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    Il mito

    di Don Giovanni

    Vive solo nel presente il cavaliere dissoluto

    Pietro Citati

    Non esiste, forse, personaggio che Mozart abbia rappresentato con più precisione del mitico Don Giovanni:
    In testa egli ha un cappello
    con candidi pennacchi:
    addosso un gran mantello
    e spada al fianco egli ha.
    La cosa più spiritosa è che questo ritratto non è disegnato dalla spietata Donn'Anna, o dall'appassionata Donn'Elvira, o da Leporello, che è lo storico e il ritrattista in titulo del suo padrone. Chi rappresenta l'ardimentoso e baldanzoso cavaliere dai "candidi pennacchi" è lo stesso Don Giovanni,che verso l'inizio dell'atto secondo guida la torma dei contadini e delle contadine e dei servi che vorrebbero bastonare o uccidere Leporello, mascherato coi vestiti del suo signore. Un secondo ritratto, che Mozart avrebbe volentieri controfirmato, ci è fornito da Hoffmann, quando, nella meravigliosa parte prima dei Pezzi di fantasia alla maniera di Callot, ci mostra il gentiluomo di Siviglia mentre «apre il manto e si mostra nello stupendo costume di velluto rosso con ricami d'argento». Una figura possente, superba – insiste Hoffmann –viso d'una bellezza virile, naso aristocratico, occhi penetranti, labbra morbide e sensuali.
    Non possiamo dimenticare che il cavaliere dalle labbra morbide, che le donne spagnole porteranno per sempre nella memoria, non si vede mai, o quasi mai, alla luce del giorno.
    Il dissoluto punito, rappresentato per la prima volta, a Praga, nell'ottobre 1787, si svolge nell'atmosfera intensa e calda di una notte spagnola. Tutto è notturno: l'assassinio, i balli, le bevute, le vendette, le macchinazioni amorose, i travestimenti, la festa, il banchetto, l'apparizione finale del Commendatore, il fuoco. Solo una volta si vede la luce della luna, chiarissima sulle statue del cimitero. Qualcuno potrebbe aggiungere che Don Giovanni non è una figura tenebrosa: tenebrosa è la statua di sasso del Commendatore. Don Giovanni è un fuoco impetuoso,vivace, brillante, che attraversa il palazzo e la campagna, Ma questo fuoco è pieno di notte: emana scintille e barlumi notturni, che verranno spazzati via dal "vortice di fuoco" dell'ultima scena.
    Malgrado la precisione del ritratto, il Don Giovanni di Mozart resta misterioso: tanto più misterioso quanto più gli scrittori e gli studiosi cercano di avvicinarlo ad altre figure del tempo. Don Giovanni – viene detto – è un seduttore libertino: o un fratello gemello di Faust. In realtà, Mozart ha fatto il possibile per allontanare il suo eroe dalle figure libertine della storia passata e presente: Don Juan Tenorio di Tirso de Molina, Dom Juan di Molière, Lovelace di Richardson e Valmont di Laclos, che aveva cominciato le sue insidie qualche anno prima. L'eroe di Tirso chiama orgogliosamente se stesso L'ingannatore di Siviglia: vuole ingannare e stuprare; il suo inganno non è una passione sensuale, ma una crudele arguzia intellettuale, che si propone degli scopi, e li realizza ad ogni costo, senza provare piacere, né divertimento, né gioia. L'eroe di Molière è il signore del calcolo, dello stratagemma, della finzione, della dissimulazione, che recita la parte di Tartufo; e insieme a tutti i possibili Tartufi della terra forma una specie di società segreta, che si nasconde dal mondo e conquista il mondo. Ora, il Don Giovanni di Mozart non ragiona, non calcola, non dissimula, non recita; e solo qualche volta, con una specie di condiscendenza e quasi di pietà verso gli uomini, accetta di ingannare le sue innumerevoli Donne Elvire.
    Quanto a Faust, le somiglianze sono ancora minori. Mentre Faust aveva letto tutti i libri e cercava di possedere le chiavi occulte dell'universo, Don Giovanni è vittima e preda di un'incultura totale. Forse non ha mai letto un libro (o soltanto i libracci pornografici che suppongo legga Leporello); non ha idee né dottrine; e non medita mai su quello che fa. Se Faust desidera perennemente l'infinito, inseguendolo in tutte le sue possibili incarnazioni, Don Giovanni ignora qualsiasi forma di infinito. Non conosce l'illimitato, il sovrannaturale, il celeste; o li disprezza.
