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    Il Faust

    dopo Goethe

    Claudio Magris

    Il personaggio di Faust - come Ulisse, Antigone, Don Giovanni e altri - è una di quelle figure divenute, scriveva Paul Valéry, «strumenti dello spirito universale: esse vanno ili là da ciò che furono nell'opera del loro autore. Egli ha dato loro "funzioni", più che parti; le ha consacrate per sempre all'espressione di taluni estremi dell'umano e dell'inumano; e, quindi, svincolate da ogni avventura particolare».
    Il Faust per antonomasia, certo, è quello di Goethe. Ma per rendersi conto di ciò che significa il Faust di Goethe credo sia utile ripercorrere la storia di quello che è successo dopo il grandissimo Faust goethiano nei centosettant'anni che ci dividono dalla morte di Goethe e dunque dalla conclusione del suo capolavoro "incommensurabile", com'egli lo de-finiva pochi giorni prima di morire. Proprio per capire cosa significa oggi per noi il Faust può essere fecondo ricordarci di ciò che è avvenuto in questi centosettant'anni, di ciò che il capolavoro di Goethe ha significato per la civiltà europea e mondiale in questo secolo e mezzo e più, di come è stato accolto o rifiutato, capito o frainteso; di come è divenuto un punto di riferimento per ogni generazione e per ogni grande evento storico.
    Si potrebbe dire che quasi tutta questa storia, in questi centosettant'anni, è, molto spesso, la storia di un fraintendimento o di un rifiuto del Faust di Goethe, di un allontanamento, di un no, proferito magari con rispetto ma insistente. Tante volte si è cercato di allontanarsi dal Faust di Goethe, di scavalcarlo, di tornare indietro alle radici faustiane della leggenda e del vecchio libro popolare; si è cercato non dico di ignorare, perché è impossibile, ma in qualche modo di mettere da parte il capolavoro goethiano. Il tema faustiano, che rielabora pure tradizioni antiche come il mito di Prometeo
    o la leggenda di Simon Mago, trova la sua espressione canonica nel Volksbuch, nell'anonimo libro popolare tedesco del 1587, che racconta - condannandola da una cupa prospettiva medioevaleggiante e luterana - la sete di sapere, di piacere e di dominio di un uomo che vuole impadronirsi dei segreti della natura e della vita. Anche Il mago prodigioso di Calderòn, un capolavoro poetico, è una variazione del mito di Faust, con un forte accento posto - secondo una visione classica e cattolica - sulla dialettica fra il condizionamento fisico, sensuale degli impulsi e la libertà morale delle azioni. Un titano demonico e possente, disperato e grande nella sua colpevole disperazione e inevitabile dannazione, è il Faust della stupenda tragedia di Marlowe. Una speranza di salvezza si profila invece, secondo la fede illuminista nella ragione e nella libertà della ricerca, al personaggio faustiano abbozzato dal grande Lessing. Ma il fascino che il tema faustiano emana sui contemporanei guarda alla tradizione precedente a Goethe e implica una distanza dal capolavoro di quest'ultimo, che è anche distanza dalla fede nel progresso. Per tutte queste ragioni, oggi noi ci dobbiamo porre, nei confronti del Faust, le domande fondamentali, simili alla famosa "Gretchenfrage", la domanda che Margherita rivolge a Faust quando gli chiede se crede in Dio. Così noi oggi dobbiamo chiederci se crediamo nel Faust e dobbiamo anche chiederci cosa significa, oggi, credere nel Faust. Proprio per questo è utile vedere come le generazioni passate, e i loro grandi rappresentanti, si sono confrontati con questa domanda.
    Potremmo partire da molti episodi, c'è solo l'imbarazzo della scelta. Un esordio significativo e scherzoso potrebbe essere l'incontro fra Goethe e il giovane Heine, allora ancora sconosciuto, il quale si reca, pieno di reverenza, a visitare Goethe nel 1824, quando Goethe è già il grandissimo poeta riconosciuto in tutta Europa, il vegliardo rispettato e venerato come un nume, la cui casa di Weimar è una meta per le più grandi figure di tutta Europa. Alla fine dell'udienza, quando Goethe domanda a Heine a che cosa stia lavorando, il giovane risponde con sfrontatezza: «A un Faust, eccellenza», sapendo che questa risposta costituisce una improntitudine, quasi una espressione di sfacciata familiarità. È molto significativo che protagonista di questo episodio sia Heine, proprio perché è stato Heine, più tardi, a dire che con la morte di Goethe si chiudeva "l'età artistica" ovvero un grandissimo periodo della civiltà tedesca ed europea, in cui la poesia aveva potuto essere non soltanto creazione di grandi opere d'arte, ma soprattutto creazione di opere che rispondevano alle grandi domande della vita e della civiltà, che davano il senso della totalità e dell'unità della vita e ne afferravano il significato - opere quindi il cui valore, nella realtà degli individui e della società, andava anche ben al di là della stessa perfezione artistica.
