La Morte da Samarra
a Samarcanda
Una storia antica ma che ha lasciato tracce di sé solo da pochissimo tempo: un racconto morale di cui tutti sono sicuri della provenienza ma in realtà nessuno si è reso conto che è “nato” a due passi da casa nostra
La storia la conosciamo tutti. Un uomo vede la Morte che lo osserva con occhi cattivi e chiede un cavallo veloce per sfuggirle. Cavalca tutta la notte per arrivare in un’altra città, solo per scoprire che la Nera Signora era proprio lì che lo aspettava.
È una storia molto nota e tutti hanno convinzioni abbastanza precise sulla sua provenienza: discende probabilmente da una fiaba persiana, o forse araba, comunque mediorientale. Chi la cita ha la mente piena di lussureggianti e antiche mille e una notte, e addirittura uno storico di grande fama come Franco Cardini cede le armi davanti a questa storia e si fa vago e approssimativo, lui che è preciso e minuzioso nel citare le fonti di qualsiasi cosa dica.
La verità è che tutti hanno sentito questo racconto citato da un occidentale, non da un mediorientale, e con il tempo i mediorientali stessi hanno finito per citare gli occidentali: e se il mistero di questo racconto fosse che le sue origini moderne sono molto più europee e attuali di quanto pensassimo?
Diamo subito ragione al pensiero comune, che non sa neanche di aver ragione. (Chi dice che la storia è mediorientale, cioè, lo afferma per sentito dire, non perché lo sappia davvero.) Il Talmud (“Insegnamento”) è uno dei testi sacri dell’ebraismo ed è conosciuto in due versioni: quello di Gerusalemme e quello babilonese, molto più lungo e redatto fra il V e il VI secolo d.C. ma contenente testi tramandati in forma orale sin da molti secoli prima.
La 53ª sukkah del Talmud Babilonese è una parabola che racconta di come un giorno Re Salomone si accorse che l’Angelo della Morte era triste. «Perché sei così triste?» gli chiese. «Perché mi hanno ordinato di prendere quei due Etiopi», risponde l’Angelo della Morte, riferendosi a Elihoreph ed Ahyah, i due scribi etiopi di Salomone. Il Re volle salvare i suoi preziosi uomini e li fece scappare fino alla città di Luz, ma appena giunti qui i due scribi morirono. Il giorno seguente Salomone incontrò di nuovo l’Angelo della Morte e vide che sorrideva. «Perché sei così felice?» gli chiese. «Hai mandato i due etiopi proprio nel posto in cui li aspettavo.» rispose la Morte.
Al che Salomone espresse la morale della parabola: «I piedi di un uomo sono responsabili per lui: essi lo portano nel luogo dove egli è atteso.» (Suona strana come morale, visto che in realtà i due poveri scribi vennero mandati da Salomone a morire, non dai loro piedi!)
Quindi ha ragione il comune pensare: la storia della fuga inutile dalla Morte ha radici mediorientali. Ma è per puro caso, perché nessuno - neanche i più dotti saggisti - cita il Talmud Babilonese, bensì getta là una vaghissima “origine mediorientale”.
Quello che nessun europeo ha mai notato, in realtà, è che la storia come noi la conosciamo è nata in Europa all’inizio del XX secolo.
Giovanni Invitto nel suo L’occhio tecnologico (2005) afferma che la storia è arrivata in Europa grazie ad Edward Fitzgerald, poeta inglese nonché celeberrimo traduttore delle Quartine di Omar Khayyām: con un’astuzia lessicale l’autore evita di specificare se la storia fosse farina del sacco di Fitzgerald o derivante da Khayyām, o se ancora fosse stata inventata da Fitzgerald “ispirato” da Khayyām.