    Il mondo, per lui, è materia limitata: quello che si può afferrare, e letteralmente abbrancare con le mani. Faust si trasforma, cambia natura, è sempre un altro, vive in una condizione di perenne metamorfosi, bevendo alle sorgenti venerabili della Natura. Don Giovanni non muta: mutano solo il nome e il numero delle sue donne. All'inizio del dramma è identico al personaggio che diverrà alla fine, malgrado le vicende che dovrebbero cambiarlo completamente.
    Il segreto di Don Giovanni sta in una parola, ch'egli ripete insaziabilmente, furiosamente, freneticamente, come se volesse scavarla e portarne alla luce tutto ciò che contiene. «Non vedete che voglio divertirmi». «Troppo mi premono queste contadinotte. Le voglio divertir finché vien notte». «Giacché spendo i miei danari, io mi voglio divertir» e poi, sempre girando attorno allo stesso tema, «Viva le femmine! Viva il buon vino! Sostegno e gloria d'umanità». «Lasciar le donne! Pazzo! – dice a Leporello – Lasciar le donne? Sai ch'elle per me son necessarie più del pan che mangio, più dell'aria che respiro». «Mi pare sentir odor di femmina»; e non smette di fiutare e di odorare quel profumo meraviglioso, quel balsamo incomparabile che conosce come nessuno. Cosa significa questa parola: divertimento? Sebbene Don Giovanni non legga libri e non ami riflettere, egli sa, inconsciamente, che contiene moltissime cose, che forse in parte gli sono ignote, ma per le quali sa di possedere «un fertile talento». Come dice l'intelligentissima e amorosissima Donn'Elvira, non è il semplice inganno di Don Juan Tenorio: ma un cimento, cioè una prova, un azzardo, che può impegnare tutta una vita, sino in profondo. Divertirsi significa accelerare, sino quasi alla follia, il ritmo e la velocità della vita: non sostare nemmeno un istante in un luogo o nell'altro, perché ci si diverte sempre altrove; vivere solo nel presente, o in quell'attimo di futuro che si muove subito dopo il nostro attimo; apprendere in ogni amore cose oscurissime, che solo lui e le donne conoscono («voi sapete quel che fa», dice Leporello); percorrere tutte le fasi e le ombre di ogni passione, dal furore alla dolcezza e dalla dolcezza al furore (perché Don Giovanni può essere dolcissimo e tenerissimo): non progettare né architettare né prevedere né anticipare, ma desiderare, gioire, godere, possedere, e poi abbandonare, e poi di nuovo desiderare e gioire, perché il piacere è questa unione incessante e mobilissima di desiderio, possesso ed abbandono.
    «Voglio divertirmi» significa moltiplicare le donne. In Italia Don Giovanni ne ha avute seicento e quaranta, in Lamagna duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna, in Spagna (dove è appena arrivato) mille e tre; e intanto la lista delle donne sta crescendo (o dovrebbe crescere ) via via che noi ascoltiamo l'opera, e le danze si scatenano furiosamente sulla scena e dietro la scena. Caccia le donne in ogni luogo, in ogni città, in ogni paese, inseguendo le contadine, le cameriere, le cittadine, le contesse, le baronesse, le marchese, le principesse; la bella e la brutta, la bionda e la bruna, la grassotta e la magrotta, la grande e la piccola, la matura e persino la vecchia e, soprattutto, la giovane principiante. Il fuoco notturno di Don Giovanni resta sempre acceso e scintillante: quali siano il grado, la forma, l'età, il carattere, il temperamento, la natura delle creature mobilissime e odorose, che egli tiene strette, e qualche volta si soffermano, innamorate, e qualche volta gli scivolano via tra le mani, perché anche la fuga e l'abbandono sono una forma (forse la più incantevole) di divertimento amoroso. È un universo illimitato (se non infinito), dal quale Don Giovanni rischia di restare continuamente travolto. Ogni Zerlina è un rischio, ogni Donn'Anna un pericolo mortale.
    Ma egli non sarà travolto dalle cose terrene, che adora, soltanto da quelle celesti e infernali, che lo annoiano o non lo interessano affatto.