    Il Faust è in questo senso un'opera suprema, una sintesi di tutta una civiltà, che raccoglie tutta l'eredità del passato e si protende verso il futuro, un'opera che sarà appunto letta non solo come un capolavoro poetico, ma anche come un vangelo dell'esistenza moderna. Lo stesso Heine, che da giovane proclama di lavorare a un Faust e che lo scriverà veramente, pochi anni dopo dà malinconicamente il congedo all'epoca del Faust, all'epoca in cui era possibile scrivere dei capolavori come Faust, e si considera scrittore di un'altra epoca, un'epoca moderna ed epigonale, frantumata ed ironica, che secondo lui stesso non permette più la creazione di simili opere d'arte, di opere d'arte come il Faust, e non per mancanza di talento dell'uno o dell'altro scrittore, ma proprio perché l'esistenza frantumata, non più classica, non permette più la creazione di grandi opere, di grandi sintesi classiche della vita e della storia, quali appunto il Faust di Goethe.
    Interrogando la figura di Faust, ogni generazione si interroga sul significato della vita e della storia e anche sul significato di se stessa. lo cercherò di parlare in modo molto rapido, e quindi fatalmente superficiale e incompleto, di queste domande che sono state poste al Faust negli ultimi centosettant'anni, cercando solo di dare un'immagine, certo inadeguata, di questo grandioso capitolo della storia della cultura. La prima grande domanda riguarda soprattutto il secondo Faust, il finale: Faust si salva o non si salva? e se si salva, perché, grazie a che cosa? Goethe, elusivo e reticente come sempre, ha posto per primo le fondamenta di questa incertezza e di questa oscillazione, di questa ardua domanda che sembra sfidare ogni risposta definitiva. Egli ha parlato di una soluzione al cinquanta per cento, come se Faust si salvasse metà per merito suo, grazie allo Streben, al suo incessante anelito che avrebbe dunque in sé, perfino nei suoi errori e nelle sue colpe, la propria giustifica zione, e per metà grazie a qualcosa d'altro, qualcosa che Goethe si guarda bene dal definire e lascia appunto indefinibile, indicando solo in qualche modo che l'uomo ha bisogno anche di qualcosa d'altro, esterno a lui, insomma di una qualche grazia, anche se Goethe è lontanissimo da ogni professione o fede religiosa.
    La domanda fondamentale dunque, che si ritrova continuamente con le risposte più contrastanti, riguarda il significato del faustismo ossia dello Streben, dell'anelito, della tensione faustiana. È una domanda tipicamente moderna, perché il mondo antico non conosce e non può conoscere nessun Faust e nessun faustismo: il mondo antico ignora il problema dello Streben; se Faust desidera l'attimo e sogna la possibilità di poter dire all'attimo di fermarsi, di trovare un attimo degno di questa invocazione, il mondo classico antico non conosceva questa inquietudine, proprio perché conosceva il possesso dell'attimo e abitava serenamente nel presente. Per gli eroi classici sono innumerevoli gli attimi cui si potrebbe dire di fermarsi, tutta la vita ha questa autosufficienza pervasa di significato; l'individuo della classicità, direbbe il nostro Michelstaedter, conosceva la persuasione. Per Michelstaedter, come egli scrive nel suo capolavoro La persuasione e la rettorica (1918), la persuasione significa il possesso presente della propria vita, la capacità di vivere l'attimo, ogni attimo e non solo quelli privilegiati ed eccezionali, senza sacrificarlo al futuro, senza considerarlo semplicemente un momento da far passare presto per raggiungere qualcosa d'altro. Quasi sempre, nella nostra esistenza, abbiamo troppe ragioni per sperare che essa passi il più rapidamente possibile, che il presente diventi presto futuro, che il domani arrivi quanto prima, perché attendiamo con ansia il responso del medico, l'inizio delle vacanze, il risultato di un'attività e così viviamo non per vivere, ma per essere già vissuti, per essere già morti. L'epoca contemporanea ha accelerato questo processo; l'ansiosa velocità con cui il presente ci viene strappato e veniamo scagliati nel futuro.
    Faust non conosce la persuasione, il sereno sostare nell'attimo e nel presente; brucia invece tutta la vita, ogni attimo e ogni presente nel suo Streben. Questa prima grande domanda, che le generazioni successive pongono al faustismo, riguarda dunque l'essenza di quest'ultimo: per taluni, soprattutto per coloro che credono nella operosa e fattiva civiltà moderna e nel suo progresso, il faustismo è un'incessante azione che redime e giustifica la vita; per altri invece il faustismo, la febbrile e inquieta smania di agire, sarà invece inquietudine, nevrosi, assillo, angoscia - sarà la Cura, la Sorge di cui tanto parlerà l'esistenzialismo e che compare anche nel Faust di Goethe, a insinuare appunto l'angoscia.
