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    Il poema di Dante:

    la storia nell'eternità

    Anna Maria Chiavacci Leonardi *


    (moderatore) Davide Rondoni:

    Questo incontro ha per tema Dante, la sua opera. Sono molto contento che ci sia questo incontro e credo che lo sarete anche voi, avendo la pazienza di ascoltare, perché la persona che oggi ci parlerà di Dante è sicuramente una delle voci più autorevoli della critica dantesca; per questo quarto d’ora che siamo stati insieme, anche una delle voci più simpatiche della critica dantesca. La professoressa Chiavacci Leonardi che insegna all’università di Siena, è autrice di molti studi su Dante; il primo e il più importante ha convinto molto come titolo: «La guerra della pietate, saggio per un’interpretazione del Paradiso», del 1979. Dal 1991 è l’autrice del commento a «La Divina Commedia» de I Meridiani di Mondadori, la collana italiana più prestigiosa. Questo suo lavoro ha fatto in modo che la sua opera sia oggi uno dei riferimenti più importanti sia per gli studiosi, sia per tutti coloro che si avvicinano all’opera di Dante.
    Sono molto contento anche perché, come potrete rendervene conto personalmente, il modo di guardare e il modo di leggere l’opera di Dante della professoressa ha una particolare assonanza con il tema del Meeting, con quello che ci siamo detti in questi giorni. Quando si pensa alla Divina Commedia, si pensa ad un’opera in cui il tempo e l’eterno sono messi sotto il fuoco dello sguardo di un uomo come Dante, che era un cristiano che amava l’avventura, e che, per questo, guardava il tempo nel suo incardinarsi nell’eterno, guardava il tempo così profondamente, così appassionatamente che non poteva che vederne l’immagine eterna. Questo ha a che fare con questi giorni, perché è lo specifico, l’originale dell’opera di Dante, perché è lo specifico e l’originale dell’avvenimento cristiano, che permette di guardare la storia nei suoi dettagli, avrebbe detto Pasternak, nei suoi particolari in questo modo. Sono molto contento, quindi, perché c’è una sintonia nello sguardo che la professoressa ha portato dell’opera di Dante da cui noi possiamo solo imparare. Ascoltiamo quindi la sua relazione, poi se ci sarà tempo e modo potremo anche discutere un pò.

    Chiavacci Leonardi:

    Grazie di questa introduzione così lusinghiera, e forse anche un pò caricata nell’insieme, però la ringrazio molto. Vorrei cominciare da questa considerazione: questo poema scritto da un fiorentino ormai circa sette secoli fa, in un tempo che appare molto lontano dal nostro, è oggi uno dei libri più diffusi nel mondo dopo la Bibbia. Non è sostenuto dalla lingua, che non è certamente una delle più note nel mondo, né dalla nazione, che non è tra le più potenti; tuttavia è tradotto in tutte le lingue, quasi tutte, nei paesi che abbiano una qualche struttura culturale, anche di popoli molto lontani per tradizione e cultura, come può essere il vietnamita e il coreano, dove si intraprendono traduzioni della Commedia. Studiata nelle università con grande passione anche in quelle orientali, come in Giappone, dove ci sono specialisti di Dante, come in quelle occidentali. Ecco, c’è quindi da chiedersi il segreto di questo testo, che non è letto come può essere un antico come Omero, ma viene affrontato e discusso come si affronta un contemporaneo, che ha i nostri stessi problemi e vive le nostre passioni. La risposta a questa domanda forse si può trovare in una considerazione che comunemente non viene fatta: questo poema, nato alla fine dell’età medievale, è di fatto la più alta, la più compiuta espressione, in forma di grande poesia, di quell’identità culturale che nel medioevo si costruì, e che costituisce quella che è detta la civiltà occidentale, civiltà nata dall’incontro e dalla fusione delle due grandi tradizioni: la greco-romana e l’ebraico-cristiana. Di quella concezione dell’universo e dell’uomo, nella quale affonda le sue radici il nostro mondo moderno, si fece voce il grande poema dantesco. Questo poema offre da una parte l’idea, o meglio, trattandosi di una poesia, l’immagine di un universo intelligibile, armonioso, regolato da leggi finalizzate, fatto a misura della nostra stessa mente; dall’altra parte offre l’immagine di un tempo storico, il tempo di quello spazio, che si muove diretto ad un fine, secondo un suo interno ordine. Questo fine come si vedrà e si dirà più avanti, oltrepassa insieme il tempo e lo spazio e li racchiude entrambi. Ora, quel razionale ordine del mondo che è specchio della mente del suo Fattore, che regge infine tutta la struttura del poema, dal principio alla fine, è la grande eredità della filosofia greca, ma in quel tempo storico, che entro l’universo si svolge, si muove un essere libero e immortale, quella persona umana il cui valore primario e intangibile, dovuto all’immagine di Dio che esso porta con sé, è il segno proprio del Cristianesimo. Queste due realtà sono ancora oggi alla base di ogni aspetto del vivere civile, della scienza come dell’etica e della politica, anche se la coscienza comune in genere non ne è consapevole. Ciò coinvolge anche popoli che non appartengono alla civiltà dell’Occidente, in quanto il mondo è ormai, di fatto, un’unica realtà; infatti, sull’intelligibilità dell’universo si fonda tutto lo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico del nostro, e solo nel valore assoluto della persona trova giustificazione quella dichiarazione dei diritti umani, che è accettata oggi come base della convivenza civile da quasi tutti i paesi del mondo.
    Queste due certezze, fino a questo tempo radicate nella coscienza stessa dei popoli dell’Occidente, non sono più, oggi, così sicure; il mondo sembra dilatarsi e sfuggire alla mente dell’uomo proprio mentre ne è conquistato, e la dignità della persona umana è calpestata nei modi più efferati, proprio mentre ufficialmente è proclamata nei diritti umani. Le giovani generazioni si sentono come sospese sull’orlo di questo discrimine, avvertono di non avere più quella sicurezza che sosteneva i loro padri. Il poema di Dante ci presenta, in una costruzione in sé perfetta, sia la singolare bellezza dell’ordine razionale dell’universo, sia la straordinaria qualità della persona e dell’uomo, unico essere libero nella determinazione che regola ogni moto del cosmo. Ed è presente in una forma in cui il suo carattere primario è quello di una totale certezza: il metro stesso, la terzina incatenata, la sintassi sempre perfettamente conclusa, la cadenza stessa del ritmo ternario, racchiudono dal primo all’ultimo verso nella loro solidità, quasi di un cristallo, un mondo sicuro, dove la nostra mutevole vita, pur vivamente presente come un direttore della commedia sa, in ogni sua sfumatura fino alla più drammatica, trova il suo senso e il suo valore. È quel fine posto al di là del tempo che dà alla narrazione della commedia il suo carattere singolare e unico. Essa racconta, infatti, le vite umane dalla riva oltre la storia; tutti gli uomini di Dante, come i lettori sanno, vedono la loro vita all’indietro, ricordando i gesti compiuti nel tempo, quei gesti, talvolta uno solo e brevissimo, che decisero della loro sorte; di quei gesti è intessuto tutto il poema, nel quale ogni lettore riconosce il suo e ne misura il valore.
    Il tempo storico dove tutto si decide, ma che non è fine a se stesso, è l’argomento proprio del poema di Dante, l’uomo della Firenze del ‘300, immerso nella drammatica storia civile della sua città (come sapete è momento della lotta tra guelfi Bianchi e Neri), quella storia civile da lui appassionatamente vissuta. Dante fu cacciato in esilio, in certo modo posto come fuori dalla storia, e della storia ricerca e ritrova il senso profondo con quello sguardo interiore che gli fu dato in sorte e che la fede sostenne; ne ritrova il senso che oltrepassa l’effimero e l’apparente per cogliere la realtà del vivere umano. La Commedia si presenta, all’apertura del libro, come un testo pieno di storia, intessuto di storia come nessun altro poema epico; non il mito e la leggenda proprio dell’ethos antico, non i semidei, gli eroi e i re, che sono i protagonisti dell’ephos antico. Nel poema sono indicate