Dispiace sottolineare come l’ottimo storico sopra citato, Franco Cardini, adotti lo stesso identico espediente quando parla della storia in questione nel suo romanzo Il Signore della paura (2007): «una leggenda che io avevo incontrato adolescente - leggendo qualcosa sulla traduzione che Edward Fitzgerald aveva dedicato al grande poeta persiano Omar Khayyām». Anche qui non è chiaro: la “leggenda” l’ha inventata Fitzgerald in un testo “dedicato” a Khayyām o traducendo un testo del celebre poeta persiano, a cui andrebbe quindi la paternità? Visto che Khayyām non fa parola di questo “qualcosa” che Cardini ha letto, a cui neanche Fitzgerald sembra far menzione, non rimane che proseguire oltre nella citazione cardiniana: «Mi sembra di ricordare che la leggenda della “morte a Samarcanda”, di evidente origine persiana, passata forse attraverso la cultura russa, sia approdata al romanzo di John O’Hara...» Perché “sembrare di ricordarsi” qualcosa che è noto a livello internazionale? E perché un grande storico “sembra di ricordarsi”? Non aveva tempo per controllare? Che voglia evitare di dire esplicitamente che non sono chiare le origini della storia?
Mettere in discussione la parola di Franco Cardini esula dalle nostre competenze: ci limitiamo a far notare quanto tutto il discorso sia pencolante, privo di fonti (in un testo che invece ne gronda abbondantemente!) e inciampi proprio sull’ostacolo più evidente. Il nome di Samarcanda l’ha pronunciato per la prima volta Oriana Fallaci negli anni Sessanta... altro che persiani e russi!
Ma andiamo con ordine.
John O’Hara, diceva il buon Cardini.
Tutti gli autori anglofoni e anglofili sanno che Appuntamento a Samarra (1934) di John O’Hara deve il suo titolo ad una storia raccontata al suo interno, del tutto slegata dal resto del romanzo.
Come spiega O’Hara stesso nell’introduzione all’edizione del 1952, originariamente il suo romanzo aveva per titolo The Infernal Grove (“Il bosco infernale”), ma quando la poetessa Dorothy Parker gli mostrò il lavoro teatrale Sheppey di W. Somerset Maugham l’autore ne fu colpito: non solo volle aggiungerne un brano come citazione iniziale del libro, ma fece di tutto per cambiare il titolo del romanzo stesso in Appointment in Samarra. Non aveva alcuna attinenza con gli eventi narrati, se non (nelle intenzioni di O’Hara) sottolineare l’inevitabilità della morte del protagonista. Né a Dorothy Parker, né agli editori né a nessun altro piacque quel titolo, ma O’Hara si impuntò e l’ebbe vinta.
I più attenti avranno notato che dunque O’Hara non ha inventato la storia, ma l’ha solo citata perché se ne è invaghito. Il Tempo poi gli ha dato ragione, ma in modo beffardo: il grande successo del suo libro in realtà è dovuto solo alla citazione iniziale, che non è una sua creazione. Nel 2007 il celebre regista Brian De Palma, contagiato dalla storia, girò il film Redacted intorno al racconto della Morte inevitabile. La pellicola è ambientata proprio vicino alla vera Samarra, in Iraq, dove alcuni soldati gestiscono un posto di blocco. Uno dei protagonisti racconta alla telecamera di star leggendo Appuntamento a Samarra di O’Hara, ma attenzione: non racconta una sola virgola della storia del libro, ma solo la citazione di Maugham! Si sarà reso conto il povero O’Hara che deve la fama ad una citazione non sua? Forse hanno fatto bene gli altri a non svelare mai le proprie fonti...
Ma insomma, cosa dice Maugham nella sua pièce teatrale del 1933 di così bello da contagiare tanto O’Hara quanto De Palma quanto un gran numero di americani?
Sheppey di Maugham finisce con la Morte che va a prendere il protagonista, il quale si rimprovera di non essere fuggito nell’Isola di Sheppey, dove sicuramente la Morte non sarebbe arrivata a prenderlo. Al che la Morte lo illumina con una storia: «C’era a Baghdad un mercante che mandò il suo servo al mercato per far provviste. E il servo ritornò ben presto, pallido e tremante, e disse: “Padrone, poco fa, mentre ero al mercato, fui urtato da una donna nella folla, e quando mi volsi mi accorsi che era stata la Morte a urtarmi. Mi guardò e fece un gesto minaccioso. Te ne supplico, prestami il tuo cavallo ed io abbandonerò questa città per sfuggire al mio destino. E andrò a Samarra, dove la Morte non potrà trovarmi”. Il mercante gli prestò il suo cavallo, e il servo montò in sella e, spronando a sangue l’animale, partì al galoppo. Allora il mercante si recò alla piazza del mercato e mi scorse tra la folla. “Perché hai fatto un gesto minaccioso al mio servo, stamane?” mi chiese, avvicinandosi. “Il mio gesto non era di minaccia, bensì di sorpresa”, risposi. “Fui stupita di vederlo a Baghdad poiché avevo un appuntamento con lui questa notte a Samarra”.»