    La seconda grande domanda, che ci si comincia a porre subito dopo la morte di Goethe (ma talora anche prima), riguarda soprattutto il secondo Faust, nel quale talora Goethe sembra cambiare direzione di marcia rispetto al primo e soprattutto rispetto alla sua "faustiana" fede nell'incessante forza creatrice della natura. Nel secondo Faust Goethe mette in scena anche e soprattutto il trionfo dell'artificio, rappresenta l'esistenza e la storia anche come una specie di Café Chantant; esprime inquietanti presagi del carattere sempre più artefatto, posticcio, della vita e della civiltà. Goethe esprime una gran-de crisi, la grande crisi della classicità e della fede classica nella forza della natura, di quella natura fuori dalla quale, per il Goethe giovane, non si poteva invece cadere e che presiedeva, sfingica e ironica, anche alle manifestazioni che sembrano negarla.
    Nel secondo Faust Goethe mette in crisi questa fede nella autenticità naturale, nella organicità della vita, nella vitalità stessa; il secondo Faust è anche il poema drammatico della vita artificiale, della società che sostituisce la natura, come rivelano tanti episodi -basti pensare alla creazione di Homunculus, l'uomo creato in laboratorio, o al grottesco carnevale in cui la natura viene sopraffatta dalla moda e la poesia dal danaro, allo stesso episodio di Elena, che si dissolve in una mera parvenza.
    Ci si è chiesti se Goethe abbia voluto esprimere la crisi di un'epoca, della sua epoca, conservando tuttavia la sua fede nell'eterna capacità della natura di rinnovarsi oltre ogni crisi, e conservando quindi anche la fede nella storia e pure nell'arte classica, la fede nella possibilità che, dopo ogni crisi storica, ci si possa riaccostare all'universale-umano e creare opere classiche che lo rappresentino.
    Ma ci si è chiesti anche se Goethe invece non abbia, nel secondo Faust, dato in qualche modo un tragico addio definitivo ad ogni classicità, ad ogni fiducia nella vita e nella storia, ad ogni fede nell'eterna capacità di rinnovarsi della natura. In questo caso, la crisi che Goethe rappresenta nel secondo Faust non sarebbe un'eclissi, ma un tramonto definitivo dell'universale-umano classico. È chiaro che, a seconda della risposta che si dà a queste domande, cambia completamente non soltanto il giudizio sul significato del Faust, ma cambia anche il senso con cui si vivono la propria vita e la propria stagione storica. Ecco perché ogni discorso sul Faust, ogni rappresentazione, ogni confronto col Faust investono in qualche modo le cose ultime.
    Goethe stesso ha potuto assistere all'inizio di questa crisi del Faust, perché già nel 1791, un anno dopo il suo Fragment faustiano, uno scrittore dello Sturm und Drang, Klinger, scrive un romanzo in cui il protagonista è Faust ed è votato al nichilismo, al non-senso, alla perdizione. Uno scrittore che Goethe amava moltissimo, che amava in modo profondo e inquietante anche se era così lontano da lui, ossia Byron, ha scritto, quando Goethe era vivo (del resto Goethe gli è sopravvissuto), un suo Faust, il Manfred, pervaso anch'esso di disperazione nichilista, di inquietudine irresoluta, un'opera in cui certo il faustismo non trova salvezza, anche se conserva una grandezza demonica.
    Gli esempi sono moltissimi, soltanto il loro mero elenco ci porterebbe al di là dei limiti di tempo di questa chiacchierata. Ancora prima della morte di Goethe, uno scrittore teatrale tedesco di scomposto ma grande talento, Grabbe, scrive nel 1829 un dramma interessantissimo, Don Juan und Faust. Anche questa è un'opera estremamente malinconica, che rappresenta amaramente un faustismo in crisi: nel mondo degradato in cui Grabbe sente di vivere - appunto nel mondo che non conosce più la possibilità di grandi e forti sentimenti, di speranze storico-politiche e di opere che le rappresentino - la vitalità di Don Giovanni, sia pure spogliata dei suoi significati metafisici, conserva il suo significato, la sua brada e quasi animale ma eroica vitalità, mentre Faust, con i suoi tormenti filosofici, diventa quasi una marionetta, una figura patetica di dotto tedesco inadeguato alla vita e alla realtà, tragico proprio perché patetico.
