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    In cammino

    Antonio Prete 

    Il passo dei pensieri

    Camminare: portare i propri sensi nella luce del paesaggio. Spostare il corpo, con il corpo, verso un luogo che è meta, o sosta, o punto d'arrivo. Oppure verso una linea d'orizzonte che si allontana mentre noi le andiamo incontro, ed è sempre oltre il nostro sguardo: confine che unisce il visibile con l'invisibile, l'apparire estremo con il velato e con il sottratto alla vista. Camminare è pensare nell'aperto, attraverso l'aperto: nella sua luce, o nella sua notte lunare. Può anche accadere di camminare, d'estate, sotto la luce lontanissima e perduta delle stelle, distinguendo il disegno delle costellazioni, o sotto il lucore argenteo e soffuso della Via Lattea, un sentiero anch'essa, ma sconfinatamente affollato di stelle e di nebulose: in quel caso, l'ascolto delle voci notturne - il verso di una civetta, il coro dei grilli, il suono del vento tra le piante, lo stesso rumore che giunge da una strada lontana - è apertura di un confronto del nostro cammino con altri invisibili cammini, quelli delle orbite astrali, e con i silenzi che le circondano e proteggono. Sempre il cammino è attivazione del sentire, e dell'immaginare, e del pensare: atto che unisce il movimento fisico con il movimento dei pensieri, il ritmo del passo con il pulsare della mente. Per questo il cammino è dell'interiorità la finestra, il balcone: i sensi si affacciano per respirare l'aria che li vivifica, e il visibile entra nelle stanze dei pensieri, dei ricordi, delle attese, entra nella grande stanza del desiderio come un vento che purifica e rinnova. Il cammino è l'ossigeno dell'interiorità.'53
    All'inizio del cammino - camminare è per me esercizio quotidiano - sento che il ritmo del passo cerca di accordarsi con il ritmo del pensiero, come accade con il suono di uno strumento musicale. Non sempre l'intesa avviene subito. Occorre un passaggio verso l'abbandono, un atto di distrazione dai pensieri e dalle occupazioni precedenti, perché ritmo fisico e ritmo interiore trovino l'accordo: quel che lo sguardo incontra sale allora verso una presenza, diventa il visibile, cioè qualcosa che mostra un volto, un timbro, una luce, e via via si posa sulle palpebre dell'attenzione. Prossimità abitata dal passaggio: un albero che raggiungiamo e lasciamo alle spalle, un tratto d'ombra che attraversiamo, una passante o un passante che incrociamo. Oppure lontananza - profilo di monte o lembo di cielo o nuvola in fuga - che appare nelle sue variazioni di luce, nel suo dialogo con la luce, scandito a sua volta dal trascorrere dell'ora. Prossimità e lontananza che divengono come l'area di protezione dei pensieri, i quali trovano il loro incedere, il loro procedere, e si inseguono, si sovrappongono, si perdono, mentre tessono comunque una trama: è in quella trama impalpabile, scomposta, che a un certo punto lampeggia qualcosa che riconosciamo come un'idea, o un proposito, o un ragionamento, o, persino, una decisione. Camminare è fare esperienza di un'armonia tra la percezione dell'esterno e le vibrazioni dello spazio interiore.
    Dicevo dell'accordo tra i passi e il pensiero. Questo era per Valéry il cammino: una «reciprocità tra l'incedere e il pensare» (réciprocité entre mon allure et mes pensées). Ma Valéry racconta anche di quando, durante una passeggiata, l'irruzione di un ritmo inatteso, musicale, andò a sovrapporsi al ritmo del corpo, creando una discordanza, e procurando una penosa e quasi inquietante «sensazione di estraneità» (sensation d'étrangeté pénible, presque inquiétante). Raccontando questo, Valéry doveva avere in mente l'analoga situazione di meraviglia e di angoscia che Mallarmé descrive nel poemetto in prosa Il demone dell'analogia. Una passeggiata, e a un certo punto l'improvviso risuonare nella mente di una frase il cui ritmo cerca di accordarsi con il ritmo del corpo in movimento: La Pénultième est morte. Una frase misteriosa che percussivamente torna a risuonare lungo il cammino, finché una proporzione inattesa, una corrispondenza, una reciprocità si stabilisce tra le immagini che accompagnano, come il soffio d'un ricordo, quella voce interiore - la corda tesa dello strumento musicale, la piuma, il ramo, la palma - e gli oggetti che di colpo appaiono dietro il vetro della bottega d'un liutaio davanti alla quale il poeta si è fermato, lungo una via di antiquari: di là dalla vetrina, vecchi strumenti musicali appesi al muro, per terra «palme gialle e ali sepolte nell'ombra, di uccelli antichi» (des palmes jaunes et les ailes enfouies en l'ombre, d'oiseaux anciens). Quale corrispondenza tra la frase, le immagini che l'accompagnano e gli oggetti dietro la vetrina? Sostare, come mi è accaduto di fare nel passato, intorno al racconto di Mallarmé, vuol dire interrogarsi sulla natura stessa dell'analogia, così come prende campo nell'esperienza poetica: proporzione che ha uno dei due termini poggiato nell'inesplicabile, nell'enigma, o anche nel vuoto di senso. Esperienza di un'approssimazione a quella soglia del linguaggio cui né il senso né la destinazione possono introdurre: ana-logia. Su quella soglia si può essere lambiti dall'angoscia d'una separazione. Separazione della lettera dal senso, dell'immagine dal significato, del nome dalla cosa. Ma la poesia, per usare l'espressione di Blanchot, è anche un «vegliare sul senso assente».
    Torniamo sui nostri passi. Che possono anche essere passi condivisi. Camminare con altri è esperienza consueta. Può essere un cammino nel silenzio. O nella parola. Il silenzio proprio si rafforza con il silenzio dell'altro, lungo il cammino, e quando la parola sopravviene, quel silenzio l'ha resa più leggera, forse più vera. La parola accompagna lo sguardo, è portatrice del legame tra il vedere e il ricordare, tra l'osservare e il riflettere. Nella fioritura del dialogo si posa la luce che trascorre lungo i minuti e lungo le ore, e il tu ha come una sua svagata e distratta protezione, non meno affettiva di quella che possiede nel raccoglimento di una stanza. Dialogare camminando: è scorgere insieme, ed è anche portare il visibile nelle pieghe della parola, l'aperto nello svolgersi e nel confrontarsi dei pensieri.
    Se accade di condividere il cammino con un cane, il vedere riceve come un suo particolare vigore, oppure entra in una sorta di risonanza in cui le cose si mostrano sotto altra luce, sotto nuovi angoli. E soprattutto sentiamo che altri occhi, altri sensi - in particolare l'odorato - frugano laddove il nostro sguardo sfiora appena: così in un cespuglio si scorgono fioriture o spine o bacche o rami secchi o insetti che altrimenti non avremmo visto, tutto sbalza come in un primo piano, una zolla di creta, la corteccia di un tronco, il colore di una pietra, la forma di un albero, un rametto spezzato, una ruga del terreno, un muschio ingiallito su un greppo, la figura bizzarra che il lichene disegna sul tronco di un cipresso. E anche l'ascolto si fa più acuto: al frusciare improvviso, preavvertito dal cane, può seguire il volo basso di un fagiano, o il levarsi di uno stormo. La natura mostra un fremito, un di più di energia vivente. Le apparizioni allora sono possibili. Come è accaduto ieri all'ora del tramonto, sul sentiero che salendo verso il poggio costeggia un vigneto: un capriolo leggero, alto, a pochi metri di distanza, ha fatto un salto raggiungendo una sua posizione sicura, da lì si è voltato come in uno stato di sospensione e di osservazione allo stesso tempo, guardando per pochi istanti verso di me e verso il cane, ma anche oltre noi due, in lontananza, poi è corso a grandi balzi verso il folto del bosco.