Che sia di Maugham o di O’Hara, il fatto rimane: Samarra per gli anglofoni è il simbolo della Morte inevitabile, un appuntamento a cui non ci si può sottrarre. Quando nel 2002 venne girato negli USA il remake del successo giapponese The Ring, si cambiò il nome dell’infernale Sadako... e si scelse Samara. Che sia un richiamo alla Morte inevitabile che il personaggio porta?
In conclusione, la storia è antica ma in Europa è arrivata grazie al britannico Maugham e negli USA grazie a O’Hara, giusto? Neanche per sogno: malgrado tutti gli europei lo ignorino, malgrado addirittura i francesi lo ignorino, la storia è nata dieci anni prima... in Francia... e questa natalità l’ha scoperta un non-europeo!
Checché ne dicano tutti, prove alla mano si può affermare che la storia della Morte inevitabile, così come noi la conosciamo, se l’è inventata Jean Cocteau per il suo romanzo La spaccata (Le grand écart, 1923), che dopo quasi cent’anni di silenzio è stato portato in Italia recentemente da Castelvecchi.
«Crediamo di scegliere e non abbiamo scelta. Un giovane giardiniere persiano disse al suo principe: “Stamattina ho incontrato la morte. Mi ha fatto un gesto di minaccia. Mi salvi. Vorrei che un miracolo mi facesse essere a Ispahan, stasera”. Il buon principe gli presta i suoi cavalli. Nel pomeriggio, il principe incontra la morte. “Perché”, le chiede, “stamattina hai fatto un gesto di minaccia al mio giardiniere?” “Non era un gesto di minaccia”, rispose, “ma di sorpresa, perché avevo visto che stamattina era così lontano da Ispahan, ed è a Ispahan che devo prenderlo stasera”.»
Il Gesto della Morte è un tema che colpì la fantasia di Jorge Luis Borges, che dal 1953 in ben due antologie (prima Racconti brevi e straordinari, poi Antologia della letteratura fantastica) riportò fedelmente le parole di Cocteau: com’è che nessun europeo se n’è accorto e ancora oggi anche i francesi ignorano Cocteau? Com’è che a notarlo è stato uno di Buenos Aires? Sarà che gli europei continuano sempre a citare O’Hara o un ignoto mediorientale...
Comunque, dove l’ha presa Cocteau? Dal Talmud Babilonese o l’ha sentita raccontare da un qualche mediorientale? L’ha inventata, ignaro della versione talmudica? Purtroppo non lo sappiamo. John O’Hara è finora il primo ad aver ammesso di aver preso la storia da altre fonti: visto che il suo libro viene ricordato esclusivamente per quella storia (che non ne fa neanche parte), forse non gli è convenuto.
Forse il povero O’Hara doveva fare come l’olandese Pieter Nicolaas van Eyck che, all’interno della sua raccolta Herwaarts (“Da questa parte”, 1939), presenta la poesia De tuinman en de dood (“Il giardiniere e la morte”) senza stare a scomodarsi a citarne la fonte.
Parla un nobile persiano: «Vidi stamani accorrere, pallido di sgomento, / Il giardinier gridando: “Signore mio, un momento! // Potavo nel roseto le gemme troppo corte, / Quando alle spalle ho guardato. Lì stava la Morte. // Terrorizzato fuggo all’altro capo, lontano, / Ma anche qui la minaccia vedo della sua mano. // Col vostro cavallo, Signore, lasciatemi scappare / Ed entro stasera a Isfahan potrò arrivare!” // Nel pomeriggio (da ore già se n’è andato) / Nel parco dei cedri la Morte ho incontrato. // “Perché?” le chiedo, ché lei aspetta e tace, / “Il mio uomo hai impaurito, togliendogli pace?” // Sorridendo, risponde: “Ben più del suo timore, / Grandissimo è stato il mio stupore, // Nel veder qui stamani all’opra ancora attendere / Colui che stasera a Isfahan dovevo prendere”.» (Stupenda traduzione in versi di Elisabetta Svaluto Moreolo, Iperborea 2003.)