    Molti decenni più tardi, Nietzsche vedrà in Faust l'incarnazione di una incapacità molto tedesca di vivere la vita, di una tedesca passione cerebrale e interiore incapace di tradursi in realtà, e ironizzerà questa figura; dirà di ridere di Faust. Nel mondo messo in scena da Grabbe, che è un mondo senza significato, la figura di Faust è destinata a una caduta, sia pure nobile e grande, a una condanna, sia pure alta. Faust è già un personaggio non più da tragedia, ma quasi da commedia, nel senso usato da Marx, quando diceva che le figure della storia universale, che per la prima volta sono comparse in forma di tragedia, nella loro fase finale ricompaiono ma in forma degradata di commedia, in forma di parodia. Anche nel Doktor Faustus Thomas Mann farà della parodia la chiave essenziale del suo faustismo.
    Nelle tante critiche rivolte al Faust di Goethe, critiche che all'inizio trovano consenzienti quasi tutti, conservatori e progressisti, concordano pure molti teologi sia cattolici sia protestanti. I cattolici danno la colpa ai protestanti, vedono nel faustismo un fenomeno tipicamente protestante, e i protestanti vedono invece nel Faust qualcosa di cattolico e rimproverano soprattutto a Goethe il finale cattolicheggiante. Criticano il Faust di Goethe anche gli intellettuali progressisti, gli scrittori della Giovane Germania: le accuse sono quelle di non avere capito la rinascita della Germania e le sue trasformazioni sociali, di essere stato insensibile nei confronti del proprio Paese e soprattutto di essersi concentrati su una grande figura individuale strappata dal suo contesto sociale umano e più ampio. Anche filosofi notevoli e degni di tutto rispetto rimprovereranno a Goethe di aver mancato la possibilità di fare del suo Faust un'opera classica e universale proprio per averlo avulso dal grande contesto dello sviluppo storico corale e collettivo.
    Una delle accuse più curiose e frequenti, avanzata dalle parti più diverse e anche ideologicamente più lontane, sarà quella che rinfaccerà a Goethe di non aver capito Faust, suggerendo implicitamente che Faust è più di Goethe, come se il vecchio tema popolare, tardomedioevale e rinascimentale che vedeva Faust finire dannato contenesse alcune verità essenziali, che Goethe poi non avrebbe capito. Infatti molti proporranno di ritornare alle origini pre-goethiane del Faust, come se, nel mondo della crisi contemporanea che non conosce più le grandi speranze e le grandi fedi del progressismo moderno (quello che induce a celebrare il Faust di Goethe come un "Vangelo" dell'azione), bisognasse tornare al Faust pre-moderno. Questo Faust pre-moderno, che si danna e che non crede più nella armoniosa evoluzione dell'umanità, ci sarebbe più vicino, nella nostra sensibilità contemporanea, del Faust di Goethe, del Faust che si salva. Insomma un Faust veramente attuale sarebbe il Faust in cui è il diavolo a vincere la sua scommessa. Infatti non è un caso che quasi tutti i Faust (sono moltissimi, potrò solo citarne qualcuno) successivi a quello goethiano finiscano dannati, perdano la loro scommessa.
    Molte di queste critiche contengono anche degli spunti estremamente acuti. Un importante filone di critica antifaustiana proviene dall'Austria absburgica, cioè dalla cultura austriaca barocco-cattolica, a cominciare dagli anni tra il 1830 e il 1840; questa cultura accusa il faustismo, la smania soggettivistica di azione senza scopo - ossia lo Streben - di essere un tipico fenomeno moderno, una prevaricazione soggettiva dell'individuo che pretende di proclamarsi un titano e in tal modo perde le sue radici nell'Essere e cade preda dell'angoscia, della cura. Questa critica vuole difendere l'Essere, la vita dalle prevaricazioni e dai turbamenti della Sorge, della Cura e quindi dallo Streben. Un teologo danese, Martensen, avanzerà questa critica nei confronti del Faust di Goethe e vedrà un Faust più autentico in quello di Lenau, grande poeta lirico austroslavo-ungherese morto pazzo, il quale nel suo poema faustiano mostra un Faust negativo e straziato, lacerato, incapace anche di godere e afferrare la vita e che alla fine si uccide perché pensa di essere soltanto un sogno inquietante di Dio.
    L'opera di Lenau è un'opera poeticamente bellissima, nella quale tuttavia non a caso ogni unità epica e anche ogni tensione drammatica si dissolvono in una liricizzazione, in una frantumazione lirica. Se il Faust di Goethe ha una sua epicità, un senso fortissimo dell'unità della vita nonostante i drammi di cui essa è costellata, il Faust di Lenau, come quasi tutti gli altri Faust dannati, è volutamente privo di questa unità epica e di questa tensione drammatica. È un'espressione del Weltschmerz, del dolore cosmico; Martensen vedeva in Lenau la giusta rappresentazione di un male moderno.