    Essere in cammino

    L'ospitalità: crocevia di cammini.
    Edmond Jabès, Il libro dell'ospitalità

    Il cammino è sorgente di metafore. Le forme dell'esistenza sono nominate spesso con figure attinenti al camminare. Il primo verso della Commedia di Dante raccoglie l'antica assimilazione del corso della vita a un cammino. Ma si tratta, nel caso dantesco, di un incipit che dice già il grande tema della peregrinatio, dispiegato poi, con variazioni di registri e di toni, nella meraviglia delle tre cantiche. Trascrizione nell'oltremondo di un pellegrinare che aveva sui sentieri terrestri della cristianità le sue stazioni, e i suoi riti. Un pellegrinare che è fonte di romanzesco - dal favoloso al picaresco al devozionale - e che allo stesso tempo permane come figura del cammino interiore che ha la salvezza come meta. Il narrare mediterraneo, con le sue fantastiche e mirabolanti avventure, dalle Mille e una notte fino al Decameron di Boccaccio, si costruisce via via, trascorrendo tra le lingue e i costumi, attraverso il raccontare che intrattiene nelle soste i pellegrini diretti alla Mecca o i mercanti giunti nelle varie città portuali delle coste e nelle città che sorgono lungo le grandi vie di passaggio.
    Ma c'è, nella cultura mediterranea, una figura che ha radice nel cammino e giunge a noi, oggi, con il richiamo forte di una scelta necessaria: l'ospitalità. È stato Edmond Jabès, con il suo ultimo libro, scritto nel 1990, Il libro dell'ospitalità, a proporre una riflessione che cade ora nel cuore del nostro amaro domandare intorno al tragico dell'epoca, cioè i naufragi di migliaia di persone nel Mediterraneo. L'ospitalità è appunto una figura mediterranea, e nomade. L'ospitalità, dice Jabès, è carrefour des chemins, «crocevia di cammini». Il nome dell'ospite nella lingua dei nomadi arabi, dei beduini, è «colui che cammina». Chi è in cammino è abitato da un pensiero nomade, ha lo sguardo rivolto all'orizzonte, di là, dunque, da ogni muro, da ogni steccato o recinzione, è sempre pronto a levare la tenda per intraprendere un nuovo cammino: per costui l'ospitalità è una cosa naturale, come la pioggia, o il tramonto, o lo stesso cammino. Si tratta di ereditare, proprio dalla tradizione mediterranea e nomade, questo modo naturale di vivere l'esperienza dell'ospitalità. Sentirsi in cammino, con altri che sono anch'essi in cammino, in una terra le cui variegate identità di cultura, di lingua, di storia, di costumi, sono solo una ricchezza non costrittiva ma inventiva, non escludente ma accogliente. Sentirsi in cammino, cioè non imprigionati in ideologie identitarie scambiate per radici, in egoismi mascherati da appartenenze. L'ospitalità è riconoscimento di un comune legame con la terra, con lo stare sulla terra - humus, umano -, sentendo il suo respiro, e camminando sotto un cielo che tutti sovrasta. Ancora, essere in cammino è stare dinanzi all'orizzonte, cioè nell'apertura dell'interrogazione, nell'inquietudine della ricerca. Non pensare che il cammino sia un percorso da misurare, da compiere, da soppesare e tesaurizzare. Il cammino diviene con noi, è sempre davanti a noi: Caminante no ay camino, / se hace camino al andar, ci ricordano i notissimi versi di Antonio Machado.

