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     Dio e l’uomo

    nelle Elegie duinesi

    di R.M. Rilke

    Ennio Laudazi

    rilkeelegie

     

    «Essere qui è magnifico (Hiersei ist herrlich)»: Queste parole, comprese nella Settima Elegia 39, sintetizzano l’intero messaggio rilkiano in una formula, una formula fondamentale delle Elegie, come ha scritto Romano Guardini.[1] Infatti, quasi a conferma e con una certa enfasi, con le Elegie duinesi l'autore «realizza nella sua poetica un'interpretazione dell'esserci» e, studiando le Elegie, si arriva alla convinzione che in esse «si celi una lettura dell'esistere che ci interpella come eredità ineludibile (...), una delle più potenti visioni del mondo», ha scritto Silvano Zucal nella premessa allo studio impegnato e impegnativo del Guardini sopra citato, confortato e sostenuto dall'attenzione di H.G. Gadamer e M. Cacciari nei loro approfondimenti specifici, seppure in chiave critica.[2]
    Di questo grande lirico tedesco del '900, educato nella fede cattolica e già all'età di 14 anni ribelle contro tale formazione, desidero evidenziare alcuni nuclei ispiratori del suo pensiero filosofico-religioso per appurarne la verità oggettiva. Questi nuclei si condensano intorno al mistero di Dio (teologia) e al mistero dell'uomo (antropologia). Concluderò con un florilegio di alcune delle più belle e significative immagini poetiche di Rilke, limitandomi a ripercorrere appunto le Elegie duinesi, tutto con molta prudenza e discrezione, per un proficuo dialogo tra teologia spirituale e letteratura.
    Ritorna alla mente in proposito il messaggio di Giovanni Paolo II ai partecipanti al Giubileo degli artisti, il 18 febbraio 2000. Disse tra l'altro il papa: «Nel vostro spirito Dio si lascia intravedere attraverso il fascino e la nostalgia della bellezza. Non c'è dubbio, infatti, che l'artista viva con la bellezza una particolare relazione e si può anzi dire che la bellezza sia "la vocazione a lui rivolta dal Creatore"».[3]

    Le Elegie duinesi

    Nell'estate del 1921 Rilke scopre a Muzot, nel Vallese, un torrione medievale che l'amico Reinhart gli consente di scegliere come residenza (Heimat). Qui porta a compimento le Elegie duinesi. Testimonierà il 19 maggio 1922: «La coscienza d'improvviso risanata della mia terra profondamente smossa mi ha prodotto una grande stagione dello spirito e una lunga mai conosciuta forza di irradiazione del cuore».
    Per offrire una prima tonalità interpretativa dei contenuti teologici e spirituali delle Elegie, riferisco quanto affermava Rilke in una delle dieci lettere scritte da Roma il 23 dicembre 1903, indirizzata al giovane poeta Kappus: «E se lei si allarma e si tormenta pensando all'infanzia e alla quieta semplicità che a essa si collega, perché non può più credere in Dio, il quale vi dimora ovunque, allora si domandi (...) se veramente abbia perduto Dio. O non piuttosto che mai lo ha posseduto (...)? Ma se lei riconosce che egli non era nella sua infanzia, e neppure prima, se intuisce che Cristo è stato illuso dal suo desiderio (...), cosa l'autorizza dunque a rimpiangerlo, lui che non fu mai, quasi fosse passato, e a cercarlo quasi fosse perduto?».[4]
    A questo punto, dopo un accenno al contesto autobiografico della composizione poetica, provo ad offrire una brevissima sintesi dei nuclei ispiratori delle singole Elegie.
    La prima ruota intorno al mistero dell'uomo nella sua incomunicabilità, in dimensione verticale e in dimensione orizzontale. L'uomo non può "adoperare" e non può essere "adoperato".
    La seconda verte sull'uomo nella sua labilità, fragilità, inconsistenza.
    La terza afferma che l'esistenza si dà unicamente nel piccolo mondo di ciò di cui l'uomo è consapevole; non appena si va più a fondo, tutto si perde nell'indefinito.
    La quarta definisce che l'essere "uomo" sta nel guardare e nell'essere guardato.
    Nella quinta, l'uomo è preda di una potenza impersonale che si comporta con lui come l'energia con l'ingranaggio di una macchina.
    Secondo la sesta, per l'uomo è impossibile dialogare anche con l'eroe, perché egli deve correre per la sua strada sulle vie del mondo.
    Per la settima, anche la conquista più eclatante e "pura" non riesce a chiamare una determinata persona.
    Nell'ottava, l'esistenza dell'uomo non è capace di guardare verso l'"aperto".
    La nona sostiene che la felicità non giustifica l'esistenza dell'uomo.
    Infine, il nucleo della decima consiste nel fatto che il dolore rappresenta il fondo portante dell'esistenza umana.
    Un quadro sintetico nel cui centro, tra le mille linee particolari ed estetiche, si ritrova la fisionomia poetica, umana, culturale, ideologica e religiosa di Rilke.