date precise, nomi di uomini sia antichi che contemporanei, illustri ma anche oscuri, tutti esattamente collocati nel tempo e determinati geograficamente. Si pensi all’inizio: in un paesaggio ideale, la selva oscura, che è poi naturalmente simbolica, appare un’ombra, quella di Virgilio; quest’ombra, appena parla, fornisce date e luoghi: «Non omo; omo già fui,/ e li parenti miei furon Lombardi,/ Mantovani per patria ambedui./ Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi/ e vissi a Roma sotto il buon Augusto,/ al tempo degli Dei falsi e bugiardi» (Inf. I, 67-72). Virgilio indica la data e il luogo di nascita, parla dei genitori, precisando che furono ambedue mantovani per patria. Data e luogo irrompono in questo paesaggio che sembra simbolico. Proseguendo, le determinazioni sono continue; di tutti i personaggi sappiamo esattamente dove e quando sono nati, in quali epoche e guerre si sono trovati. Spesso le determinazioni geografiche sono date dai fiumi, come ad esempio per Francesca da Rimini: «Siede la terra, dove nata fui,/ su la marina dove il Po discende/ per aver pace co’ seguaci sui» (Inf. V, 97-99), o come per Francesco d’Assisi: «Intra Tupino e l’acqua che discende/ del colle eletto del beato Ubaldo» (Par. XI, 43-44); lo stesso vale per Canizza da Romano: «In quella parte della terra prava/ italica che siede tra Rialto/ e le fontane di Branta e di Piava» (Par. IX, 25-27). Insieme a precise indicazioni geografiche, vengono date quelle storiche e relative alle famiglie di appartenenza: «Io fui di Montefeltro, io son Bonconte» (Pg. V, 88). Alcuni nomi, alcune determinazioni sono, a noi moderni, completamente ignote, occorre cercarle nei libri di storia, negli archivi; più sono determinate e più attraggono il lettore. Questo è in genere tutto il tessuto del poema.
    Nei poemi antichi e anche medievali, come nel ciclo di Re Artù e della Tavola Rotonda, era sempre necessario che il protagonista fosse un eroe; l’uomo di Dante non ha bisogno, per acquisire dignità, di un blasone terreno; ogni uomo, infatti, ha una dignità suprema. Solo in questo poema gli oscuri e i grandi (perché ci sono anche papi, re e imperatori) hanno la stessa identica dignità, sono tutti uguali. Questa è una grande rivoluzione nella storia della cultura umana, tuttora riconoscibile, che distingue il Cristianesimo e la civiltà che da esso è nata. Questo compare nella Lettera ai Galati di San Paolo: non c’è più né Ebreo, né Greco, né uomo né donna, né schiavo né libero; queste erano le distinzioni fondamentali della cultura di allora. Gli Ebrei e i Greci erano due popoli completamente diversi l’uno dall’altro; Aristotele pensava che l’uomo libero e lo schiavo fossero quasi due diverse specie di uomini. Paolo, con queste parole, introduce nella storia umana questa singolare rivoluzione. Così sono gli uomini del poema dantesco.
    C’è poi un’altra fondamentale diversità che contrassegna il poema di Dante. Dopo i fatti di Galilea, la stessa concezione culturale del mondo è cambiata: la differenza consiste nel fine. La struttura della narrativa del poema è quella di un viaggio, elemento tipico dell’ephos mediterraneo, sia cristiano, che ebraico, e classico. Potremmo riportare molti esempi: Abramo, che parte confidando nella parola di Dio, senza sapere neppure dove andrà, per fondare un nuovo regno di pace e di felicità; anche Enea parte perché crede nella parola degli dei, per fondare a Roma, sulle coste italiche un nuovo regno di felicità; Mosè porta il suo popolo fuori dall’Egitto, fuori dalla schiavitù per andare nel paese promesso, in un luogo di libertà; Ulisse ritorna a casa dopo un lungo viaggio. C’è una doppia configurazione in questi viaggi, di chi va verso un luogo ignoto e chi ritorna verso la propria casa. Ogni popolo ha, inoltre, la propria determinazione e configurazione geografica: i Greci vanno per mare, gli Ebrei per terra. Il fine, inteso come luogo fisico, della Commedia non è raggiungibile né con i carri né con le navi, ma è posto oltre lo spazio; è un luogo irraggiungibile, è nell’eternità. Anche il poema di Dante, infatti, è un viaggio che l’autore compie, un viaggio che inizia nella selva oscura e finisce nell’empireo, nel luogo eterno. Questa novità dipende da quel cambiamento culturale di cui si diceva, perché, cadute le figure, resta la realtà; quei luoghi dell’epica antica, i luoghi d’arrivo storici, non sono che figure del luogo che la commedia ci offre; sono le figure della vita dolorosa dell’uomo che cerca di arrivare ad un luogo di felicità e di pace; invece, il luogo offerto dalla Commedia è la realtà. Paradossalmente, quindi, luoghi storici, concreti, toccabili sono figure; il luogo, invece, che non si vede è la realtà. Tutto l’universo è diretto ad un fine, un fine che lo trascende, come dice il primo canto del Paradiso, con tono assertivo e sicuro: «Le cose, tutte quante/ hann’ordine tra loro; /questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante» (Par. I, 103-105).
    In quest’ordine stabilito in ogni dettaglio, Dante fa un’osservazione curiosa sul movimento degli astri: se un astro si muovesse diversamente e modificasse l’inclinazione della sua orbita di un decimo di grado, tutto precipiterebbe. C’è, quindi, una regola assoluta, un ordine nel quale si muove una creatura dotata di libertà: «così da questo corso si diparte/ talor la creatura, ch’ha podere/ di piegar, così pinta, in altra parte» (Par. I, 130-131): che ha il potere di piegare, pur così sospinta, in un’altra direzione. Questo è naturalmente la descrizione dell’uomo, che vive nella storia, il cui gesto compiuto liberamente può condurlo ad esiti diversi. Per questo il gesto storico di ogni personaggio è così prezioso. Dante conosce la realtà dell’uomo nei suoi minimi dettagli, ed è quello che affascina sempre il lettore; tutti gesti che Dante conosce e rappresenta in maniera perfetta e riempiono il poema, e questi gesti spesso decidono la vita dei suoi personaggi. Alcuni esempi: il bacio tra Paolo e Francesca, che accade durante la famosa lettura del libro: «ma solo un punto fu quel che ci vinse» (Inf. V, 132); il varco di Ulisse alle colonne d’Ercole: «de’ remi facemmo ali al folle volo» (Inf. XXVI, 125); Bonconte da Montefeltro arriva, ferito a morte, sulla riva del fiume, e con una sola lacrima salva tutta la sua vita di peccatore; arrivano l’angelo e il diavolo a contendersi l’anima; l’angelo porta la sua anima in cielo e il diavolo replica “O tu del ciel perché mi privi?/ Tu te ne porti di costui l’etterno/ per una lacrimetta che ‘l mi toglie» (Pg. V, 105-107). Sono gesti minimi, ma ogni gesto nella storia ha questa risonanza e valore nell’eternità.
