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    L'anima

    Un racconto di

    Giovannino Guareschi


    Il Nero stava smartellando già da tre ore, ma ancora non era riuscito a concludere niente di buono perché quel muro stramaledetto pareva un unico masso di pietra e bisognava cavar via i mattoni pezzettino per pezzettino.
    Il Nero interruppe il suo lavoro per asciugarsi il sudore della fronte e, guardando la piccola nicchia che era riuscito a scavare dopo tanta fatica, lanciò una imprecazione. – Bisogna aver pazienza, – disse una voce. Ed era il padrone di casa, il vecchio Molotti, che era entrato già da qualche minuto e s’era fermato vicino alla porta a osservare il muratore. – La pazienza non basta! – esclamò di malumore il Nero. – Questo non è un muro, è un blocco di ghisa. Per aprire una porta in un canchero così ci vuol altro che la pazienza! Il Nero riprese a smartellare rabbiosamente ma, poco dopo, lasciava cadere martello e scalpello assieme a una bestemmia. Il colpo era stato forte e l’indice della mano sinistra gli sanguinava. – Te l’avevo detto che bisogna aver pazienza! – esclamò il vecchio Molotti. – Quando uno ha pazienza, non perde la calma e non si pesta le martellate sulle mani. Il Nero bestemmiò ancora e allora il vecchio Molotti scosse il capo:– Il Padreterno non c’entra se ti sei pestato un dito, – esclamò. – Prenditela non con lui ma con quello che ti ha dato la martellata. E ricordati che per guadagnare il Paradiso bisogna soffrire. Il Nero si mise a sghignazzare: – Bisogna soffrire per guadagnarsi un pezzo di pane! – disse. – Altro che Paradiso! Ci faccio la birra, io, col vostro Paradiso! Il Nero era rosso come il fuoco e uno dei più scalmanati della banda di Peppone, ma il vecchio Molotti, per quanto avesse passato i novant’anni, non era tipo da lasciarsi impressionare: – Già, – disse, – col nostro Paradiso tu ci fai la birra. Dimenticavo che sei uno di quelli che promettono il Paradiso in terra! Il Nero si volse: – Molto più onesti di chi promette il Paradiso in cielo. Perché, mentre noi promettiamo delle cose che si possono vedere e controllare, voi promettete delle cose che nessuno può vedere né controllare. – Non temere, – replicò il vecchio Molotti levando il dito ammonitore. – Verrà il tuo turno e allora vedrai e controllerai. Il Nero rise di gusto: – Morto io, morto il mondo. Una volta che uno è crepato, tutto è finito. Di là ci sono soltanto le chiacchiere dei preti. Il vecchio Molotti sospirò: – Dio salvi la tua anima! Il Nero si rimise a smartellare. – Roba da matti! – borbottò. – Si deve ancora sentir parlare di simili baggianate! L’anima! L’anima che vola in cielo con le ali e va a prendere il premio! Questa gente ci prende proprio per dei cretini! Il vecchio Molotti si appressò: – Se non fossi sicuro che parli così per fare il bullo e che, di dentro, pensi in maniera tutto diversa, ti risponderei che sei un povero pazzo. – Pazzi siete voi della borghesia e del clero che credete di riuscire ancora a darcela a bere! – urlò il Nero. – Io sono ben sicuro di quello che dico, e la penso come dico. Il vecchio Molotti tentennò il capo: – Allora tu sei proprio sicuro che l’anima muore assieme al corpo? – Sicuro come sono sicuro di essere vivo. L’anima non esiste! – Addirittura! E se l’anima non esiste, cos’è che hai di dentro? – Polmoni, fegato, milza, cervello, cuore, stomaco, budelle. Siamo delle macchine di carne che funzionano fino a quando tutti gli organi funzionano. Quando un organo si guasta, la macchina si ferma e, se il dottore non riesce a riparare il guasto, la macchina muore. Il vecchio Molotti allargò le braccia indignato: – Ma l’anima, – gridò, – è il soffio della vita! – Balle, – replicò il Nero. – Provate a tirar via i polmoni a un uomo e poi vedrete cosa succede. Se l’anima fosse il soffio della vita e via discorrendo, un corpo umano dovrebbe funzionare anche senza qualche organo interno! – Tu bestemmi!