    Il mistero di Dio

    Partiamo innanzitutto da alcuni punti di riflessione.
    1. Nelle Elegie Dio viene nominato da Rilke, ma se si prendono i testi relativi nel loro complesso e si cerca di comprenderli sulla base della grande linea tematica della poesia rilkiana, allora si vede che il Dio della rivelazione, il Dio cristiano, cioè, è scomparso.
    2. L'esperienza dell'esistenza di Rilke secolarizza la visione cristiana e svuota l'incontro dell'uomo con Dio.
    3. L'eco della dottrina cristiana del nascere e dello svilupparsi della nuova creazione nel cuore dell'uomo credente è assorbita nel mondo perché avvertita come "inafferrabile".
    4. Eliminata la rivelazione cristiana, il rapporto con Dio e con la Chiesa non hanno più valore per l'uomo e per il mondo.
    5. Di fronte al mistero del dolore e della morte non rimane che la lamentazione e l'illusione. L'istanza salvifica è vanificata.
    Sullo sfondo di questi punti generali (non generalizzati!) di riflessione, lasciamo parlare ora il poeta, iniziando da una sua testimonianza sul cristianesimo. Scrivendo una lettera nel dicembre 1912 alla destinataria delle Elegie, contessa Witoid von Hulèwicz, afferma: «Del resto lei deve sapere (...) che (...) io porto dentro di me un anticristianesimo pressoché rabbioso».
    Innanzitutto, l'uomo non può udire la voce di Dio come la odono i santi; la può soltanto ascoltare come «il soffio che passa»:

    (...) Ma il soffio che passa ascolta,
    l'interrotto messaggio, che di silenzio si plasma![5]

    Nelle Elegie, Rilke nomina espressamente Dio soltanto tre volte, ed è chiaro che Dio, pur stando dietro il suo pensiero, mai riesce a parlare al suo cuore ed alla sua vita. Né mai il poeta riuscirà a parlare a Dio. Cancellata questa possibilità, l'uomo e il mondo nel quale vive, l'esistenza nella morte perdono il loro riferimento e il loro senso. La vita si involve e Dio entra a far parte di una grande «circolazione» dell'essere di qua e dell'essere di là verso una «grande unità». Il mondo diventa un Tutto: la corrente del perenne divenire, come un fiume, va attraverso l'aldiqua e l'aldilà e coinvolge tutte le fasi della vita dell'uomo, anche dopo la morte, in un silenzio progressivo. Tutte queste affermazioni potrebbero essere provate attraverso citazioni, ma non rientra direttamente negli obiettivi della nostra ricerca.
    Nominare Dio non significa parlare con Dio! Nelle Elegie Dio viene nominato, ma se proviamo a comprendere i rispettivi contesti, allora costatiamo che il Dio della rivelazione non esiste più. Quanto Rilke intende della parola Dio è questo:

    Potessimo trovare anche noi una pura, contenuta,
    esigua umana realtà, una striscia nostra di terra da frutto
    fra torrente e pietraia.[6]

    Augurio, desiderio naturale dell'uomo di fronte alla labilità dell'essere e dell'esistenza; una «pura umana realtà» trascende l'uomo e lo fa protendere verso l'indefinito, lo sconfinato e l'infinito. Stando alle regole fisse dell'ethos rilkiano, la creatura umana non deve andare oltre i propri confini, oltre la propria finitezza. Deve insomma accontentarsi di ciò che è suo, «una striscia nostra di terra da frutto», tra le rinunce e le prove della vita.
    Sta quindi nel proprio ethos l'espressione più profonda della religiosità di Rilke, della sua religiosa disponibilità di fronte all'«imperativo» o «mandato» (Aufirag). Quale? La coscienza nell'uomo della vita "terrestre" soltanto: all'uomo il dovere di accoglierla nel cuore e farvela «risorgere invisibile»:

    Terra, ciò che vuoi non è questo: risorgere
    Invisibile in noi? - Non è questo il tuo sogno:
    essere una volta invisibile? - Terra! Invisibile!
    Che mai, se non metamorfosi, è il tuo imperativo incalzante?[7]

    L'esperienza della rinascita della natura filtra la realtà finita che l'uomo deve assumere come «mandato» indicibile, senza nome, come imperativo etico che scaturisce da una fonte religiosa. L'uomo rinuncia all'illimitato, all'eterno, all'assoluto e quindi alla speranza di un mondo trasfigurato. Sta precisamente in questa accettazione che viene «senza nome da lungi» il mysterium della religione di Rilke: reciso ogni rapporto con Dio (e quindi ogni speranza di vita eterna in Lui), l'uomo stesso diventa sorgente di una nuova realtà. L'uomo allora diventa Superuomo e dell'uomo nuovo, ricreato dalla potenza dello Spirito Santo secondo la dottrina teologica del messaggio cristiano, non resta nulla.

    Ecco, io vivo. Ma di che? Infanzia e futuro
    non vengono meno... Un'esistenza innumere mi nasce nel cuore.[8]

    Sorge una domanda: se l'uomo è chiamato ad essere signore del suo agire, perché non dovrebbe essere signore del suo essere dall'inizio? Risponde Rilke: non è possibile perché sarebbe l'espressione di una assolutezza che appartiene soltanto a Dio. Soltanto Dio è signore del suo essere perché in lui non si dà alcun inizio, egli è, semplicemente, e come tale comunica all'uomo qualcosa di determinato a fondamento della sua libertà e del suo destino. Al contrario dell'eroe, il quale emise una scelta assoluta ancora prima della sua esistenza concreta. Esistere all'inizio prima di apparire. E l'immagine del biblico Sansone ne è la conferma:

    ... e quando fracassò le colonne, fu quando sortì
    dal mondo del tuo grembo nel mondo più augusto, dove ancora elesse e potè.[9]

    Dio e amore di Dio da una parte, e tu umano e amore umano dall'altra, per illuminarsi a vicenda. I bambini, i morenti, gli amanti hanno le disposizioni (cuore e occhi) per superare il limite nel quale tutti gli altri esseri umani sono imprigionati. In altre parole: l'amore è perfetto quando va verso l'altro, verso l'aperto, senza aver nulla di fronte a sé, un tu oppure un io. Si produce lo smarrimento dell'esistenza esteriore ed interiore. Amaro mistero di contraddizione: tutto diventa natura, terra, mondo.

    E noi: spettatori, sempre, dappertutto,
    rivolti a ogni cosa e mai rivolti fuori!
    Siamo sopraffatti dalle cose. Le ordiniamo. Crollano.
    Le riordiniamo e crolliamo noi.[10]

    E la domanda:

    Chi ci ha a tal punto rigirati da ritrovarci
    in ogni nostro agire nella condizione
    d'uno che parte? D'uno che sul colle
    estremo da cui si vede ancora tutta
    la sua valle, si volta, s'arresta, indugia –
    così noi viviamo in incessante addio.[11]

