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    Faust, il disgustoso

    e il sublime

    Paolo Pegoraro

     

    Torna al cinema il mito di Faust attraverso la vertiginosa pellicola di Sokurov, premiata con il Leone d’oro a Venezia. Una lettura approfondita, quella del regista russo, che abbraccia la leggenda originaria e le successive interpretazioni, da Goethe a Bulgakov.

    Quando ci si domanda se la letteratura può “salvare” si sottintende, in genere, la salvezza del lettore. Ma è una richiesta indebita, oltre che eccessiva: è già molto se la letteratura riesce a salvare i propri personaggi. Perché non basta un happy end caritatevolmente elemosinato dal deus ex machina di turno: se la storia naviga davvero a mare aperto, l’approdo – fosse pure quello del naufrago – non è più scontato. I capolavori di Cervantes e di Goethe sono lì a ricordarcelo, due “opere mondo” riprese in mano fino alle soglie della morte dai rispettivi autori, stratificandovi pagine che mal si adeguano con quelle dell’esordio e che tuttavia solo così – ambigue, incerte – possono sbozzare un embrione di salvezza per le proprie creature. 

    Su questo una parola in più la merita proprio il Faust di Goethe, complice la vertiginosa rilettura filmica di Aleksandr Sokurov, premiato con il Leone d’oro a Venezia. Raramente infatti, nonostante le differenze nella trama, un classico è stato portato sullo schermo con altrettanta audacia visionaria. Tanto da calzargli perfettamente la definizione che Franco Fortini coniò per il capovaloro goethiano, «monumento inquietante e intimidatorio [...] di calcolate contraddizioni». Sokurov ci sprofonda in un’atmosfera di accattonaggio universale, ossessivamente dominato dalla fame, dalla miseria, dall’usura, dal tempo che scorre senza freno e tutto conduce a consunzione. È il «reame di tarme» (v. 659) nel quale il Faust goethiano si sente serrato: un mondo che urla da ogni atomo il proprio non bastare a se stesso ed è perpetuamente condannato a sperimentare la propria penuria, il radicale bisogno di oltrepassarsi e l’impossibilità di poterlo realizzare da sé. È per rimanere fedele a questa fame abissale che Faust è disposto a vendere la propria anima a Mefistofele: «Desiderare con ogni mia forza / è appunto quello che prometto [...] Solo se non ha requie l’uomo impegna se stesso» (vv.1743-44.59). 

    C’è solo un modo per anestetizzare questa spina, lasciarsi disorientare dallo stordimento degli istinti e dalla soddisfazione dell’istante. Ed è con questo che Mefistofele seduce Faust, conducendolo prima in una taverna, restituendogli poi la giovinezza, presentandogli infine Margherita. Perché questa ragazzina di poco più di quattordici anni scatena in Faust un desiderio di possesso così violento («Devi farmi avere quella ragazza»)? Non tanto, o non solo, per il repentino rifluire delle passioni, quanto piuttosto perché Margherita possiede ancora ciò che Faust ha svenduto (e continua a svendere) in cambio della sua scienza: «Ah, la semplicità, l’innocenza non sanno / che sono e che sacro valore hanno in sé!» (vv. 3102-03). Semplicità e innocenza, umiltà e modestia, rappresentano non tanto virtù morali, quanto un diverso approccio al reale. Ciò che agita Faust non è una sete di conoscenza fine a se stessa, incarnata invece nella sciocca figura dello studente Wagner, ma un’esigenza di unità assoluta, un mistico senso di partecipazione all’esistenza umana: «Guarito dalla smania di conoscere, il mio animo / non dovrà chiudersi a nessuna sofferenza. / e di quanto ebbe in sorte l’intera umanità / voglio godere nel profondo di me stesso, / nella mia mente accogliere le sommità e gli abissi, / stringere nel mio cuore il suo bene e il suo male / e così dilatare nel suo essere il mio / e come essa, alla fine, anch’io schiantarmi» (vv. 1768-75). Compartecipare all’esistenza umana significa condividerne gli estremi, il disgusto e il sublime. Nella sua rilettura filmica Sokurov ha saputo rendere entrambi: il primo nell’incipit, con il protagonista che fruga nelle viscere di un cadavere putrefatto alla ricerca dell’anima, trovando solo «rifiuti»; il secondo nella sequenza dei due amanti che scivolano abbracciati in uno specchio d’acqua, una scena che entra di prepotenza nella storia del cinema. 

    “Partecipare”, al basso come all’alto. Ecco quello che Mefistofele non fa, sarcastico osservatore delle vicende umane che brama solo il non-essere, «spirito che sempre dice no» (v. 1338) e «non prende a cuore nulla» (v. 3488). A questo egli mira ridurre chi a lui si lega. E così, mentre Goethe conclude l’opera insinuando uno spiraglio di luce per Margherita come per Faust, Sokurov – riprendendo l’originaria allegoria morale cinquecentesca – vira verso un finale molto più inquietante. Posseduta Margherita e abbandonatala ai dèmoni del rimorso, Faust fugge con Mefistofele in una landa desolata, dove intima a un geyser di scomparire, bello e inutile, perché egli ha già scoperto come funziona. Nella mente di Faust il rapporto si è ribaltato, l’esistenza è divenuta funzionale alla conoscenza. E così, definitivamente smarrito nel suo delirio di onniscienza, egli s’inoltra nell’infinita distesa di un ghiacciaio invocando l’andare oltre, oltre, oltre… Ma è un oltre fine a se stesso, una maledizione circolare e cannibale, una ricerca che non ambisce più a trovare, ma soltanto a nutrirsi di se stessa. Faust è sazio, il desiderio abiurato. Mefistofele ha vinto. Chi avrebbe potuto salvarlo era proprio quel mondo di miseria dove ancora egli era uomo tra gli uomini (vv. 938-40). Poiché Penuria – ci ricorda Platone nel Simposio – è il vero nome dell’Amore.


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