– Io ragiono. Io vedo che la vita dell’uomo è legata ai suoi organi interni. Io non ho mai visto un uomo morire perché gli hanno tolto l’anima. E poi, se, come dite voi, l’anima è il soffio della vita, dato che le galline vive sono vive, hanno l’anima anche le galline e, quindi, ci sarà l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso anche per le galline. Il vecchio Molotti capì che era inutile continuare la discussione e si allontanò. Ma non rinunciò alla lotta e, quando a mezzogiorno il Nero smise di smartellare e andò a sedersi sotto il portico per mangiare la roba che s’era portato da casa, lo raggiunse. – Sentite, Molotti, – l’ammonì il Nero appena lo vide davanti. – Se venite per ricominciare la solfa, è fiato sprecato. – Non ho nessuna voglia di discutere, – spiegò il vecchio Molotti. – Vengo a proporti un affare. Sei proprio sicuro di non avercela, l’anima? Il Nero si rabbuiò, ma il vecchio non gli diede tempo di parlare: – Se sei proprio sicuro di non avere l’anima, perché non me la vendi? Ti do cinquecento lire. Il Nero guardò il biglietto di banca che il vecchio gli porgeva e scoppiò a ridere. – Bella davvero! E come faccio a vendervi una cosa che non ho?Il vecchio Molotti non disarmò: – Non te ne incaricare: tu mi vendi la tua anima. Vuol dire che, se proprio non ce l’hai, io ci rimetto le cinquecento lire. Se invece tu l’hai, l’anima diventa di mia proprietà. Il Nero stava divertendosi come non s’era divertito mai. Pensò che il Molotti doveva essere rimbambito a causa dell’età. – Cinquecento lire sono poche, – replicò allegramente il Nero. – Almeno dovete darmi un biglietto da mille. – No, – rispose il vecchio Molotti. – Un’anima come la tua non vale più di cinquecento lire. – O mille o niente! – affermò il Nero. Il Molotti cedette: – Sta bene, mille lire. Prima di andare a casa concluderemo l’affare. Il Nero smartellò allegramente fino alla sera: allora il vecchio ricomparve. Aveva in mano un foglio di carta bollata e una penna stilografica. – Sei ancora del parere? – domandò al Nero. – Certamente. – Bene, siediti lì e scrivi. Sono poche parole.
    Il Nero si sedette al tavolo e il vecchio prese a dettare: «Io sottoscritto Francesco Golini detto “Nero” con la presente privata scritta valevole a tutti gli effetti di legge, dichiaro di vendere la mia anima al signor Giuseppe Molotti per la somma di lire mille. Il signor Molotti entra oggi stesso in possesso dell’anima di cui sopra avendo versato in mie mani la pattuita somma di lire mille, e di essa anima può disporre come meglio crede. Letto e sottoscritto...». Il vecchio Molotti porse le mille lire al Nero che segnò sotto il contratto la sua più bella firma. – Perfetto! – disse soddisfatto il vecchio riponendo con cura il contratto dentro il portafogli. – Affare fatto e non se ne parli più. Il Nero se ne andò ridendo: evidentemente il vecchio era completamente rimbambito. Si rammaricò di non aver chiesto di più. Comunque era sempre un bigliettone da mille che pioveva dal cielo. Però, mentre pigiava sui pedali del suo scalcagnato biciclo, il Nero continuò a pensare allo strano contratto: «E se il Molotti non è rincretinito come pare, perché mi ha regalato mille lire?». Il Molotti era tanto danaroso quanto tirchio e se aveva fatto questo a mente lucida, uno scopo doveva esserci. Ad un tratto una luce brillò nel cervello del Nero che lanciò una imprecazione e tornò indietro, deciso a rimediare alla stupidaggine commessa. Trovò il vecchio Molotti nell’aia e subito entrò in argomento: – Sentite, – disse con aria cupa, – sono stato uno stupido a non pensarci prima. Comunque meglio tardi che mai. Conosco gli sporchi sistemi di propaganda di voi reazionari: voi mi avete carpito quella dichiarazione per pubblicarla e cavarne fuori uno scandalo e danneggiare il mio Partito: «Ecco cosa sono i comunisti: gente che vende l’anima per mille lire». – Questo è un affare tra me e te e lo dobbiamo sapere soltanto noi due, – rispose. – Comunque sono disposto a mettere in calce al contratto una clausola di garanzia: «Giuro sul mio onore che non mostrerò mai a nessuno il presente documento». Ti basta? Il Molotti era un uomo d’onore: se giurava c’era da fidarsi. Il Molotti, entrato in tinello, scrisse in calce al contratto la clausola di garanzia e la firmò. – Adesso puoi star tranquillo, – disse il Molotti. – Ma potevi star tranquillo anche prima perché io la tua anima l’ho comprata non per farne commercio più o meno politico, ma per tenermela io. – Sempre ammesso che la troviate! – esclamò allegramente il Nero. – Naturalmente, – replicò calmo il Molotti. – Ad ogni modo, per conto mio l’affare è ottimo perché io sono sicuro che tu l’anima ce l’hai. Sarebbe la prima volta, in vita mia, che sbaglio un affare. Il Nero tornò a casa soddisfatto: ormai non aveva più alcun dubbio: il vecchio Molotti era completamente rimbambito. Aveva una voglia matta di raccontare la faccenda almeno ai suoi più intimi della banda: poi lo trattenne il timore che la storia andasse in giro e servisse ai reazionari per far inorridire le vecchie bigotte.