Il critico olandese Herman Franke ha avuto un guizzo di intuizione quando ha notato che è palesemente un plagio da Cocteau (il giardiniere, Isfahan, il gesto della morte), ma poi si è lasciato andare all’intercalare usato da tutti: si rifà comunque ad una leggenda araba. Quale leggenda, scritta dove, attestata da chi, non è dato sapere. (La poesia di van Eyck è stata anche messa in musica dal compositore ucraino Sergeij Zhukov per il suo De tuinman en de dood, scene for contralto).
È il momento di tirare le somme.
Ispirato o forse no dal Talmud Babilonese, nel 1923 Cocteau scrive per la prima volta la storia della Morte inevitabile. Nel 1933 Maugham la riporta quasi identica senza citare la fonte. Nel 1934 dall’altra parte dell’Atlantico O’Hara la riporta identica, citando la fonte. Nel 1939 van Eyck mette in versi la storia di Cocteau senza citare la fonte.
Fin qui tutto bene... un momento: e Samarcanda? Abbiamo sentito parlare di Luz, Isfahan e Samarra... che c’entra Samarcanda?
Dopo più di vent’anni del povero Cocteau si perde la memoria: la sua Isfahan, il gesto della morte e il povero giardiniere (figura molto presente nelle leggende arabe documentate da far davvero pensare ad un’ispirazione anteriore) svaniscono nel nulla. Così Oriana Fallaci ha campo libero!
Nel 1965 nel suo Se il sole muore la celebre scrittrice racconta: «Pensai piuttosto a quell’atroce racconto persiano dal titolo Appuntamento a Samarcanda. Nel giardino del re, la Morte appare a un servo. “Domani”, gli dice “ti vengo a prendere...” Allora il servo corre dal re e gli chiede il cavallo più veloce, per fuggire lontano: a Samarcanda. Arriva a Samarcanda, l’indomani, e la Morte è lì che lo aspetta. “Non è giusto”, grida il servo “non è leale”. “Perché?” risponde la Morte. “Sei fuggito senza farmi finire il discorso. Io ero in giardino per dire: domani ti vengo a prendere a Samarcanda”.»
Il racconto è uguale ma diverso. La Morte per la prima volta parla al diretto interessato, non al principe: si rivolge al servo e quasi si giustifica. Non ci è dato sapere a quale “racconto persiano” si faccia riferimento, ma sappiamo che ora è nata una nuova città: dopo Luz, Isfahan e Samarra ecco Samarcanda.
Nel 1979 la Fallaci riprende in forma più ampia e particolareggiata la storia nel libro Un uomo: gliela racconta Sua Maestà chiamandola “La leggenda di Samarcanda”. Viene aggiunto un particolare non da poco: il servo si trova ad Isfahan (città d’arrivo nella versione originale di Cocteau) e fugge a Samarcanda, dove l’aspetta la Morte. Davvero un bel mix.
Quest’ultima citazione però non ha alcun peso, ormai: nel 1977 la nostra storia infatti ha cominciato il suo contagio... musicale!
«Io notai questa bellissima favola orientale sul frontespizio di un libro, che era Appuntamento a Samarra di John O’Hara. Però il raccontino era citato da Somerset Maugham, che è uno scrittore anglosassone, e mi piacque moltissimo perché era un modello di cultura poi tra l’altro non soltanto orientale: era di tutto il mondo.»
Così racconta Roberto Vecchioni al giornalista Vincenzo Mollica, nella video-intervista Parole e Canzoni (2002), la nascita della canzone Samarcanda. Va apprezzato l’incredibile gioco sofistico per cui Vecchioni cita i principali autori della storia senza mai specificare chiaramente il loro rapporto con essa. L’ha letto sul libro di O’Hara ma il “raccontino” era citato da Maugham: ma era O’Hara che citava Maugham, non il contrario. E poi è una leggenda “non soltanto orientale”: come a dire dovrebbe essere orientale ma non ne sono così sicuro da affermarlo chiaramente.
