identifichiamo con il lavoro che facciamo o con i compiti che attualmente svolgiamo, ma con le esperienze che abbiamo vissuto e con quello che abbiamo imparato dalla vita. Il nostro io, infatti, è una storia continuamente elaborata e raccontata. Siamo processi, non identità; esseri in divenire, non definiti una volta per tutte. E come tali abbiamo sempre la possibilità di morire a noi stessi e di rinascere. Suonano come vere, quindi, le parole che Eugen dice alla fine del romanzo: «Quello che ho imparato a Praga è che periodicamente, non solo durante la gioventù, conviene correre il rischio di cambiare città e affittare una stanza, di affacciarsi a una finestra come chi si affaccia sul mondo, di ascoltare una lingua straniera, di guardare gli uomini – questa è la cosa essenziale – come se non li si fosse mai visti. Quella fu la prima volta che feci un esercizio simile, e naturalmente non sapevo come comportarmi. Sembravo un bambino, e per questo ero ciò che ogni essere umano dovrebbe avere il coraggio di essere, almeno ogni tanto». 
     

    (FEERIA, 2022/2 n. 62;  pp. 16-21)

     

     

     


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