    Questo valore della storia è come un germe che deve fiorire, quasi germogliare nell’eterno, come sarà detto nella preghiera alla Vergine, nell’ultimo canto; Dante, rivolgendosi nella preghiera a Maria, dice: «Nel ventre tuo si raccese l’amore/ per lo cui caldo nell’eterna pace/ così è germinato questo fiore» (Par. XXXIII, 7-9). È la fioritura nell’eterno di tutta questa storia umana grazie all’amore divino dell’Incarnazione. Accade per questo valore di eternità posto nella storia, che i due piani nel poema sembrano distinti, ma vicini tra di loro; la morte, se si pensa agli incontri di Dante nel poema, sembra quasi non abbia posto come quella barriera che noi avvertiamo. Dante si aggira nel mondo dei morti, ma essi appaiono non diversi dai vivi; li riconosce e parla con loro con tutta naturalezza. Ad esempio quando incontra l’amico Forese Donati: «Forese, da quel dì/ nel qual mutasti mondo a miglior vita,/ cinqu’anni non son vòlti infino a qui» (Pg. XXIII, 76-78); c’è questo tono di amicizia, come quando parla con Belacqua, o con Brunetto Latini nella grave condizione dell’inferno, dove, dopo il primo stupore: «siete voi qui ser Brunetto», dopo il drammatico scambio di battute, loro due si mettono a camminare tranquilli e l’uno chiede notizie all’altro. C’è, quindi, una barriera infranta, invisibile, tra morti e vivi. Questo mondo di morti nell’aldilà è un mondo di vivi, un mondo di corpi. Questi corpi sono fittizi, perché devono attendere il giorno del giudizio universale, tuttavia hanno una realtà straordinaria e noi li vediamo come veri. Si pensi ai gesti con cui si muovono i personaggi dell’Inferno, come ad esempio Farinata che «s’ergea col petto e con la fronte» (Inf. X, 35). Questa loro realtà, questa loro consistenza, per cui sono indistinguibili dai vivi, viene dal dogma cristiano della resurrezione dei corpi, perché tutte le anime dell’aldilà aspettano il corpo che un giorno rivestiranno; questo è essenziale per comprendere il poema di Dante; in tutto il poema, fin dai primi canti, viene ricordato quel corpo sepolto nella terra. Nel sesto canto dell’Inferno Virgilio spiega a Dante che: «Ciascun rivederà la trista tomba,/ ripiglierà sua carne e sua figura» (Inf. VI, 97-98). Pier delle Vigne, il suicida, dice: «Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta;/ ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie» (Inf. XIII, 103-104). Ricordate l’incontro con Catone, quando Virgilio, sulla riva del Purgatorio, gli ricorda quella splendida veste che Catone lasciò appunto suicidandosi in Utica: «Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei [la libertà] amara/ in Utica la morte, ove lasciasti/ la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara» (Purg. I, 73-74). Quella veste lasciata sulla terra apparirà nello splendore dell’ultimo giorno, «che al gran dì sarà sì chiara», cioè luminosa, splendente.
    I corpi sepolti sono una traccia ricorrente durante tutto il poema, fino nel Paradiso, dove è singolare l’incontro con san Giovanni Evangelista. A proposito della morte di San Giovanni Evangelista, c’erano differenti opinioni; secondo la credenza popolare, si pensava che fosse stato assunto in cielo con il corpo, come Maria. Dante, quando vede la luce, la fiamma di Giovanni, perché in Paradiso le anime appaiono come fiamme e non come fuochi, si sforza di vederne il corpo; Dante autore finge, mettendosi nei panni del Dante personaggio, di rappresentare il comune fedele, il cristiano comune, popolare, il semplice; sforza la vista pensando di vedere il corpo. San Giovanni gli dice: «Perché t’abbagli/ per veder cosa che qui non ha loco?/ In terra è ‘l mio corpo, e saragli/ tanto con gli altri, che il numero nostro/ con l’eterno proposito s’agguagli» (Par. XXV, 122-126): sarà lì e vi resterà fino a che verrà il giorno della risurrezione. Fino nell’alto Paradiso, quindi, torna il ricordo del corpo sepolto nella terra. Su questo tema è incentrato un grande canto, tra i più belli del Paradiso, il XIV, nel quale si affronta il discorso teologico della resurrezione; in questo canto si dice che lo splendore del corpo risorto sarà tale da oltrepassare addirittura lo splendore interno dell’anima: «Ma sì come carbon che fiamma rende,/ e per vivo candor quella soverchia,/ sì che la sua parvenza si difende;/ così questo fulgore che già ne cerchia/ fia vinto in apparenza dalla carne/ che tutto dì la terra ricoperchia» (Par. XIV, 52-58).