    Dalla scuola viennese, che si rifà soprattutto alle lezioni faustiane o antifaustiane di Enk von der Burg, usciranno degli anti-Faust che opporranno il primato dell'Essere allo smanioso fare moderno; il più recente è un curioso romanzo uscito nel 1969, Die Fabel von der Freundschaft (La favola dell'amicizia) di Albert Paris Gùtersloh, una curiosa e bizzarra figura di romanziere e pittore, un'opera antititanica nella quale è Faust a sedurre il diavolo.
    In genere, si rimprovererà spesso a Goethe di aver riconosciuto troppo poco potere al diavolo, di avere avuto una eccessiva fiducia nella dialettica della storia: non a caso nel Faust di Goethe Mefistofele dice di essere colui che vuole ìl male ma che, suo malgrado, è costretto a fare il bene, a svolgere una funzione che ha un senso nel disegno della storia, che è anche positiva. Alla coscienza contemporanea verrà sempre più spesso a mancare proprio questa fiducia nella dialettica, nella capacità della storia di integrare il negativo e ìl male. Anche un grande poeta lirico romantico tedesco, Eichendorff, autore di tanti incantevoli Lieder musicati da Schumann e da Schubert, rimprovererà Goethe di aver dato troppo poca realtà al diavolo, ossia al negativo; gli rimprovererà la hybris tipicamente moderna del soggetto che si autodivinizza, titanicamente, e in tal modo perde il proprio rapporto armonioso col mondo e anche con se stesso.
    Invece i critici legati a concezioni positive della storia, che credono nel progresso storico, celebreranno proprio il Faust goethiano come simbolo di questo progresso: da Karl Rosenkranz, per il quale il Faust di Goethe è il Vangelo moderno della civiltà che si redime nell'azione, sino a Lukàcs, per il quale, nella sua concezione dialettica marxista, il Faust di Goethe è il grande poema drammatico di una umanità che procede e avanza, nonostante tutti gli errori, le colpe, le ricadute e le sconfitte, verso mete e realizzazioni sempre più alte.
    Altri scrittori, intellettuali e filosofi progressisti saranno invece piuttosto negativi o comunque critici nei confronti del capolavoro goethiano. Uno di questi è Friedrich Theodor Vischer, il geniale filosofo autore di una celebre teoria del comico e soprattutto inventore o scopritore della "perfidia dell'oggetto", del disagio dell'uomo contemporaneo fra gli oggetti e nella realtà, e degli aspetti tragicomici di questo disagio, che emergeranno ad esempio più tardi nei film di Buster Keaton o di Chaplin. Per Vischer, Goethe non avrebbe mostrato l'emancipazione politica del suo eroe in connessione con il suo mondo; un autentico Faust avrebbe dovuto essere anche un rivoluzionario sociale. Al Faust di Goethe, per Vischer, manca il "Bauemkrieg", la grande guerra dei contadini del secolo in cui è vissuto Faust ossia lo sfondo sociale. Il Faust sarebbe oppresso da una seriosità tipicamente tedesca, contro la quale Vischer, come Nietzsche, invoca una risata aristofanesca, proprio per liberare Goethe dal falso culto che lo mummifica. Vischer stesso scrisse una parodia del secondo Faust, una specie di terzo Faust, anche scurrile.
    Molte critiche rifiutano il secondo Faust, misconoscendolo nella sua grandezza e accusandolo di astrazione, di cerebralismo, di allegorismo. Critiche che arriveranno fino a Benedetto Croce e che misconoscono proprio la grandezza suprema del secondo Faust, che racconta già la nostra storia; il poema che porta Faust e tutti noi nel "grande mondo". Un'opera, il secondo Faust, forse troppo in anticipo sul proprio tempo per poter essere compresa. Perfino Mazzini, che in un saggio giovanile esalta il primo Faust di Goethe, dice che l'eroe goethiano è l'eroe del tempo intermedio, della crisi tra il vecchio mondo e il nuovo che non è ancora sorto e che dovrà avere un altro eroe; Mazzini afferma, alla fine di questo saggio, che non ci sarà un secondo Faust. Quando invece Goethe, più tardi, scrisse questo secondo Faust, Mazzini si mostrò cautamente indeciso, ma sostanzialmente lontano anch'egli da quell'opera, avverso al suo carattere pretesamente allegorico e medioevale.
    Il primo grande storico della letteratura tedesca, Gervinus, accusa Goethe di non saper superare la dimensione privata e di esser privo di un sentimento nazional-progressivo, accusa ribadita da un altro notevole storico della lettera tura, Julian Schmidt, e da un romanziere come Friedrich Spielhagen, per il quale i Faust sono degli individui morbosamente incapaci di agire; lo Streben non appare più come l'azione, ma soltanto come una smania inquieta che impedisce una vera azione. L'aggettivo "faustiano" è spesso usato in un senso negativo; in una lettera, il padre di Marx rimprovera al figlio atteggiamenti o idee "faustiane" ovvero negativamente inconcludenti. Questa inattività sarà una costante accusa rivolta all'eroe di Goethe; dopo la seconda guerra mondiale, Eisler scriverà un'opera musicale sul Faust, nella quale Faust appare il simbolo dell'intellettuale umanista egoista che non sa unirsi al popolo nella guerra dei contadini - Eisler scrive il suo testo nei primi anni del secondo dopoguerra, nella Repubblica Democratica Tedesca, in un momento di ortodossia marxista di uno dei più ortodossi regimi marxisti, dei quali egli è fautore.