    L'ascesa al Mont Ventoux

    In un giorno di fine aprile del 1336 Francesco Petrarca, in compagnia del fratello Gherardo, salì fin sulla cima del Mont Ventoux, nelle Prealpi di Vaucluse, in Provenza. Era la stagione più idonea per un'escursione. C'è da pensare che anche a quell'epoca in inverno l'alta costa e la cima potevano essere nevose e nell'estate torride; frequente e sferzante, come ora, doveva essere il mistral, il vento di nord-ovest che fischia sulle pietraie in alto, dove non c'è più il riparo della vegetazione. Aspre le pendenze lungo i fianchi del monte (anche sulle strade dei secoli a venire si sarebbero fatte sentire, come sanno i ciclisti del Tour de France, che su quelle pendenze mettono alla prova le loro forze). Faggi e querce dovevano esserci, già in epoca medievale, nella parte settentrionale lungo la quale Petrarca compi l'ascensione. Ma anche forre, piccoli dirupi, passaggi rocciosi e aridi.
    La narrazione di Petrarca è allo stesso tempo storia «familiare» di un'escursione - indirizzata all'amico e confessore Dionigi da Borgo San Sepolcro, agostiniano, teologo e filosofo - e meditazione sui riverberi allegorici del cammino, o meglio dell'ascensione. Come se i passi sopra il sentiero e in mezzo al pietrame e tra gli intrichi selvosi e gli scoscendimenti rupestri avessero una duplicazione interiore, una loro trasvalutazione in quell'ordine che diciamo «cammino della vita». Non è tanto all'ascesi che l'escursione di Petrarca rinvia quanto alle difficoltà e alle distrazioni e alle insidie di ogni ricerca che abbia se stesso come terreno da affrontare e disvelare e conoscere. Per questo, da ogni punto del racconto si dirama una raffigurazione che al cammino di un giorno sovrappone il cammino di un'intera esistenza. La partenza all'alba, la meta, la sua lontananza, le asperità, le deviazioni e i ritardi, le distrazioni e gli indugi, la fatica, l'arrivo sulla cima, la contemplazione, il trascorrere del giorno che dopo lo zenit declina verso il tramonto e sprofonda nella notte di luce lunare, sono come i colori - il minio, il blu, il giallo oro, il verde erba - di una miniatura che apra un codice e illustri le stazioni della vita. E c'è un libro concreto, un libro portatile, che Petrarca ha con sé, donatogli dal destinatario della lettera-racconto, Dionigi: le Confessioni di Agostino, il libro della conversione verso l'uomo interiore. Il poeta, descrivendo, non vuole indugiare troppo sulle sfumature del proprio sentire - l'insidia dell'autocompiacimento è sempre incombente - e per questo lascia al lettore il compito di decifrare le risonanze, di dispiegare i significati: in una cultura dell'allegoria, il lettore sa cogliere appunto l'állon, l'« altro », nell'agoreúein, nel «dire».
    L'autore è invece concentrato sulla descrizione dell'ascensione montana: la partenza all'alba, la ricerca di sentieri meno ardui, che però allungano il percorso, il confronto con il passo del fratello, più diretto e meno tentato da illusorie scorciatoie, il raggiungimento infine della meta, la vista dall'alto, lo spettacolo delle Alpi, dell'onda di monti e di avvallamenti che portano verso l'Italia, il silenzio del ritorno, la luna piena che nel frattempo si è levata nel cielo e accompagna gli ultimi passi. Ma è nel momento dello sguardo dall'alto che cammino fisico e cammino interiore si congiungono: lo sguardo sul paesaggio, se si profonda nella contemplazione della bellezza, rischia di distrarsi da quel che più conta, che è lo sguardo su di sé, sulla scena della propria interiorità. La fascinazione della lontananza, l'incanto del visibile, il dialogo con l'orizzonte rischiano di dislocare l'ascensione fuori dal suo significato, consegnandola al piacere della narrazione. Perché sin da subito il lettore si guardi da questo privilegiamento della lettera sullo spirito, del cammino fisico su quello spirituale, l'epistola va verso i futuri lettori con un titolo, De curis propriis, che è come rubricare l'ascensione sotto la voce cura di sé.
    Ecco, dunque, lo sguardo richiamato: dalla tentata complicità con la bellezza verso un'altra complicità, quella del libro con la vita interiore. Infatti, proprio quando sente che lo sguardo sulla bellezza del paesaggio può distrarlo da sé, il narratore apre il libro che è lì, prossimo e soccorritore, le Confessioni. Ed ecco ad apertura un passo del libro X (8, 15): Et eunt homines admirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et Oceani ambitum et gyros siderum et relinquunt se ipsos, «E gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le vaste correnti dei fiumi, l'estensione dell'Oceano, le orbite degli astri, ma poi trascurano se stessi». Un richiamo esplicito a rivolgere gli occhi dalla bellezza del paesaggio verso se stesso. Ecco infatti il poeta che subito rivolge gli occhi interiori verso se stesso (in me ipsum interiores oculos reflexi): di colpo la fisica ascensione si fa figura dell'altro faticoso cammino verso un'altra meta.
    Lassù in alto - nella luce che trascorre sulle colline di Provenza, rivelando il filo grigioargento del Rodano, i torrioni del Luberon, le macchie rosa dei villaggi -, le parole di Agostino risuonano in tutta la loro severità. E dischiudono il rimbalzo di gesti, il richiamarsi di libri, uno nell'altro, in una catena di rivelazioni che hanno al centro la conversione. La conversione è infatti il rifiuto dell'esteriorità, del suo ingannevole fascino, per un ritorno presso di sé (Noli foras ire, in te ipsum redi, aveva scritto sempre Agostino in un altro libro, La vera religione). Il gesto di Petrarca che apre le Confessioni replica il gesto dello stesso Agostino che aprì il libro, nel piccolo giardino, dinanzi all'amico Alipio, dopo aver sentito una voce di fanciullo, o forse di fanciulla, che giungeva da una casa vicina e diceva, come cantasse, tolle et lege, «prendi e leggi», e ad apertura, ecco sotto i suoi occhi il versetto dove Paolo (Epistola ai Romani, 13, 14) invita a rivestirsi delle vesti di Cristo, abbandonando i richiami della carne. Agostino, nell'aprire il libro, replicava a sua volta il gesto di Antonio abate in Egitto che, stando al racconto di Atanasio, aveva aperto il Vangelo nella pagina (Marco, 10,21) dove c'è l'invito ad abbandonare le cose del mondo (Si vis perfectus esse, vade et vende omnia). Per Petrarca l'apertura delle Confessioni in cima al monte, dinanzi al fulgore del paesaggio, è il gesto che sancisce lo spostamento dello sguardo verso la vita interiore. Sarà forse da questo momento che le Confessioni diverranno il libro della sua cura spirituale. Nel Secretum, ad Agostino che richiama a un certo punto il proprio libro, Petrarca così replicherà: «ogni volta che leggo i libri delle tue Confessioni, commosso da due contrari sentimenti, dalla speranza cioè e dal timore, non senza liete lagrime mi sembra talora di leggere non la storia d'altri, ma del mio stesso peregrinare [non alienam sed propriam meae peregrinationis historiam]». La propria storia nell'altrui storia, il proprio cammino nell'altrui cammino: il libro è il luogo in cui la voce dell'altro diventa la propria voce. Il dialogo di Petrarca con Agostino mette in campo, intorno al tema della conversione, un confronto che è rimbalzo di pensieri, rispecchiamento di sé nell'altro, confidenza ed esame. Agostino è talvolta la voce interiore di Petrarca. Ecco che in un altro passo del Secretum sembra tornino proprio le immagini dell'ascensione al Mont Ventoux, compiuta alcuni anni prima della composizione del dialogo spirituale:

    Frugati dentro severamente [Excute pectus tuum acriter], e troverai che tutto ciò che sai, se lo paragoni a quanto ignori, pareggia la proporzione di un ruscello destinato a seccarsi per gli ardori estivi, confrontato con l'Oceano. Benché, anche il conoscere molte cose, che mai rileva se, quando bene abbiate apprese le dimensioni del cielo e della terra, l'estensione del mare e le orbite degli astri, le virtù delle erbe e delle pietre e gli arcani della natura, siete ignoti a voi stessi?

    Ecco opposte le due conoscenze, messi di fronte i due mondi. Per un invito alla sola esplorazione che conti, quella degli spazi interiori, dei cieli e dei mari dell'io. Eppure quanto orgoglio insieme religioso e antropocentrico in questo rifiuto dello sguardo creaturale, in questo rifuggire dall'indugio sulla vita delle cose, in questo negarsi l'attenzione al respiro della natura manifesta e della natura nascosta! Quanta sicurezza in questo disprezzo per il visibile e per l'invisibile! Quanto attaccamento al sé in questavariante del contemptus mundi! Molto lunga e aspra sarà la via che dall'Umanesimo alla modernità cercherà una composizione tra scienza e conoscenza interiore. E tenterà di affacciarsi sui riverberi della relazione tra l'io e il cosmo, tra la coscienza e gli altri, tra il sapere e l'introspezione. Un cammino che riconoscerà come l'ignoto di sé a sé è inesauribile, insondabile. E vedrà come quel che di noi conosciamo è dagli altri che ci giunge, è da un tu che prende figura e vita. Ogni corpo è fatto anche d'altri corpi, ogni sé ha una tessitura i cui fili sono i volti degli altri, ogni coscienza è lo spazio in cui risuonano, con le voci degli altri, le voci, e le forme, del visibile.
    Il cammino di Petrarca, mentre compendia nell'ascesa sul monte la fisica rappresentazione del viaggio interiore, declina la peregrinatio medievale al di fuori del movimento verso l'ultima visione, o verso un approdo di devozione, come quello che portava e porta i pellegrini verso Santiago di Compostela. L'apertura del libro, lassù sul Ventoux, in mezzo allo spettacolo della natura che si dischiude, inaugura una concezione del cammino come interrogazione di sé, come esame del proprio andare nel mondo. Il poeta qui non segue il ritmo di uno sguardo crea-turale che nell'indugio sul visibile può trovare una presenza dell'invisibile e, francescanamente, può trasformare in una «lode a Dio», in una laus Deo, la complicità con l'apparire. È il Canzoniere il tempo di questa ricerca d'armonia, o almeno di corrispondenza, tra la luce del visibile — luce che veste il corpo di Laura — e l'affanno di un domandare sul tempo del declino, sulla sparizione, sulla bellezza sottratta alla contemplazione.
    La ricerca d'armonia tra forma interiore e forma del visibile, propria della riflessione estetica di Ficino, del suo teologico neoplatonismo, lascerà il posto, con l'invenzione della prospettiva, al trionfo del visibile. In particolare Leonardo, con gli studi sulla prospettiva aerea, con la ricerca su come dipingere la lontananza, e con la suprema esperienza della propria pittura, darà vigore e autonomia allo sguardo sulle forme del visibile, sui gradi e i modi del suo apparire. Comincerà la grande storia del paesaggio nell'arte, alla cui vicenda di splendente autonomia, per via dei leonardeschi, daranno grande apporto i pittori veneti.
    Questo ignoto che ci appartiene è smisurato, intransitabile nella sua estensione, inconoscibile nei suoi confini. Ecco, a questo proposito, un altro frammento di Eraclito (A 55), che ha per fonte Diogene Laerzio: «I confini dell'anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l'espressione che le appartiene». Le strade della ricerca di sé non portano a nessun confine. Eppure percorrere quelle strade vuol dire stare nell'orizzonte della conoscenza. Vuol dire vivere l'esperienza del limite che dialoga con un confine sottratto a ogni possibile transito. L'espressione dell'anima, cioè la sua lingua - qui il termine greco è lógos - ha tale profondità che nessuna via può condurre al suo fondo. Come l'orizzonte, si ritira dinanzi a ogni nostro passo. Ma stare in cammino verso quell'orizzonte è atto di conoscenza.