    I lavori in casa del Molotti durarono una settimana e, ogni giorno, il Nero ebbe modo di incontrarsi col vecchio: ma il vecchio non tornò mai sull’argomento del contratto né impiantò più discussioni a sfondo politico. Pareva addirittura che non si ricordasse più di niente. Poi, quando ebbe lasciata la casa del Molotti, anche il Nero si dimenticò del famoso contratto e passò un anno prima che la cosa gli si riaffacciasse alla mente. Questo accadde una sera, nell’officina di Peppone. Peppone doveva fare un lavoro urgente e aveva bisogno di qualcuno che gli desse una mano: c’era da mettere insieme un cancelletto di ferro battuto di cui Peppone aveva già forgiato tutti gli elementi. – È del vecchio Molotti, – spiegò Peppone, – e lo vuole a ogni costo per domattina. Gli serve per la tomba di famiglia: dice che, prima di morire, vuol vederlo lui perché gli altri non capiscono niente. – È malato? – si informò il Nero. – Ha novantatré anni, – rispose Peppone. – Si è messo a letto da una settimana con un accidente ai polmoni e si sa che, a quell’età, anche un raffreddore può mandare all’altro mondo. Il Nero si mise a girare la manetta della ventola. – Un vecchio maiale reazionario di meno, – borbottò il Nero. – Una fortuna per tutti, anche per lui perché da un bel pezzo era diventato completamente rimbambito. Peppone scosse il capo: – Non mi pare: un mese fa ha combinato l’affare del fondo di Trespiano guadagnandoci almeno quindici milioni. – Un semplice caso di fortuna schifosa! – replicò il Nero. – Ti assicuro che da un pezzo era diventato completamente cretino. Capo, ti dico un fatto che non ho mai detto a nessuno. Il Nero sghignazzando raccontò la storia del contratto dell’anima e Peppone lo stette ad ascoltare attentamente.– Non è cretino un uomo che compra un’anima per mille lire? – concluse il Nero. – Certamente, – osservò Peppone. – Però è più cretino chi vende l’anima per mille lire. Il Nero si strinse nelle spalle: – Lo so, potevo cavarci molti quattrini di più, – riconobbe. – Non è questione di soldi in più o in meno, – disse Peppone. – è il fatto in sé che è cretino. Il Nero smise di girare la manetta della fucina: – Capo, – esclamò, – mi stai diventando una Figlia di Maria anche tu? Che storie sono queste? Lascia stare l’opportunità politica di non prendere di petto la religione e la Chiesa, lascia stare la posizione ufficiale del Partito: ma, detto qui fra noi, non sei forse d’accordo che l’anima, il Paradiso, l’Inferno e compagnia bella sono soltanto delle invenzioni dei preti? Peppone continuò a pestar martellate sul ferro rovente. – Nero, – disse dopo una lunga pausa di silenzio, – tutto questo non c’entra. Io dico che vendere l’anima per mille lire è controproducente. Il Nero si rasserenò: – Capo, adesso sì capisco. Però hai torto: per evitare ogni speculazione politica ho fatto aggiungere sul contratto la clausola che il Molotti mai parlerà di quel contratto con nessuno. – Be’, allora se c’è la clausola è un’altra cosa, – affermò Peppone. – Diventa un fatto tuo personale che non ha niente a che vedere col Partito. Col Partito sei a posto. Poi prese a parlare d’altro. Il Nero tornò a casa verso mezzanotte ed era allegrissimo. «L’importante è di essere a posto col Partito», disse fra sé prima di addormentarsi. «Quando uno è a posto col Partito è a posto con tutto il resto».