    È un tema prediletto da Dante, perché sostiene tutto il suo grande poema, come vedremo alla fine. Si potrebbe dire che la barriera che gli antichi hanno posto nel cielo della luna è qui infranta; infatti, gli antichi credevano che la materia di cui erano fatti i cieli fosse immortale, eterna; si legge, infatti, in un’opera di Cicerone: «al di sotto della luna tutto è caduco, al di sopra tutto è eterno». Al di sotto della luna tutto è caduco, ma con un’eccezione: le anime degli uomini date per un singolare dono degli dei; l’anima era considerata, già da Platone, immortale, ma non il corpo; era comprensibile che l’anima salisse alle stelle, ma inammissibile considerare immortale il corpo. Nel primo canto del Paradiso, invece, il corpo di Dante sale, insieme a Beatrice, e viene portato in alto, verso l’Empireo. Quel corpo oltrepassa i cieli tolemaici, i cieli storici, i cieli della fisica di allora; giunge all’Empireo dove appare la vera realtà della storia umana. Arrivando all’Empireo, nella conclusione del poema, nella grande immagine della Candida Rosa, Dante porta il significato, il senso di tutta la storia che noi abbiamo visto, nelle sue molteplici sfumature, lungo il racconto. Con grande ardimento, direi teologico, Dante sostituisce l’immagine biblica della città: non c’è una città circondata da mura e con porte preziose, ma solo un fiore, una rosa, la cosa più delicata della terra. Dante ha scelto una rosa per rappresentare questa realtà che è corporea, ma spirituale insieme. Questa grande rosa raccoglie tutta l’umanità. Infatti lo dice: «In forma dunque di candida rosa/ mi si mostrava la milizia santa/ che nel suo sangue Cristo fece sposa» (Par. XXXI,1-3). Quando si entra nell’Empireo, è il famoso fine di cui parlavo in principio, si esce dal tempo e dallo spazio; Beatrice lo dice con chiarezza: «Noi siamo usciti fòre/ del maggior corpo al ciel che è pura luce» (Par. XXX, 38-39); per evitare equivoci specifica che non è una luce fisica; infatti, continua dicendo: «luce intellettual piena d’amore;/ amor di vero ben, pien di letizia;/ letizia che trascende ogni dolzore» (Par. XXX, 40-42), cioè ogni dolcezza conosciuta dall’uomo sulla terra. Quindi questa luce, questo cielo è un cielo spirituale. Ebbene qui troviamo i veri corpi del poema, i corpi storici appunto.
    Il XXXII canto del Paradiso non è molto amato dalla critica, ma se lo si togliesse, svanirebbe tutto il poema. Nel canto, infatti, c’è una descrizione precisa della divisione di questa rosa, la collocazione e la distribuzione storica dei personaggi; questo canto porta, nella rosa, la storia. Maria e il Battista sono ai due estremi della rosa e segnano la divisione tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Dante non scende nel dettaglio, cita pochi nomi perché questi corpi restano qualche cosa di «trasumanato», come dice Dante, nel primo canto, con un verbo di suo conio: sono corpi spirituali. Dante cita alcuni nomi di santi cristiani, Francesco, Benedetto, Agostino, i grandi fondatori di ordini, le grandi donne ebree Sara, Rebecca, Giuditta; pochi nomi, ma quanto basta per dare questa configurazione storica alla grande Rosa dell’Empireo. Dante dà ad uno dei personaggi citati il suo carattere umano, attraverso una determinazione di affetto terreno: è sant’Anna che guarda la figlia Maria. Dice san Bernardo a Dante: «Di contro a Pietro vedi seder Anna/ tanto contenta di mirar sua figlia,/ che non move occhio per cantare Osanna» (Par. XXXII, 133-135): pur cantando Osanna con tutti gli altri, non distoglie lo sguardo dalla figlia, che finalmente vede. I beati del Paradiso di Dante sospirano i corpi, perché, come osserva Benvenuto da Imola, forse il più acuto commentatore dal punto di vista della poesia, «desiderano vedere in carne coloro che amarono in carne». Quindi Anna, lassù, esprime questo sentimento tra i più teneri e più forti che ci siano nell’umanità, quello della madre per il proprio figlio. Attraverso questo semplice gesto di Anna, Dante afferma che nulla di quel che è umano è perduto, nulla di quel che è buono sulla terra, di quello che noi amiamo, di ogni nostra giornata quotidiana, è perduto.
    Questa, però, non è l’ultima immagine, c’è ancora un passo. Nel XXXIII canto Dante rimane solo davanti alla visione di Dio e gli sono mostrati tre grandi misteri:
    – Il mistero dell’unità nei molteplici, nel Creato, rappresentato con l’immagine del libro, un volume, un’unità che raccoglie tanti fogli.
    – Il mistero della Trinità rappresentata da tre cerchi luminosi della stessa dimensione, riflessi l’uno dall’altro; è un’immagine effabile, ma impossibile da rappresentare.
    – Il terzo mistero conclude il poema; Dante vede, crede di vedere, nel secondo cerchio della Trinità la Seconda Persona, il Verbo, l’immagine dell’Uomo: «mi parve pinta della nostra effige;/ per che il mio viso in lei tutto era messo» (Par. XXXIII, 131-132). «Mi parve…»: è una visione un pò vaga. Dante immerge tutto il suo viso, cioè il suo sguardo, nella contemplazione di questa apparizione, cercando di capire questo mistero incomprensibile all’uomo. Dante usa un paragone per spiegare il tentativo di immergersi in questo mistero; dice, infatti: «Quel è il geomètra che tutto s’affige/ per misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando quel principio ond’elli indige» (Par. XXXIII, 133-135). La “quadratura del cerchio” è un antico problema della geometria che permane. Se si procede attraverso un calcolo matematico è impossibile trovare questo numero che, infatti, è chiamato “trascendente”. Questo, per i geometri, è il problema dei problemi. Alano da Lilla, in un suo «Ritmo della Incarnazione», scrive una quartina sull’Incarnazione, che ricorda il paragone che fa Dante: «Suae artis in mensura geometra fallitur dum immensus sub mensura terrenorum sistitur in directum curvatura circoli convertitur»: nel giudizio proprio della sua arte il geometra si trova perduto, quando l’Immenso, l’Immensurabile, cioè Dio, si pone sotto la misura della cose terrene; «in directum curvatura circuli convertitur»: la curva del cerchio si cambia in linea retta; è la quadratura del cerchio. Alla fine, un fulgore illumina Dante facendogli comprendere il mistero, ma Dante non ne dà spiagazione. A questo punto la fantasia non può venir in aiuto di Dante; dice, infatti: «All’alta fantasia qui mancò possa» (Par. XXXIII, 142), perché non c’è immagine a cui riferirsi. L’ultimo Mistero è la visione dell’Uomo, cioè il tempo storico, di cui il corpo dell’uomo è il segno. Questo corpo caduco, destinato a morire, questo tempo storico abita all’interno dell’eternità.