    Pochi anni dopo la morte di Goethe, Heine scrive il suo Faust e ne fa un balletto: Mefistofele diventa una seducentissima Mefistofele, ballerina in calzamaglia, e tutta la storia faustiana diventa una parodia dolorosa e beffarda, un malinconico e addolorato congedo che Heine rivolge al senso faustiano della vita, un congedo alla grande stagione della grande poesia dato da uno dei più grandi poeti tedeschi. Estremamente interessanti sono anche le annotazioni di Schopenhauer, per il quale lo Streben diventa la manifestazione dell'ingannevole volontà di vivere e l'eroina del poema diventa Margherita, proprio perché sa soffocare in sé la volontà di vivere, la dolorosa illusione di vivere, e sa così raggiungere la verità. Bisognerebbe parlare anche dei numerosi Faust che nascono in terra non tedesca, da quello di Puskin del 1826 al racconto di Turgeniev, dal dramma dell'ungherese Imre Madàch all'italiano Boito, ai Faust dell'America Latina, che spesso prendono lo spunto dall'opera di Gounod e pongono l'accento soprattutto sulla funzione redentrice del personaggio femminile. Come ha osservato Borges a proposito di un Faust argentino di Estanislao Del Campo, anche in questo caso si ritorna spesso all'antico motivo pre-goethiano.
    Nel 1871, con la fondazione del Reich, ci sono invece molte celebrazioni entusiaste ed esaltate del Faust, nelle quali il faustismo e lo Streben faustiano diventano il simbolo dell'espansionismo dell'impero tedesco che deve andare verso l'illimitato, diventano espressione di una pretesa essenza faustiana dello spirito tedesco, diventano la quintessenza del germanesimo. Tutto ciò va, ovviamente, contro lo spirito di Goethe, cosmopolita e universale e proprio per questo spesso rimproverato di scarsa tedeschità dai tedeschi; spesso dunque anche in questa esaltazione dello spirito faustiano (di un Faust che diventa quasi una specie di Sigfrido), si assiste a una dissociazione fra Goethe e il Faust. Naturalmente stiamo parlando di grandi fenomeni, di atteggiamenti culturali dell'epoca, e non della vera e propria critica letteraria, che continua a dare delle interpretazioni fedeli, accurate e acute del capolavoro goethiano.
    Più tardi ancora, questa esaltazione del faustismo come essenza del germanesimo e della sua tensione all'illimitato viene esasperata, ma al contempo cambia di significato. Fra i tanti esempi, basti ricordare quello che li riassume tutti ossia quello di Spengler, l'autore del celeberrimo Tramonto dell'Occidente. Per Spengler l'anima faustiana è l'anima occidentale ossia l'anima tedesca, lo spirito che non ha mai requie ed è sempre destinato ad agire, a lottare, ad avanzare, a conquistare ma per il nulla; non, come per i teorici patriottardi dell'impero guglielmino, per creare un grande mondo tedesco, ma piuttosto per andare incontro alla catastrofe e alle distruzioni con lo spirito tedesco di amore della fatalità e anche della propria distruzione. Questo faustismo di Spengler, ovviamente, non ha nulla in comune con quello di Goethe e nemmeno con quello della tradizione precedente.
    Anche tra i Faust non tedeschi si diffonde una profonda inquietudine, un senso dolorosissimo che l'avventura di Faust è l'avventura suprema, ma - in un mondo come quello contemporaneo -comincia a scricchiolare. Il senso del Faust (della scommessa, della domanda di Margherita sulla fede o no in Dio, della salvezza o della perdizione) esiste soltanto quando c'è la fede in un individuo in qualche modo forte, finché si pensa che esista un individuo, magari infelice, tragico, percosso dalle sofferenze ma dotato di una precisa e forte individualità, in grado dunque di porre il problema della propria salvezza o della propria dannazione, sia che la si intenda sul piano religioso sia che la si intenda su quello storico-politico-sociale. Quando invece una gran parte della cultura moderna, negli ultimi decenni del XIX secolo, comincia a dubitare che esista l'individuo e comincia a credere che l'individuo sia soltanto un prowisorio e labile insieme di pulsioni e contraddizioni, un' anarchiadi atomi", come diranno Nietzsche e Musil, un "flatus vocis" non più reale di una giacca che ci si mette addosso, allora il problema del faustismo comincia a entrare in una grande crisi e nascono grandi Faust che vivono proprio di questa angoscia.