    Quel «chi» iniziale non è soltanto natura, ma Qualcuno. Si sente l'eco del peccato originale, di quella prima scelta dell'uomo che ha rotto il rapporto di comunione dell'uomo con Dio e di Dio con l'uomo: l'uomo è in contraddizione con se stesso, con gli altri e con la creazione. Per cui, secondo una precisa accusa di Rilke, la Chiesa avrebbe «tradito tutto ciò che profondamente e intimamente esiste di qua in nome dell'aldilà» e avrebbe reso impossibile il portare dentro di noi uomini «la pura natura (della realtà terrena)» in quanto «coscienza essenziale».
    L'incessante addio dei versi citati coinvolge quindi sia il rapporto d'amore tra uomo e uomo, tra uomo e natura, sia il rapporto d'amore tra l'uomo e Dio. Infatti, il movimento della creatura che si svincola dall'oggetto terreno e va verso l'aperto, trova Dio davanti a sé e siccome Dio è «qualcosa di aderente al mondo», l'ultima enunciazione che si possa fare su di Lui è una enunciazione a riguardo del mondo e a riguardo dell'uomo, del suo amore e della sua morte, perché tutto questo costituisca una rinuncia religiosa di ogni transitività. Dio non può essere conosciuto ed amato "transitivamente", cioè come qualcosa che sta di fronte, come non c'è da temere da Lui nessun contraccambio d'amore. In relazione a Lui non esiste una mèta, ma soltanto «la via infinita», la «inferiore indifferenza del cuore» dalla quale l'amore emerge quando «le irradiazioni del cuore» sono diventate «parallele». L'amore tenta dapprima di assumere Dio come un partner, posto di fronte; poi, persuaso dalla «veracità del cuore», questo risultato gli appare falso ed impara faticosamente a dirigersi verso l'aperto. Qui è il vero Dio, perché l'aperto è esso stesso Dio.
    Rilke, nonostante la frequentazione di mistiche cristiane quali Angela da Foligno, Matilde di Magdeburgo, Teresa d'Avila, Rosa da Lima, quanto poco sa della personalità di Dio e della personalità dell'uomo in essa fondata; quanto poco sa che cosa voglia dire amare Dio, dato che abbassa questo amore all'eros umano non purificato![12] Rilke, in ultima analisi, non ha capito nelle Elegie cosa significhi amore personale come realtà più autentica dell'esistenza, se ha avuto il coraggio di scrivere di essersi risoluto «a non amare mai, per non indurre mai nessuno nella situazione spaventosa di essere amato».
    Il grande poeta tedesco in riferimento all'insondabile mistero della morte cancella completamente la concezione cristiana di essa, nonostante che i significati cristiani si ripercuotano dappertutto nelle Elegie con potenza ed efficacia letteraria. Contro la sua visione della morte, improntata al naturalismo, che la denuncia come un'illusione oppure come un destino dell'esistenza immediata, la rivelazione cristiana afferma: Dio non solo crea delle realtà, ma guida anche la storia; Egli ha reso l'uomo persona e lo ha dotato del dono della libertà, innalzandolo per grazia a uno stato di dignità incomparabile di non dover morire.[13] L'uomo, in seguito alla ribellione e alla pretesa di voler essere come Dio, mantiene la sua protesta contro la morte, accettandola come espiazione per la salvezza operata da Gesù Cristo e l'immortalità.

    E noi, che a felicità in ascesa
    pensiamo, la commozione sentiremmo che quasi ci sconcerta,
    quando una cosa felice cade.[14]

    Il mistero dell'uomo

    Chi è l'uomo? In base alla risposta si struttura e si sviluppa l'esistenza e la vita. In parte già è stato affrontato il mistero dell'uomo secondo la concezione di Rilke nel paragrafo precedente. Ora cercherò di svilupparlo in modo più lineare e profondo, stando ai contenuti oggettivi delle Elegie duinesi. Passiamole in rassegna a volo d'uccello, iniziando da una citazione diretta ed emblematica:

    Ma noi indugiamo,
    ah, ci è di gloria il fiorire, e nell'intimità ritardata
    del nostro frutto entriamo traditi.[15]