    Il viandante, il ritorno

    Nella rappresentazione del cammino le immagini del pellegrino e del viandante hanno da sempre suggerito una meditazione sull'esistenza in generale, sulla sua origine, sul suo approdo. Non sminuendo - e questo è proprio della poesia - l'energia visiva e la concretezza delle immagini. Ecco alcuni versi di Rilke, dal Libro del pellegrinaggio, compreso nel bellissimo Libro d'ore:

    Aber ich habe ihren Zug gesehn;
    und glaube seither, dass die Winde wehn
    aus ihren Manteln, welche sich bewegen,
    und stille sind wenn sie sich niederlegen -:
    so gross war in den Ebenen ihr Gehn.

    Ma li ho visti nel loro camminare:
    e perciò credo che respiri un vento
    da quei loro mantelli in movimento,
    quieti sol se si posano per terra:

    sì grande era nei piani il loro andare.

    Prima ancora, nella poesia romantica tedesca, la rappresentazione del ritorno aveva modulato sia la felicità di un ritrovamento affettivo e tutto interiore della dimora, dopo l'esilio e la lontananza, sia la trasvalutazione metafisica del cammino: la vita stessa come tensione verso l'origine, come ritorno a quello Heim che per i poeti era la physis, la sacra natura. Benjamin aveva ben compendiato questo movimento: «l'origine è la meta» (Ursprung ist das Ziel). Ma sostiamo un momento nella poesia di Hölderlin. Se la meta, lungo il cammino, alimenta il pensiero dell'attesa, con il sottile piacere della sospensione e della meraviglia, il ritorno evoca la quiete, la riconquista possibile di quello sguardo incantato che era proprio dell'infanzia. Nelle due liriche dedicate al Viandante - la prima del 1797, inviata per lettera a Schiller, la seconda, rifacimento della prima con molti ritocchi, del 1800 - con la dolce eleganza di un'immaginazione che è allo stesso tempo pensiero profondo, il poeta mostra come il cammino nelle terre lontane, dal deserto africano ai ghiacciai del Nord, faccia acuto il desiderio del ritorno, proprio perché il ritorno è approdo alla quiete e al silenzio. Ed è ritrovamento di una natura che permane nella sua sacra integrità e bellezza. Anche se i volti familiari sono nel frattempo diventati estranei, anche se la sparizione ha preso nel suo vortice figure che un tempo erano prossime («... Il tempo così molte cose / lega, taglia ...», ... So bindet und scheidet I Manches die Zeit ...), la natura continua tutt'intorno a fiorire. Il ritorno è l'incontro di questo stare della natura nella sua luce, di questa sua presenza carica di doni, ed è l'incontro del suo ritmo, opposto al declino e al mutamento dell'uomo: un ritmo che, riconosciuto, è principio che dischiude il senso di un'appartenenza profonda di sé vivente al mondo vivente. Questo ritorno ha cancellato ogni âlgos, ogni «dolore» della lontananza: è gioia che abolisce lo stesso impietoso trascolorare del tempo, la stessa malinconia per la transitorietà o per il mai più (in questo ben diverso dal movimento del ritorno messo in scena da Leopardi nelle Ricordanze):

    Noch gedeihn die Pfirsiche mir, mich wundern die Blüten,
    fast, wie die Bäume, steht herrlich mit Rosen der Strauch.

    Schwer ist worden indes von Früchten dunkel mein Kirschbaum,
    und der pfliickenden Hand reichen die Zweige sich selbst.

    Ausgegangen von euch, mit euch auch bin ich gewandert,
    euch, ihr Freudigen, euch bring ich elfahrner zurück.
    Darum reiche mir nun, bis oben an von des Rheines
    warmen Bergen mit Wein reiche den Becher gefüllt!

    Peschi in rigoglio, ancora, e fiorite mirabili, e cespi
    di rose stanno splendidi simili quasi ad alberi,
    e il mio ciliegio scuro s'è fatto pesante di frutti,
    i rami si protendono alla mano che coglie.

    Da voi io sono uscito, con voi io mi sono mutato,
    a voi torno, gioiosi, più ricco d'esperienza.
    E mi si offra dunque la coppa di vino, dei caldi
    monti del Reno, colma mi venga offerta.

    L'elegia di Hölderlin sul viandante ci dice di un cammino che è interiore custodia di un legame tra il nostro respiro e il respiro della terra, tra il nostro ritmo - che conosce un solo fiorire - e il ritmo della terra che torna ciclicamente a fiorire, tra l'esperienza necessaria della lontananza e la preservazione di un sentire e di un vedere, propri del fanciullo, in grado di ascoltare il vivente, in tutte le sue forme.