Insomma, al di là della vaghezza delle sue origini e del fatto che Vecchioni non citi minimamente Oriana Fallaci - che è l’unica prima di lui ad usare Samarcanda al posto di Samarra o Isfahan - accompagnato al violino da Angelo Branduardi crea uno dei più grandi tormentoni della musica italiana.
Il testo ci racconta che, alla fine di una non meglio specificata guerra, un soldato sta festeggiando quando si accorge di una «nera signora che lo guardava con malignità». Intuito che si tratta della Morte, chiede al suo sovrano di farlo fuggire il più lontano possibile, e questi gli concede un cavallo velocissimo che lo porterà in poco tempo a Samarcanda. Ma arrivato in questa città, incontra di nuovo la Nera Signora. «Sbagli soldato - gli dice la Morte - io non ti guardavo con malignità. / Era solamente uno sguardo stupito: / cosa ci facevi l’altro ieri là? // T’aspettavo qui per oggi a Samarcanda, / eri lontanissimo due giorni fa. // Ho temuto che per ascoltar la banda / non facessi in tempo ad arrivare qua.» Il soldato, cercando di sfuggire alla Morte, in realtà gli andò incontro.
«Non era nata come canzone di successo - racconta Vecchioni nella citata intervista, - anzi con un motivo tragico: era nata sulla morte di mio padre, che sembrava essersi salvato poi improvvisamente un giorno purtroppo se n’è andato. Il destino è beffardo, crudele come sappiamo, “cinico e baro”: ti promette una cosa e poi non la mantiene.»
Perché però dire di essersi rifatti a Maugham quando poi non si usa la sua Samarra bensì Samarcanda?
Qualunque sia il motivo, sin dagli anni Ottanta la situazione è questa: sebbene tutti affermino trattarsi di leggenda mediorientale, tutto il mondo anglofono usa Samarra e tutti gli italiani usano Samarcanda, senza che apparentemente gli uni conoscano il modo di dire degli altri.
Così quando nel 1990 viene edito in Italia Ricordi di mezzanotte (Memories of Midnight) di Sidney Sheldon, e il traduttore si trova davanti un riferimento a Samarra, cosa fa? Semplice: lo fa diventare Samarcanda...
«Hai mai letto Appuntamento a Samarcanda, Catherine? No? Peccato, ormai è troppo tardi. Parla di un uomo che cercava di sfuggire alla morte. Si rifugiò a Samarcanda e la morte era lì che lo aspettava. Questa è la tua Samarcanda, Catherine.»
Questo dialogo fra un assassino e la sua vittima in lingua originale riporta Samarra: non solo, sin dalla prima uscita italiana il titolo di O’Hara usava Samarra, perché cambiarlo nella citazione di Sheldon? Visto questo importante precedente, come facciamo ad essere sicuri che i successivi riferimenti a Samarra, in romanzi di lingua straniera, non siano stati anch’essi modificati? Probabilmente lo sono stati tutti...
«La Morte come un angelo, la Morte che dava appuntamento a Samarcanda» Robert Bloch, La mietitrice (Reaper, 1986).
«Conosce il racconto orientale Appuntamento a Samarcanda?» Gérard de Villiers, SAS Vendetta a Beirut (Vengeance à Beyrouth, 1993)
«La storia degli ultimi giorni di Mozart è entrata nella leggenda: un ignoto messaggero recapita una convocazione dall’aldilà per preparare un eroe predestinato a un appuntamento a Samarcanda.» Maynard Solomon, Mozart (Mozart. A Life, 1995).
«Andiamo, bellezza. Ho un appuntamento a Samarcanda, o qualcosa del genere.» James Patterson, A Jennifer con amore (Sam’s Letters to Jennifer, 2004).
Tutti questi esempi, e tanti altri ancora, usano un termine prettamente italiano e quindi sono a forte rischio di manomissione in fase di traduzione. Per amor di verità vanno citate anche le eccezioni.
«Chi ha un appuntamento a Samarra non si dirigerà invece verso Newark.» Ed McBain, Una città contro (Downtown, 1989).