    Don Giovanni ha compreso che la meta, che egli insegue, è molto più vasta del semplice divertimento amoroso, oppure che questo si allarga, si dilata, fino a smarrire ogni confine e a perdersi nell'indistinto. Tutto, per lui, è divertimento: la danza, il fandango, la calabrese, la furlana, il minuetto, la polacca, la seguidilla; ma le danze devono essere condotte, senza ordine e quasi senza ritmo, dagli abitanti colorati della notte, nobili, servi, camerieri e contadini e contadine e giovinotti leggeri di testa, che cantano e bevono senza fine, inseguendo il piacere e obbedendo allo stesso ritmo furibondo del loro signore. Un altro divertimento è il cibo, servito nella casa illuminata di Don Giovanni, mentre gli archi, i flauti, gli oboi, i clarinetti, i fagotti, i corni, le trombe intonano l'allegro vivace, l'allegretto, l'allegro assai. Ma anche il delitto è un divertimento. Quando Don Giovanni uccide, sempre nella tenebra, il Commendatore, lo fa senza impegno, con un rapido colpo di spada, quasi per gioco, come se dovesse dare la battuta d'inizio della festa scatenata e indiavolata.
    Così Don Giovanni, indossando il suo sfavillante costume di velluto rosso e i suoi candidi pennacchi, non rifiuta nessun piacere della terra: «La terra, solo la terra, ma tutta la terra», come scriveva un eccellente critico musicale russo del diciannovesimo secolo. Come direbbero i Greci è trascinato dalla hybris, divorato dalla hybris,accecato dalla hybris: dal furore e dalla dismisura.
    Malgrado questo, Mozart ama la sua creatura seducentissima, come lo ama Donn'Elvira. Segue con una strana simpatia il suo cimento: il divertimento, il piacere, la follia, il furioso coraggio contro le pretese del Cielo e dell'Ade. Ma, al tempo stesso, con la stessa devozione dei Greci, sa che la hybris è fatta per gli dèi, non per gli uomini. Se Apollo pecca e viola tutti i possibili limiti, gli uomini, con discrezione, attenzione, cautela e pazienza, devono rispettare i limiti che le leggi naturali e divine hanno imposto loro.
    Nella prima scena dell'opera, Don Giovanni uccide con la spada il Commendatore, che in Tirso de Molina portava il nome di Gonzalo de Ulloa. Il Commendatore moribondo è soltanto un anziano e decoroso gentiluomo spagnolo; la figlia, Donna Anna, adora in lui il padre e la madre; il dolcissimo e tenerissimo fidanzato, Don Ottavio, non placa il suo desiderio di vendetta, né il suo furore di ghiaccio. Verso la fine del dramma, passate pochissime ore, il Commendatore riappare. Ora non è più un gentiluomo spagnolo, né il suo spettro: ma la Statua, l'Uomo di Sasso, il Convitato di pietra. Sembra che non possegga nessuna passione, nemmeno quella della vendetta: tutto, attorno a lui, respira l'atmosfera remota e assente di un altro mondo, non sappiamo quale. Non è più che Voce e Passo, entrambi di pietra. Il Passo terrorizza persino l'impavida Donn'Elvira. La Voce – monotona, solenne, profonda, immobile, fosca – ci sembra la disumana voce di sasso, con la quale si esprime la Morte quando parla con gli esseri umani.
    Don Giovanni viola i limiti tra la vita e la morte: forse non li vede nemmeno; oltraggia profondamente il Commendatore invitandolo a cena, come se fosse soltanto un convitato qualunque, invece che la Morte, o il signore dei morti. L'Uomo di Sasso non tollera questa audacia e questa violenza: non sopporta l'invito a cena, o vuole trasformarlo in una vendetta definitiva; ed esecra il divertimento erotico di Don Giovanni, che non rispetta né le donne né gli uomini, né il Cielo né la misura. A questo punto, non sappiamo se attribuirgli un altro nome. Forse non è la Morte, ma soltanto, o soprattutto, un messo e un vendicatore di Dio, del quale, finora, non abbiamo nemmeno ascoltato il nome. «Non si ha bisogno di luce, quando si è condotti dal cielo», aveva detto nel Festin de Pierre di Molière. «Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste», ripete nell'opera di Mozart. Ma non siamo certi del vero nome del Convitato di Pietra.