    Se non esiste più l'individuo, se l'individuo si dissolve nel magma delle sue pulsioni, come afferma tanta cultura del secolo scorso, da Nietzsche a tante filosofie analitiche, allora Faust non può essere se non una dolorosa parodia dello Streben faustiano, che è la quintessenza dell'individualismo. Infatti nelle culture in cui esiste ancora - magari nella tragedia - una forte fede in quello che San Paolo chiama "il buon combattimento" della vita, c'è anche la fede nel Faust: Bulgakov scrive per decenni Il Maestro e Margherita, in una delle situazioni più difficili e tragiche della storia, ma scrive un'opera in cui trapela una fede nella scommessa faustiana, nel problema della salvezza o non salvezza, proprio perché Bulgakov vive in una cultura animata dal senso che la vita, anche nella tragedia, è costituita dai grandi interrogativi, e dal senso che gli individui, magari travolti e stritolati, sono individui la cui esistenza ha un significato.
    La cultura occidentale appare invece spesso permeata dal senso del niente, da uno svuotamento della fede nell'individuo. Il famoso monologo iniziale faustiano sulla vanità dello studio diventa, in Flaubert, la comica, grandiosa e grandiosamente imbecille enciclopedia di Bouvard e Pécuchet; nel 1924 Michel de Ghelderode scrive una Mort du Docteur Faust, in cui Faust non è più vivo ma monologa facendo la parodia di se stesso; la storia del Faust diventa la storia delle complicazioni tra i veri personaggi del mito faustiano e gli attori che interpretano la loro parte, in un pandemonio di equivoci che declassa la vicenda faustiana a grottesca e pagliaccesca insensatezza; solo il diavolo conserva una sua dignità e rifiuta l'anima di Faust, senza neanche dirgli se ne abbia una o no.
    Una delle più grandi pagine sullo svuotamento del Faust l'ha scritta Svevo. Si tratta di uno dei più grandi Faust anche se è un apologo brevissimo, una mezza pagina scritta sul retro di uno degli ultimi racconti incompiuti e chiamata convenzionalmente "L'ora di Mefistofele". Svevo immagina che il protagonista - il quale è sempre un vecchio, dovrebbe essere il vecchio Zeno che continua a vivere dopo aver scritto La coscienza di Zeno - stia andando a letto. È mezzanotte, la moglie sta dormendo e russando pesantemente, come la descrive Svevo con scarsa galanteria coniugale, e il vecchio che si sta spogliando pensa: è mezzanotte, quindi è l'ora in cui potrebbe venire Mefistofele e propormi il vecchio patto. E da uomo secolarizzato, completamente polverizzato dalla secolarizzazione come è lui, pensa: certo che gli darei l'anima, subito, ma per cosa? Per la giovinezza? Per carità, la gio-
    vinezza è dolorosa e piena d'inquietudini e di malinconia, anche se la vecchiaia non diventa per questo più allegra. Per l'immortalità? È un'idea terribile questa di non poter morire mai, non per niente Gesù nella leggenda ha condannato l'ebreo errante a una vita eterna, ma non per questo la morte diventa meno orribile. E il vecchio s'accorge che non ha niente da domandare. E a questa terribile immagine, una delle spiagge estreme del nichilismo occidentale, si sovrappone un'altra immagine: il vecchio si figura Mefistofele che nell'inferno si gratta perplesso la barba, come un viaggiatore di commercio di una ditta i cui prodotti sono scarsamente richiesti. A questa immagine del diavolo come viaggiatore di commercio in crisi, egli ride forte, con una delle più terribili risate, veramente nietzscheane, che siano echeggiate nella letteratura. Mentre ride, s'infila fra le coperte, e la moglie, mezza svegliata, gli dice che lui è ben fortunato ad aver voglia di ridere anche a mezzanotte, e si volta e continua a russare dall'altra parte.
    Qualche anno più tardi, nel Mon Faust di Paul Valéry, scritto fra il 1941 e il 1945, Mefistofele non si raccapezza più e nemmeno Faust sa bene se esiste o no, crede di esistere soltanto perché esiste in un libro; la crisi dell'identità faustiana comporta la crisi di ogni individualità, si può soltanto tirare a sorte per sapere chi uno sia stato. Un niente vertiginoso pervade anche il Faust di Pessoa; Tommaso Landolfi mostra nel suo Faust ('67) un Faust che non vuole diventare personaggio; diversamente dal personaggio pirandelliano che preme perché il drammaturgo gli dia vita, questo è un personaggio che non vuole nascere e trova in questa sua volontà di non essere il suo unico significato. Nel Votre Faust di Butor-Posseur, una pièce scritta fra il '60 e il '68 in varie stesure, con l'ambizione di creare una pièce variabile, dalla quale ogni spettatore possa scegliere la sua parte, come in un testo mobile, si immagina un direttore di teatro che commissiona un Faust a un drammaturgo. La tentazione sarebbe appunto quella di scrivere il Faust, con tutte le implicazioni politiche, sociali ed esistenziali; alla fine il protagonista, il drammaturgo, si salva proprio perché si rifiuta di scrivere un Faust.