«Qualcosa sul destino, gli pareva, e su certi appuntamenti in Samarra.» Stephen King, Insomnia (1994).
Ultima eccezione è quella di Jean Baudrillard, filosofo francese che nel suo La seduzione o Della seduzione (De la séduction, 1979) racconta la nostra storia usando però l’accezione Samarcanda: che fosse stato contagiato dal successo della canzone di Vecchioni di due anni prima? Curiosamente Baudrillard specifica in nota: «Il tema era ripreso da un racconto irlandese, Appointment in Samarcanda, di John O’Hara, che si rifaceva ad una vecchia leggenda olandese e, questa, a sua volta, ad una leggenda orientale». Leggenda olandese? E questa da dove esce fuori? Probabilmente pensava alla poesia di van Eyck.
Sono tantissime le citazioni e i rifacimenti del “Gesto della Morte” o dell’“Appuntamento a Samarra” o ancora del “Cavallo di Samarcanda”, come la chiama Luigi Baldascini nel suo Vita da adolescenti (1993).
Il poeta iracheno Fadhil al-Azzawi nel 1975 raccoglie nell’antologia The Eastern Tree la poesia “An Appointment in Samarra”, in cui il servo riesce a sfuggire alla Morte rifugiandosi in una città in cui nessuno lo conosce e in cui nessuno sa della sua esistenza... non è anche questo morire?
Molte di queste citazioni, poi, sono gustosamente rimaneggiate. Quando per esempio nel 1969 venne portato sullo schermo il romanzo MacKenna’s Gold di Heck Wilson Allen con il celebre film L’oro di Mackenna di John Lee Thompson, viene aggiunto un prologo in realtà assente nel romanzo.
«C’è una vecchia storiella che raccontano gli Apache, di un uomo che cavalcava per il deserto e incontrò un avvoltoio (quelli che chiamano corvi tacchini, qui nell’Arizona) appollaiato su una roccia. Dice l’uomo: «Ehi, corvo tacchino, cosa ci fai qui? T’ho visto che volavi sopra Hadleyburg e per non incontrarti ho cambiato strada e sono venuto qui”. E l’avvoltoio gli fa: “Ma guarda che strano: ci sono passato per caso là ad Hadleyburg. Io stavo venendo qui... ad aspettarti”.»
La storia di sapore arabo diventa leggenda Apache!
L’operazione contagia lo scrittore Stephen Gunn (pseudonimo dell’italianissimo Stefano Di Marino) il quale in apertura del suo romanzo Il grande colpo del Marsigliese (1997) scrive: «Sulla via per Nogales un cavaliere vede un avvoltoio. Allora cambia strada e compie un largo giro sino al Canyon del Muerto. Qui ritrova l’avvoltoio e gli domanda: “Cosa ci fai qui? Ti ho visto sulla strada per Nogales”... “Strano” risponde l’avvoltoio “perché io ero diretto proprio qui. Ad aspettarti”.» Il testo viene presentato come “Un vecchio detto tarahumara”, in una deliziosa operazione di doppia citazione.
È mai esistita una favola orientale che trattasse della Morte inevitabile nei termini a noi noti? Malgrado non esistano prove al di là del Talmud Babilonese, sicuramente sarà esistita e magari esiste ancora. Quel che è certo è che in Occidente, dal Novecento in poi, qualsiasi vera favola orientale è stata soppiantata dall’Appuntamento a Samarra di John O’Hara, che si rifà al britannico Maugham che a sua volta si rifà al francese Cocteau. A chi si rifà quest’ultimo? Non lo sappiamo.
Tutto ciò che sappiamo è che la storia della Morte inevitabile ha contagiato generazioni di scrittori e lettori, rimanendo viva e fertile dopo quasi due millenni di vita.
Chiudiamo con un intervento di Enzo Tiezzi che, nel suo Tempi storici, tempi biologici (2001) così ci spiega: «La nostra cultura economica e sociale è tutta interna alla logica della ricerca del cavallo per arrivare a Samarra, della tecnologia per risolvere un problema di oggi, senza preoccuparsi se la risoluzione di quel problema va nella direzione di aumentare i problemi per l’umanità.»
Lucius Etruscus e Associazione Delos Books
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