    Rondoni:

    La ringrazio perché il suo non è l’atteggiamento di un accademico, cioè di uno che cerca di tenere la distanza dalla materia di cui parla; per questo ho avuto l’impressione di ascoltare qualcosa di familiare e semplice.
    Vorrei fare per primo una domanda. Con alcune persone abbiamo completato da poco un’edizione della Divina Commedia, che uscirà nella collana dei libri dello Spirito Cristiano. Abbiamo fatto un lavoro insieme, ci siamo divisi i commenti. Il tema che lei ha messo al centro dei suoi studi, e che oggi ci ha riproposto in versione familiare, buona e semplice anche da digerire, è la questione per cui il fulcro dell’opera è il mistero dell’Incarnazione e della Resurrezione; per cui il «proprio cristiano», il corpo, ciò che è più storico, che è più dettagliatamente e fragilmente storico, c’entra con l’eternità. Questo è il punto che, nei commenti di molti critici, di molti grandi lettori della Commedia, eccetto alcuni grandi come Eliot, Auerbach, Singleton, generalmente viene saltato, o comunque non affrontato direttamente, come se lo specifico non venisse colto. Allora io le vorrei chiedere: che cosa occorre tenere presente, portarsi dietro quando si comincia a leggere La Divina Commedia, oltre a questo elemento che lei ha colto e ha messo in luce giustamente? Perché è innegabile che La Divina Commedia sia stata allontanata dalla scuola, sempre più allontanata dall’attenzione, con un tentativo a volte anche becero di farla passare come una cosa secondaria. Che cosa occorre, allora, portare con sé nel momento in cui ci si avvicina ad un’opera così grande e così potente e però anche così lontana, o comunque che ci è stata così allontanata? Cosa è stato importante per lei, che cosa ha seguito lei nel leggere La Divina Commedia?