    Raccontare il cammino

    Fantasmagorie del cammino abitano la poesia e la narrazione. Spesso la figura del cammino sfuma nell'altra, più estesa e comprensiva, del viaggio. Partenze - partenze con addio o senza addio - e ritorni trascorrono dall'epos all'elegia classica, e giungono, con mille variazioni, nella poesia moderna. Baudelaire ha dato nel Viaggio una rappresentazione dell'affanno e del vuoto che accompagna colui che un giorno parte, e ha descritto il movimento verso l'altrove, ma anche l'abrasione dell'attesa, il succedersi del sempreguale, la pulsione verso l'ignoto («Ma i veri viaggiatori partono per partire! »). Il cammino non coincide con il viaggio: non muove, come talvolta il viaggio, da quella che Baudelaire definiva «malattia», e cioè l'«Orrore del Domicilio», si attesta nell'orizzonte corporeo di un rapporto dei sensi, di tutti i sensi, con il visibile. Nel cammino ogni amplificazione, propria del viaggio, si spegne, e il corpo, con i suoi sensi, il desiderio, con il suo ventaglio di direzioni, riprendono la loro discrezione, il loro passo: non diversamente dal tempo che si dischiude con il leopardiano «sedendo e mirando», il tempo del cammino a piedi è ancora in armonia con il tempo della rappresentazione che i sensi possono dare (anche se cavallo, carrozza, bicicletta, auto, treno e persino aereo o nave spaziale hanno via via, ciascun mezzo a suo modo, disegnato nuove forme, e nuovi tempi, del vedere).
    L'esaltazione di una «natura selvaggia» (wildness), non ancora sottoposta a civilizzazione, non piegata alle strategie dell'utilità e dell'urbanizzazione, avvia nel cuore dell'Ottocento americano la cultura dell'escursione all'interno di paesaggi ancora incontaminati, ma diffonde anche l'idea che attraverso la difesa dei grandi spazi naturali si possa riuscire a preservare il mondo stesso dal suo declino: in wildness is the preservation of the world («dalla natura selvaggia dipende la sopravvivenza del mondo»), dice Henry David Thoreau a un certo punto del suo racconto-manifesto intitolato Camminare. Quel che presso i romantici europei aveva avuto la forma di una mitografia dell'incontaminato o primitivo e di una critica della civilizzazione che allontana dalla natura (per restare al paesaggio americano, pensiamo al René di Chateaubriand e alle «californie selve» di Leopardi), nei decenni ultimi dell'Ottocento, anche grazie alla presenza poetica di Whitman, diventa testimonianza di una necessità: voler resistere all'incessante distruzione del paesaggio e degli ecosistemi messa in opera dalle culture del consumo già in via di diffusione.
    Camminare e aver cura della natura: una relazione di equilibrio. Che è anche critica di un'altra incrinatura: quella che, esaltando l'ardimento e la sfida, spettacolarizza e mercifica il rapporto con la natura, con la sua bellezza solenne o impervia.
    Raccontare il cammino. La scrittura è contagiata dall'atto del camminare, talvolta il ritmo stesso del narrare ha un passo che è in accordo con il passo di colui che cammina. Un accordo analogo a quello che Rousseau, nella quinta promenade delle sue Fantasticherie di un passeggiatore solitario racconta di aver provato quando, nel tempo in cui soggiornò all'isola di SaintPierre, in mezzo al lago di Bienne in Svizzera, spesso, standosene su una riva solitaria, concentrava tutti i sensi sul ritmo delle onde, entrando così in uno stato di calma meditazione.
    Può invece succedere che il cammino si trasformi in un crescendo di stupore, in un progressivo mostrarsi del misterioso, fino al concretarsi della visione. Si pensi a due racconti di Poe come Le terre di Arnheim e Il villino di Landor. In quelle pagine, il cammino verso la meta è l'attraversamento di una natura rigogliosa: discese lungo acque incantate, musica che giunge da sorgenti invisibili, prospettive rupestri, anfiteatri cinti da montagne violacee. L'armonia tra boschivo e coltivabile, tra selvaggio e artificiale, l'alternarsi del dirupo e del giardino, infine le architetture fiabesche, fanno sfumare l'incanto dell'apparizione nell'onirico. Il cammino è confine tra il vedere e il sognare.
    Ma c'è, nel racconto del cammino, anche un piacere del romanzesco, dell'avventuroso aprirsi di incontri, di voci, di apparizioni: dal mettersi per strada, con il proprio violino, avviando così la catena di avventure per sentieri e per città lontane come accade nelle Storie di un perdigiorno (in tedesco, un Taugenichts, un« buonoanulla») di Eichendorff, alla suprema forma che assume la «voglia di vagabondare» - la tedesca Lust zum Wandern - nello sguardo e nella scrittura di Robert Walser. La passeggiata di Walser è, quanto a tono del narrare e a stile del vedere, il miracoloso incontro della grazia con l'ironia, della leggerezza dello sguardo con la luce delle strade e con la bizzarria delle apparizioni. Il mostrarsi della vita quotidiana, delle sue figure - il professore, la banca, il sarto, la trattoria, il maestoso albero di noce dinanzi alla casa del contadino, il cane, la fanciulla, il bosco -, suggerisce un pensare e un fantasticare che insieme è incantamento e dialogo arguto e discreto con le forme dell'accadere, svagata meditazione sull'esistenza, variazione teatrale di un dire che mima toni e registri gravi o umili, rappresentazione di una felicità del vedere sbalzata sopra una tela di malinconia. Il racconto, nell'aprirsi dello sguardo sulla levità dell'apparire, lascia intatta l'intimità. Alla quale a un certo punto il passeggiatore allude, nell'ora di un tramonto solenne, e mimando una réverie anch'essa solenne:

    Guardavo attento a quanto v'era di più piccolo, di più modesto, mentre il cielo pareva inarcarsi alto e scendere profondo. La terra si faceva sogno; io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa ... Io non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d'amore credetti di dover capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l'uomo interiore.