    Il Molotti andò peggiorando di giorno in giorno e don Camillo, ritornando una sera in canonica dopo aver trascorso lunghe ore al capezzale del vecchio, si imbatté nel Nero. – Buonasera, – disse il Nero. E la cosa fu tanto grossa che don Camillo ritenne necessario fermare la bicicletta, scendere e andare a guardare in faccia, da vicino, il Nero. – Straordinario, – disse alla fine. – Tu sei effettivamente il Nero in carne ed ossa e mi hai salutato. Ti sei forse sbagliato? Mi hai forse preso per una guardia del dazio? Ti sei accorto che sono il parroco? Il Nero si strinse nelle spalle: – Con lei non si sa mai come regolarsi. Se non lo salutiamo dice che noi rossi siamo dei senza Dio. Se lo salutiamo dice che siamo matti. Don Camillo allargò le braccia: – In un certo senso hai ragione. In un certo altro però hai torto. Comunque buonasera a te. Il Nero rimase qualche istante a guardare il manubrio della bicicletta di don Camillo, poi domandò: – Come sta il vecchio Molotti? – Si spegne lentamente. – Ha perso conoscenza? – No: è sempre stato ed è ancora lucidissimo. Il Nero esitò, poi domandò aggressivo: – Le ha detto niente? Don Camillo spalancò gli occhi stupito. – Nero, non capisco, – affermò. – Che cosa avrebbe dovuto dirmi? – Non le ha mai parlato di me? Di un contratto fra me e lui? – No, – disse con estrema sicurezza don Camillo. – Abbiamo parlato di tutto fuorché di te. D’altra parte io non vado al capezzale dei moribondi per parlare di affari: io non amministro beni terreni, io amministro anime. Il Nero ebbe uno scatto e don Camillo tentennò sorridendo la testa: – Nero, non ho nessuna intenzione di farti delle prediche. Quello che dovevo dirti te l’ho già detto quando tu eri ancora ragazzo e venivi ad ascoltarmi. Adesso mi limito a rispondere alle tue domande: non ho parlato d’affari col Molotti. Non mi sono interessato di nessun contratto. Né posso interessarmene. Se hai bisogno di un aiuto, rivolgiti a un avvocato. Ma fai presto perché il Molotti è più di là che di qua. Il Nero si strinse nelle spalle: – Se ho fermato lei e non un avvocato significa che la cosa riguarda un prete e non un avvocato. Si tratta di una sciocchezzuola, uno scherzo: ad ogni modo lei dovrebbe dare al Molotti queste mille lire e dirgli di restituirmi quella carta bollata. – Danaro? Carta bollata? Mercanzia da avvocati, non da preti! – ribatté don Camillo. Erano ormai arrivati davanti alla canonica: don Camillo entrò e il Nero, data un’occhiata intorno, lo seguì. Don Camillo andò a sedersi dietro il tavolino in tinello e, indicando una sedia al Nero, gli disse: – Se credi che io possa esserti utile, parla. Il Nero rigirò il cappello fra le mani per un bel po’ quindi disse: – Reverendo, il fatto è questo: un anno fa io ho venduto al Molotti la mia anima per mille lire. Don Camillo fece un piccolo balzo sulla sedia, poi disse minaccioso: – Senti: se tu vuoi divertirti hai sbagliato porta. – Non scherzo! – esclamò il Nero. – Io lavoravo in casa sua e ci siamo messi a discutere dell’anima. Io sostenevo che l’anima non esiste, allora lui mi ha detto: «Se per te l’anima non esiste, perché non me la vendi? Ti dò mille lire». Io ho accettato l’affare e ho firmato il contratto. – Il contratto? – Sì: scritto di mio pugno, in carta bollata. Il Nero ripeté a memoria il testo del contratto: lo ricordava alla perfezione. E don Camillo si convinse che il Nero diceva la esatta verità. Allargò le braccia: – Ho capito perfettamente. Quello che non capisco è il perché tu rivoglia quella carta. Se per te l’anima non esiste, che cosa ti importa di averla venduta? – Non è per l’anima, – spiegò il Nero. – Non vorrei che gli eredi trovassero quella carta e ne facessero una speculazione politica a danno del mio Partito. Don Camillo si levò e si