    Chiavacci Leonardi:

    Intanto bisogna conoscere Dante a fondo; poi conoscere il Medioevo latino che è ciò che manca in genere al lettore, al critico, al ragazzo, al giovane, perché quello che principalmente si conosce della nostra tradizione scolastica è l’antichità classica, Virgilio e Aristotele che Dante stesso indica come suoi maestri. Quello che non si conosce, invece, è la tradizione cristiana. Non dico che si debba conoscere san Tommaso, sebbene sia augurabile; ciò che occorre, in primo luogo, è la conoscenza del Vangelo e di san Paolo. Il Vangelo, le lettere di Paolo e l’Antico Testamento, soprattutto i Salmi e i Profeti, sono tra i testi che Dante meglio conosce. I salmi sono gli stessi che si recitavano in chiesa, tutti i giorni, alle ore canoniche e che, quindi, il popolo cristiano conosceva bene. Quello che quasi mai ho trovato nelle interpretazioni date a La Divina Commedia è il riferimento evangelico. In Dante è presente, in maniera straordinaria, uno dei tratti caratteristici del Vangelo: la prevalenza dello Spirito sulla lettera, che è in contrasto con gli ebrei, dove tutto si fa secondo la lettera. Il Vangelo oltrepassa la lettera per lo Spirito: tutta La Divina Commedia è costruita su questo; le istituzioni sono sempre in seconda linea, la scomunica papale non basta a dannare Manfredi, perché gli basta un gesto (che ricorda il figliol prodigo; Luca è sempre ben noto a Dante), gli basta un pianto per essere salvato. «Le prostitute», dice Gesù nel Vangelo, «vi precederanno nel Regno dei Cieli»; noi troviamo in Paradiso una prostituta, Raab. Volevo solo dare un cenno di questo carattere evangelico del testo dantesco che spesso è sconosciuto.

