La luce
Jean D'Ormesson
Né pittore né scultore, né d'altronde musicista, né matematico, né fisico, né astronomo, assai poco dotato sia per le arti che per le scienze, ho amato molto la luce. La luce del giorno, al mattino, mi ha sempre incantato. Mi svegliavo di buon umore perché, raggiante o coperta, c'era la luce. Su Positano, su Amalfi, su Ravello e i suoi giardini, sulla valle del Drago, su Dubrovnik, su Koréula o su Hvar, su Itaca o Kash, su Symi o Castellorizo, su Karnak o Udaipur, sulle piazze, le chiese, i palazzi, le scale di Gubbio, di Urbino, di Todi, di Spoleto, di Ascoli Piceno, e perfino di Pitigliano o di Borgo Pace, pur prive entrambe di strepitose bellezze, di Ostuni, di Martina Franca, delle piccole cittadine della Toscana, dell'Umbria, della Puglia, dell'Andalusia o del Tirolo, mi ha reso quasi pazzo di felicità. Più dei paesaggi, più della maggior parte delle persone, seppur così incantevoli e sottili, che ho avuto la fortuna di incontrare, più dell'acqua, quel miracolo, più della bellezza degli alberi, più degli asini e degli elefanti, forse più dei libri, forse perfino più dello sci in primavera, del mare nelle calette o delle donne che mi hanno dato tanta felicità al loro apparire, restare e a volte andarsene, ciò che più ho amato in questo mondo in cui ho già passato un bel po' di tempo è la luce.
Quasi quanto il tempo, meno crudele, più morbida, meno segreta e meno misteriosa, ma altrettanto diffusa in tutto l'universo, la luce mi è sempre sembrata mormorare in silenzio qualcosa di Dio.
(Il mio canto di speranza, Ed. Clichy 2015, pp. 109-110)