piantò davanti al Nero, con le mani sui fianchi. – Dimmi un po’, – muggì a denti stretti. – Secondo te io dovrei dunque aiutarti per fare l’interesse del tuo Partito! Allora questo significa che tu mi giudichi il prete più cretino dell’universo! Prendi la porta e fila! Il Nero si levò e si avviò lentamente verso la porta. Ma, fatti pochi passi, tornò indietro: – Non me ne importa niente del Partito! – gridò. – Io rivoglio quella carta! Don Camillo era sempre lì fermo, coi pugni sui fianchi e la mascella serrata. – Rivoglio quella carta! – gridò il Nero. – Sono sei mesi che io non dormo più! Don Camillo guardò quel viso sconvolto, quegli occhi sgomenti, quella fronte piena di sudore. – La carta! – ansimò il Nero. – Se quel porco vuol guadagnare anche in punto di morte, gli darò di più. Gli darò quello che chiede. Io non posso andare da lui. Non mi lascerebbero entrare. E poi non saprei come impostare la faccenda. Don Camillo intervenne: – Calmati: se non è per una questione di Partito, cosa ti importa quella carta? Tanto l’anima e l’aldilà sono balle inventate da noi preti... – Sono affari che non vi riguardano! – urlò il Nero. – Io rivoglio la mia carta! Don Camillo si strinse nelle spalle: – Domani mattina proverò. – No! Subito! – disse il Nero. – Domattina può essere morto. Subito, intanto che è vivo. Prenda le mille lire e vada. Io l’aspetto lì fuori... Vada, reverendo. Si spicci! Don Camillo aveva capito, ma, nonostante tutto, non riusciva a mandar giù il tono perentorio di quel dannato senza Dio. E perciò stava ancora lì fermo coi pugni sui fianchi a guardare il viso sconvolto del Nero. – Reverendo, faccia il suo dovere! – urlò il Nero esasperato. Allora don Camillo si sentì improvvisamente la smania addosso: corse fuori senza neppure mettersi il cappello e saltato sulla bicicletta scomparve nel buio.

    Ritornò dopo circa un’ora: entrò in canonica e il Nero lo seguì. – Ecco, – disse al Nero porgendogli una grossa busta suggellata. Dentro la busta grande c’era un foglietto con poche righe e un’altra busta con suggelli di ceralacca. Il foglietto diceva: «Con la presente il sottoscritto Molotti Giuseppe dichiara annullato il contratto stipulato col signor Golini Francesco detto “Nero” e glielo restituisce. In fede Molotti Giuseppe». Nella busta piccola c’era il contratto famoso in carta bollata. Don Camillo porse al Nero qualcosa d’altro: – Le mille lire non le ha volute, – spiegò, – dice che tu ne faccia quello che credi. Buonasera. Il Nero non disse una parola. Uscì con tutta la sua mercanzia fra le mani. Pensò che doveva lacerare subito il contratto, ma poi pensò che sarebbe stato meglio bruciarlo. La porta piccola della chiesa era ancora aperta e si vedevano brillare alcuni ceri. Entrò e si fermò davanti al cero che ardeva subito dietro la balaustra dell’altar maggiore. Appressò alla fiamma il foglio di carta bollata e lo guardò bruciare. Poi strinse fra le grosse dita il foglio contorto e carbonizzato e lo ridusse in cenere. Aperse la mano e soffiò via la cenere. Si avviò per uscire, ma si ricordò delle mille lire che aveva messo dentro la busta, assieme al foglietto del Molotti. Cavò il biglietto da mille e, appressatosi alla cassettina delle elemosine, lo infilò nella fessura. Poi cavò di tasca un altro biglietto da mille e anche questo infilò nella fessura. «Per grazia ricevuta», pensò. Uscì e tornò a casa. Aveva gli occhi pieni di sonno e sapeva che, quella notte, avrebbe dormito. Don Camillo, poco dopo, andò a chiudere la chiesa e a salutare il Cristo all’altar maggiore. – Gesù, – disse, – chi riesce a capirla, questa gente? – Io, – rispose sorridendo il Cristo crocifisso.

    (Don Camillo e il suo gregge, Ed. Rizzoli, 1971. Pagg. 312-326)


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