    Domanda:

    Uno dei grandi temi affrontati al Meeting di quest’anno è stato il realismo, a cui sono dedicate diverse mostre. Mi piacerebbe se lei potesse spiegare cosa vuol dire “realismo” nella Commedia dantesca. Grazie.

    Chiavacci Leonardi:

    Le raffigurazioni, come quelle dell’ephos antico che ci fanno vedere luoghi concreti come Gerusalemme, Cana, Roma, il Lazio, sono figure di quello che è la realtà, cioè la vita eterna. C’è, inoltre, un altro aspetto relativo al realismo, in senso letterale, relativo, quindi, alla rappresentazione di ciò che si vede del reale che conosciamo. Questa capacità, in Dante, è straordinaria. Il realismo con cui lui rappresenta tutta la natura, i fiori, i rami, gli uccelli. Si prenda, ad esempio, all’episodio di Pier delle Vigne, quando il tronco parla: «Come d’un stizzo verde, ch’arso sia/ dall’un de’capi, che dall’altro geme/ e cigola per vento che va via/ sì dalla scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue» (Inf. XIII, 40-44); è una rappresentazione perfetta. Ogni espressione, ogni realtà dell’universo è guardata con un’attenzione e una precisione straordinarie. Si potrebbe dire che questo grande realismo dipende anche dalla consapevolezza della preziosità del reale del quale nulla va trascurato. La caducità del reale è abolita nella Commedia come nel cristianesimo. Potrei fare un esempio; nel terzo canto dell’Inferno c’è una grande similitudine, che risale ad Omero; Virgilio paragona l’umanità a delle foglie che cadono: «Come, d’autunno, si levano le foglie/ l’una appresso dell’altra infin che il ramo/ rende alla terra tutte le sue spoglie,/ similmente il mal seme d’Adamo/ gittansi di quel lito ad una ad una,/ per cenni, come augel per suo richiamo» (Inf. III, 112-117). Questo è il cadere dell’uomo secondo gli antichi; ma, un aspetto che non si osserva è che la similitudine di Dante è riferita all’umanità che è condannata all’Inferno. L’altra immagine “vegetale” che Dante usa sono i petali della rosa dell’Empireo; in lei è riposto il germe dell’eterno.

    Rondoni:

    Io vi auguro che vi succeda, quello che mi accade quando leggo La Divina Commedia: non riesco a stare fermo. La Divina Commedia è, infatti, la relazione, il partecipare ad un grande movimento. Dante aveva una concezione di sé che si muoveva dentro tutto il movimento della storia; la scenografia dentro cui l’uomo Dante sente di muoversi, sa di muoversi, ha dentro tutto: la storia, le stelle, l’universo. L’uomo che è dentro al grande movimento della storia, che non accetta che in questo grande movimento nulla vada perduto, scrive La Divina Commedia perché vuole rivedere Beatrice, perché quello che lo ha colpito e che gli ha fatto vedere la realtà come buona non sia perso per sempre; vuole scrivere per lei qualcosa che nessuno ha mai scritto per nessuno. Dante fa questo nel modo che appunto ci è stato indicato: alla ricerca di qualcosa che permetta che tutto questo movimento non sia perso, non sia vano; per lui che amava la vita, che amava la storia era inaccettabile, che qualcosa di questa storia si perdesse. È questo il viaggio di Dante, questo non poter star fermo, il vivere la propria vita come un viaggio, un’esperienza, vedendo tutto, anche il particolare, dentro la luce dell’eterno. La poesia è il modo con cui Dante ci ha raccontato queste cose; non lo fa attraverso la filosofia ma, come diceva Eliot, attraverso una filosofia percepita. E lo fa perché la nostra vita venga presa da questo movimento, perché andiamo a trovare qualcosa per cui tutto non sia perduto. La poesia, l’arte produce questo movimento nella vita.
    Se la vita chiede l’eternità non significa che chieda l’immortalità della vita; ciò che chiede è la resurrezione, o meglio, l’entrata dell’eterno nella storia in un punto, come l’incarnazione. Questo è il motivo per cui sentiamo, come diceva Paolo VI in un suo documento, che Dante è uno dei nostri, perché ha vissuto la vita in questo modo, in un modo che a noi interessa.

    * Professore ordinario di Filologia e Critica Dantesca all’Università degli Studi di Siena

    (Tratto da: www.storialibera.it Meeting di Rimini, venerdì 24 agosto 2001, ore 18.30)


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