    Questa conoscenza di sé nel cammino può anche avvenire attraverso la cancellazione di ogni richiamo seduttivo del paesaggio, anzi attraverso un gelido mostrarsi delle cose, e nell'affrontamento scabro delle apparizioni, nella sfida corporale che solo l'attesa della meta sostiene. Ecco il bellissimo diario di Werner Herzog, Sentieri di ghiaccio, che annota tra il 23 novembre e il 14 dicembre 1974 i minuziosi accadimenti visivi e percettivi intercorsi lungo il cammino che da Monaco porta fino a Parigi. Per il regista, all'origine della decisione c'è stata una certezza: se fosse andato a piedi fino a Parigi la sua amica Lotte Eisner, gravemente ammalata, sarebbe sopravvissuta. E c'è stato un proposito: stare solo con se stesso. Le pagine si riempiono di oggetti, di nomi di paesi, di figure sorprese sulla soglia di case, lungo strade, dentro osterie. Nessun indugio naturalistico. Nessun compiacimento del vedere. Terre nere, trattori immobili su campi innevati, volti di contadini, aie fangose, coltivazioni imbevute d'acqua, pascoli acquosi, nembi che avvolgono villaggi, fumi che salgono da pianure nebbiose, pernottamenti in fienili e in case abbandonate, vapori nell'aria fredda, tormente di neve, e uccelli, tanti uccelli, taccole, poiane, aironi, e voli assidui di corvi, e su tutto il prender forma di una cognizione di sé che muove dai piedi, dalle ginocchia, dalla fatica del cammino. Il tardo autunno da stagione diventa una condizione dell'esistenza universale. Il cammino si fa conoscenza, ma attraverso un'implacabile spoliazione del superfluo estetico e comunicativo, e anche visivo.
    Passare dal diario di Herzog a un altro libro del cammino, La strada di Cormac McCarthy, è come passare da una fredda stagione a un tempo privo di stagioni, dal grigio e dal bianco a una tavolozza priva di ogni colore, anzi della stessa luce. Narrazione di un mondo postumo. Due figure in cammino, un uomo e un bambino, padre e figlio, nell'ultimo stadio di un'apocalisse che ha distrutto città, coperto di nera polvere strade, edifici, campagne, fabbriche, sospingendo i sopravvissuti verso una peregrinazione oscura, circospetta, violenta. Rovine e cenere, cieli sporchi, detriti, resti fumiganti, ombre di predoni che vagano come spettri. Le variazioni tonali minime non alterano lo sfondo nerofumo. Lo scarto di McCarthy nei confronti delle scritture del cammino è forte, come è forte lo scarto nei confronti della tradizione americana on the road, narrativa e filmica. La lingua infatti è come bruciata anch'essa, portata al grado zero del dicibile, ingorgata nell'impossibilità di comunicare se non quel che attiene alla sopravvivenza, ora per ora: il cibo, la notte da scavalcare, i passi da compiere nel pericolo, tutti i piccoli gesti fatti per non soccombere. Tutto è dentro l'acre odore di cenere: la tanichetta di plastica per l'acqua, la coperta, la tazza, il carrello da supermercato, e quel che si incontra lungo il cammino, come scatoloni, macchine carbonizzate e arrugginite, cadaveri inceneriti, acquitrini prosciugati, rottami, macerie di fabbricati, matasse di fili caduti dai pali lungo nere carreggiate. In questo inferno si tratta di continuare il cammino, portare con sé il fuoco, l'esile fiamma di una possibile sopravvivenza. Ma il padre soccombe, vinto dal gelo e dalla febbre, e vuole che il bambino continui da sé il cammino: è allora che nell'aria gelida il registro dell'atonia si scioglie, e si affaccia la compassione, la lingua del pianto, e dell'addio.

    Per una grammatica dell'interiorità: l'attenzione, l'attesa

    L'attenzione è il silenzio dei pensieri che si fa ascolto e sguardo. L'apertura di un dialogo muto con le cose. O la direzione di uno sguardo che ha scelto la sua meta e su di essa converge con l'abnegazione di chi sa sacrificare ogni indugio, anche piacevole, per rispondere a una chiamata, a un dovere. L'attenzione può richiedere un esercizio preparatorio, un atto o persino un rituale che la faccia sgorgare, con la limpidezza di una sorgente, dal groviglio del sentire, separando dal nugolo dei pensieri un solo pensiero, il pensiero che è tutt'uno con la cosa che scegliamo di osservare o con la parola che decidiamo di ascoltare o con il gesto che vogliamo compiere. L'attenzione è invito di tutti i sensi a convergere verso un solo punto, verso una sola relazione. Anche se questo punto, questa relazione, può fiorire - nell'arco visivo o auditivo - sventagliandosi, moltiplicandosi. È quello che diciamo «stato di attenzione». Questo stato di attenzione che trascorre sul molteplice e sul fuggitivo, è proprio, ad esempio, del cammino. Riapriamo Robert Walser, in una pagina della Passeggiata in cui, con didattica postura, spiega al sovrintendente alle tasse l'utilità del passeggiare:

    Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla, un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri.