    Quando lo contempliamo sulla scena, e ascoltiamo il suo passo funereo e la sua voce funerea, ci chiediamo se sia davvero un messo di Dio, o un signore degli Inferi e dei fiumi sotterranei, come in Don Juan à l'enfer, una delle più antiche e belle poesie di Fleurs du mal di Baudelaire.
    In questo momento, ci torna alla memoria il testo di Tirso de Molina, dove soltanto alla fine, dopo aver manifestato i suoi rifiuti e le sue furie, Don Juan Tenorio si pente: «Lasciatemi chiamare un prete che mi confessi e mi assolva»; e l'Invitato di Pietra annuncia che non c'è più tempo: «Ormai è troppo tardi per pentirsi». Don Giovanni, invece, possiede, manifesta ed ostenta il proprio coraggio fino all'ultimissimo istante del dramma. Come vogliono Mozart e il Commendatore, e non vuole Don Giovanni, che continua a sognare una vita piena di donne, di danze e di «eccellenti marzimini», l'opera meravigliosa si avvia rapidamente verso la fine. Don Giovanni cena, da solo, nella sua grande sala illuminata: la mensa è preparata, i suonatori suonano, i camerieri portano il fagiano, il vino, e chissà quali altre delizie seguiranno. Come osserva Leporello, Don Giovanni mangia «con barbaro appetito»: è pieno di «divertimento» e di gioia; e ha completamente dimenticato (gli uomini del presente dimenticano volentieri) di aver invitato a cena il Convitato di Pietra. Prima Donn'Elvira, poi Leporello escono dalla sala, e gettano un ah di terrore. Leporello balbetta: «Ah!... signor... per carità... Non andate fuor di qua... L'uom... di... sasso... l'uomo bianco... Se vedeste... che... figura... Se... sentiste... come... fa: Ta, ta, ta, ta». Infine, preceduto da un andante di archi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, timpani, tromboni, entra il Convitato di Pietra: «Don Giovanni! a cenar teco m'invitasti e son venuto... Tu m'invitasti a cena; il tuo dover or sai. Rispondimi: verrai tu a cenar meco?».
    Quando il Commendatore chiede in pegno la mano di Don Giovanni, questi gliela porge, senza nessuna pietà verso se stesso. La mano del Convitato di Pietra è gelidissima: è il gelo della morte definitiva, che afferra al cuore il cavaliere dai candidi pennacchi, che grida forte. Il Convitato di Pietra gli chiede, anzi gli ordina: «Pèntiti, cangia vita: è l'ultimo momento! Pèntiti, scellerato. Pèntiti». Don Giovanni rifiuta: non si pentirà mai, a nessuna condizione, a nessun costo, in nessun tempo futuro. Ma siamo alla fine dei tempi: fuoco, terremoto, vortici pieni di orrore, strazio, smania, inferno, terrore; un coro invisibile di sotterra intona voci cupe, sui temi che fin dall'inizio aveva introdotto il Commendatore. Don Giovanni sprofonda nel fuoco. Il Convitato di Pietra sparisce, non sappiamo dove: forse in cielo, forse nel regno dei morti, dove ci aveva introdotto il Don Juan di Baudelaire; forse è un'ombra che sfiora rapidamente Donn'Elvira, che ritorna sulla scena del teatro.
    Dopo l'Ah! terribile di Don Giovanni, appaiono di nuovo sulla scena Leporello, Donn'Elvira, Donn'Anna, Don Ottavio, Zerlina e Masetto; incalzano, ripetono, abbozzano buffonerie: «Resti dunque quel birbon con Proserpina e Pluton. E noi tutti, o buona gente, ripetiamo allegramente l'antichissima canzon. Questo è il fin di chi fa mal!» Qualcuno avrebbe voluto abolire l'allegro assai, sostenendo che la coda distrugge la tragicità della grande opera. Non lo credo. Mozart giunge all'estremo del peccato, della condanna e della tragedia; e poi si riserva un ultimo tocco, un ultimo guizzo di irrazionale buffoneria e letizia, suggerendo che c'è sempre (almeno a teatro, o sul suo teatro) qualcosa di invisibile, che va oltre la Notte e il Fuoco, senza rafforzarli né diminuirli.


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