    Il più grande esempio di ritorno alle origini pre-goethiane del Faust è ovviamente il Doktor Faust di Thomas Mann, nel quale il mito faustiano diventa l'essenza sia della catastrofe dell'intera storia tedesca sia della tragedia dell'arte contemporanea, con tutte le implicazioni e le note polemiche insite in questa concezione dell'arte e soprattutto della musica contemporanea. È significativo che pure un grande scrittore classico e vicino a Goethe come Thomas Mann, forse l'unico scrittore contemporaneo veramente vicino a Goethe, abbia sentito il bisogno, per accostarsi a Faust, di riandare indietro, di risalire alla fase precedente a quella goethiana.
    Potrei fare ancora molti altri esempi, di più o meno recenti Faust tedeschi e non tedeschi. Ricorderò soltanto, fra le diagnosi sulla fine del Faust, la famosa battuta di Günther Anders, secondo il quale nell'era della bomba atomica, di una catastrofe completamente sottratta alle possibilità della responsabilità individuale, Faust è morto, non è più possibile. Ricorderò ancora il Faust croato di Snaider, un Faust ambientato durante la seconda guerra mondiale, che si rifà a un reale episodio della guerra e della resistenza in Jugoslavia e che intreccia la rappresentazione del Faust di Goethe alla vicenda che coinvolge gli attori di questa rappresentazione nella resistenza e nella lotta contro i nazisti e gli usta-scia (Margherita ad esempio viene torturata dagli ustascia e così via). Si tratta di una attualizzazione e dunque, a differenza degli esempi precedenti, di un atto comunque di fede nel Faust o nel faustismo.
    Ma il più grande atto di fede faustiano relativamente recente si trova in un capolavoro della narrativa universale, nel Grande Sertào di Jòao Guimàraes Rosa, un Faust brasiliano che non soltanto costituisce uno dei vertici della narrativa mondiale, ma anche recupera quella dimensione epica che è necessaria ad ogni autentico confronto con il tema faustiano. Il protagonista, una notte, va ad attendere il diavolo e il diavolo non viene, perché il diavolo è proprio il nulla, colui che non c'è, colui che non viene. Il diavolo è appunto il terribile gorgo del nulla, la massima tentazione; il più grande pericolo che corre il protagonista è quello di cedere a questa rivelazione del niente, di credere a ciò che vede e cioè di non credere a niente. È una pagina breve, ma amio awiso una delle più grandi pagine faustiane, di tutta la storia del faustismo. Nonostante la terribile notte (notte canonica della tradizione faustiana dell'evocazione del diavolo) al mattino il protagonista risale a cavallo, rigenerato anch'egli nel rosso dell'aurora come il Faust di Goethe, e riprende la sua vita, si rituffa, com'egli dice, nell'andirivieni, ossia nella vita, pieno di turbamento ma non senza destino. È una delle rare proposte contemporanee in cui lo Streben continua, sia pure in altre forme, ad avere un significato.
    Ho abusato del tempo che mi è stato concesso, anche se ho tralasciato tante, troppe cose, e senza soffermarmi, come avrei dovuto e dovrei, sui grandi testi di critica letteraria che hanno tracciato egregiamente la storia del Faust e del faustismo e ai quali è debitrice anche questa chiacchierata. Ho cercato di passare in rassegna uno stato d'animo che dura da un secolo e mezzo. Una domanda che ci dobbiamo porre è anche quella che parecchi anni fa ho posto a Giorgio Strehler in occasione della sua traduzione, messinscena e interpretazione dell'intero Faust goethiano I e Il al Piccolo di Milano e che è questa: la storia del faustismo, un grande capitolo di storia, è la storia di una crisi. Si tratta di una crisi storicamente provvisoria o assoluta, definitiva? Che cosa significa oggi rappresentare il Faust? Quando un grande uomo d'arte si pone davanti al Faust, naturalmente ben consapevole di tutto ciò che è accaduto col faustismo e anche della crisi che lo ha investito nell'ultimo secolo e mezzo, come fa a salvare quel senso classico, universale-umano del Faust, senza ignorare la crisi contemporanea e anche il suo scetticismo nei confronti del Faust, ma attraversando a fondo questa crisi, per superarla? È anche questo un Faust, un'impresa davvero "incommensurabile", come Goethe diceva del Faust? Forse, come aveva più o meno detto Strehler, lo Streben di tante inesauribili riprese e messinscene è già una risposta.


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