    Ma non solo la vista può essere il senso che attrae a sé tutti gli altri sensi, riverberando su di essi, sulle loro specifiche funzioni quel che essa percepisce, ma ogni senso, a sua volta, può essere protagonista nell'attenzione, aprire uno stato di attenzione: l'udito può fare del suono la sorgente prima di un immaginare e sentire, di una vibrazione interiore (nell'ascolto musicale l'attenzione si sventaglia in intrecci con l'abbandono, la divagazione, e con una festa del pensare); il tatto nell'attenzione può trasformare il rapporto con i corpi e con gli oggetti in una percezione intensiva, e dunque in un forte sentire; il gusto può, tramite l'attenzione, stabilire con il suo oggetto un rapporto di piacere o di giudizio o liberare uno zampillio di evocazioni e far rinascere - come ha meravigliosamente messo in scena la narrazione di Proust - un tempo che più non c'è, con le sue iridescenti presenze; l'olfatto, che, a differenza di quanto accade in alcune specie animali, nella specie umana è attenuato, se messo in rapporto con l'attenzione può a sua volta generare ricordi e sensazioni.
    L'attenzione ha un rapporto ambiguo con la distrazione: la suppone come situazione da cui muovere, quasi un prima informe senza il quale non può essere se stessa, e allo stesso tempo la controlla, tiene a bada, sconfigge. Dalle sue insidie e minacce incombenti si difende. Questa condizione è tale perché l'attenzione, come si sa, può essere, come il ricordare, volontaria o involontaria. Così nello spazio dell'interiorità l'attenzione ha una duplice e in certo senso contraddittoria funzione: da una parte allontana il tumulto dei pensieri, o lo stesso procedere ordinato dei pensieri, per imporre una relazione con l'esterno, con un accadimento, con un suono, con una parola, con un oggetto o linea o colore, dall'altra richiama tutti i sensi - e dunque anche i pensieri, le forme e i modi del pensare - intorno alla scelta esclusiva. Non c'è infatti attenzione se non è accompagnata dal vigore di un sentire. E tuttavia c'è anche quella che potremmo chiamare, in analogia a quanto Agostino diceva dei cinque sensi, un'«attenzione interiore»: come l'occhio interiore, o l'odorato interiore, l'attenzione interiore esplora, scruta, fiuta, osserva dentro, scende nel groviglio del sentire per distinguere e osservare da vicino e intendere. L'attenzione è sorella della concentrazione e della meditazione.
    È anche sorella dell'attesa: per comune radice, per affinità di suono e d'origine, ma anche per la tensione che con essa condivide. Tuttavia se l'attenzione privilegia il visibile, l'attesa ha come obiettivo del suo sguardo, del suo pensiero,l'invisibile. Se l'attenzione fissa quel che appare, nelle sue linee, nei suoi colori, nel suo pulsare, l'attesa fissa anch'essa qualcosa, qualcosa che tuttavia vive della sua lontananza, del suo non apparire. L'attenzione è, in una poetica del pensiero, il realismo, l'attesa l'immaginazione. L'una ha un patto con la presenza, l'altra con l'assenza. L'attenzione respira nel cerchio dei sensi, l'attesa va oltre, rompe la prigionia del visibile, e del possibile: tutto può mostrarsi, tutto può accadere, e niente si mostra, niente accade. Nell'attesa il pulviscolo del possibile si allea qualche volta con la minaccia del mai più. Il non-ancora può stendere le sue ali scure sui pensieri, e allora l'attesa si fa contigua alla noia, tuttavia una noia fiorita di immagini. La mancanza è un filo ricorrente nella tela dell'attesa, ma nel suo dialogo con la speranza dimette la sua drammaticità, attenua il suo assillo, e può diventare persino una compagnia accettabile lungo il trascorrere dei giorni.
    L'attesa piega il tempo stesso fuori del suo ordine, fino a sospenderlo, o a renderlo trasparente, impalpabile, comunque lontano. Il prima e il dopo si separano, si allontanano l'uno dall'altro, si fanno estranei e non comunicanti, e in mezzo si posa l'attesa, in quel vuoto di tempo e di azione, in quella suprema, bianca esitazione, in quel deserto dove nulla succede. A meno che non si levi, prima di sera, un arcobaleno, con uno spettro di colori che presto si dissipa, ma che intanto ha detto di un altro mondo, di un altro tempo. Ha detto di un annuncio. La lingua dell'attesa ha un alfabeto di annunci. Attendere è decifrare, con pazienza quotidiana, questi annunci.
    Chi ha vissuto un'infanzia e un'adolescenza in terre di povertà e di abbandono, o nelle difficoltà del sopravvivere, o nel chiuso di una società priva di promesse, sa come l'attesa possa diventare non un sentimento tra gli altri ma il respiro stesso del sentire, o perlomeno una vera compagna che sostiene e allevia e sospinge in avanti. Si vive di attesa, l'attesa è il sottofondo di ogni pensiero, ma questo non dà il senso del vuoto, motiva anzi il succedersi dei giorni, le azioni, le letture, gli stessi incontri. L'attesa, che in quel caso si allea con la speranza, fa preziosi i legami del momento, li rinsalda con il tremore del transitorio, e lo stesso paesaggio desta un'affezione che resisterà nel tempo. Abitare una terra nell'attesa è scrutare le sue linee, apprendere le luci delle sue stagioni, riconoscere i suoi venti, i colori del suo mare.
    Attendere è tendere verso la presenza delle cose e delle persone con un'energia consapevole di un passaggio che verrà, di un distacco che porterà lontano. Non ci si prepara alla separazione ma ci si preserva per il tempo della separazione. Infine, un giorno, è la partenza. Quel giorno non cancella l'attesa, ma la dispiega in una miriade di altre attese. Senza questo pulviscolo di attese i giorni sarebbero eguali. Il desiderio si priverebbe del suo primo alimento, anzi del suo stesso respiro. Che è appunto l'attesa.

    (Il cielo nascosto, Bollati Boringhieri 2016, pp. 152-172)


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