    Alla luce del simbolismo naturale dell'albero di fico che non si arresta alla fioritura e degli zampilli della fontana che ricadono nella vasca, Rilke affermerà che la vita del giovane (cf Elegia terza) come la vita dell'eroe è un fascio fenomenico dell'esistenza spersonalizzata e quindi «puro mistero». Per cui soltanto gli eroi e i morti precoci sfuggono all'inganno di trovarsi in ritardo e «traditi», perché non si fidano del fiore e non si lasciano quindi distogliere lontano dalla pienezza del frutto. Come e che ne è dell'uomo, quale la sua sorte?
    Dato che la precisazione delle modalità è espressa da Rilke con le categorie della poesia elegiaca, tentiamo una panoramica sulle elegie stesse nei passaggi in cui affiorano le risposte.
    L'uomo non può mai entrare in relazione né con un altro uomo, né con l'angelo, né con il mondo; neppure l'eroe, neppure il figlio prodigo possono stabilire o ristabilire alcuna relazione rispettivamente con la storia degli uomini e la vita del padre. La notte sta addirittura nella chiusura tra gli amanti. Non resta che «liberarci, amando, dall'amato». In pratica: noi, esseri del qui e dell'oggi, non possiamo mai essere soddisfatti per un istante nel mondo né ad esso vincolati, perché non è possibile stabilire un rapporto d'amore stabile con nessuno e nessuna cosa (Elegia prima).
    L'uomo non è maturo per affrontare l'aspetto terribile dell'angelo (vedremo in seguito la visione rilkiana di questo personaggio). Per reggere alla potenza dell'angelo c'è un solo atteggiamento: la semplicità. Ma il movimento vitale dell'uomo rimane uno sgorgare senza ritorno, perché l'esistenza si consuma (Elegia seconda).
    Nelle Elegie che seguono la riflessione sul mistero dell'uomo si fa più profonda e tragica: l'uomo è la «vergogna» e allo stesso tempo la «speranza inesprimibile» del mondo; anche gli amanti sono segno della caducità e dell'istanza distruttiva reciproca, perché l'essere scorre via, vola via, passa accanto, appena si accosta. Soltanto nello «spazio interiore cosmico» c'è un essere reale: l'essere profondo-puro-infinito (Elegie ottava e nona). Ma, a dispetto della sua labilità nell'essere (l'uomo vivendo sparisce), e nonostante che sia l'essere più evanescente (Elegia nona), questo l'uomo non lo sa; se l'uomo può soltanto toccare l'altro, come gli dèi e gli angeli possono toccare l'uomo senza che si spezzi, questo è affare degli dèi e degli angeli! (Elegia terza). La sua esistenza raggiunge il suo significato ultimo quando diviene puro spettacolo, pura immagine. Perciò la persona non appartiene all'esistenza autentica, ma deve essere superata con l'atto dell'amore perfetto, affinché questo possa volgersi all'indefinito senza alcun oggetto. Il bambino e la sua esistenza infantile sotto lo sguardo amorevole della mamma portano già dentro di sé il mistero della morte, perché la vita e la morte del bambino sono unite, come il regno dei vivi e dei morti sono una cosa sola con il Tutto, e ciò è indescrivibile (Elegia quarta).
    Angelo e bambino meritano qualche rilievo nella poesia elegiaca di Rilke, anche perché il primo dice riferimento al mistero di Dio, mentre il secondo dice riferimento al mistero dell'uomo.

    Chi è l'angelo, chi sono gli angeli per Rilke?

    La risposta a questa domanda può presentarsi molto articolata; è più che mai necessaria, in questo contesto, un'esemplificazione.

    Chi, se io gridassi, mi udrebbe poi dagli ordini degli angeli?[16]

    Tra gli angeli e l'uomo non esiste comunicazione, perché l'angelo per natura è inaccessibile; sono quindi «stemmi (fatti) di estatica delizia», specchi dove si può contemplare riflessa la loro magnificenza, «spazi fatti d'essenza». Per cui, parlare dell'angelo e parlare al cospetto dell'angelo o degli angeli vuol dire parlare dell'uomo. Perché? Almeno gli angeli avvertono che nello «spazio del mondo ci andiamo sfacendo». E significhiamo qualcosa in quello spazio? «Ahimè, eppure noi siamo!» (Elegia seconda). Insomma, gli angeli di Rilke non hanno bisogno di partecipare al sentimento d'amore degli uomini; l'angelo di Rilke non è più il messo che Dio invia nella storia dell'uomo; l'angelo di Rilke è una realtà soltanto luminosa. Gli angeli di Rilke sono realmente gli dèi di questo mondo che sanno cosa è loro conforme quando «da dietro le stelle discendono giù verso di noi», anche se l'angelo non può avere nessuno scambio con noi e noi non possiamo avere nessuno scambio con l'angelo (Elegia settima).
    «Celebra all'angelo il mondo» (Elegia nona): l'uomo si rivolge all'angelo perché egli, l'angelo, è il partner di tutto «ciò che è qui» e di tutto ciò che ormai è invisibile. Addio alla realtà biblica dell'angelo o degli angeli, quindi, che stanno al servizio di Dio nella realizzazione della storia della salvezza, che contemplano il volto del Padre e custodiscono il cuore dei bambini (cf Mt 18,10).

    Chi è il bambino, chi sono gli adolescenti per Rilke?

    (...) Oh se fossi, se fossi un bimbo [17]

    Questo anelito resta teorico nella poetica delle Elegie. Non ha certamente nessun legame alla "piccolezza" evangelica e alla spiritualità della "piccola via" di Teresa di Lisieux. Quindi, non tentiamo neppure un riferimento.
    Il desiderio di essere bimbo nella poetica rilkiana sorge da un'esperienza piuttosto negativa. Rilke parla della sua vita personale; ricordando i genitori, rivive l'angoscia del bambino e della pace che dalla madre riceveva (cf Elegia terza), ricorda l'angoscia del ragazzo e del giovane e i suoi riflessi nell'angoscia del padre (cf Elegia quarta).
    Nel cuore fragile del bambino allora è forse la striatura di speranza che tiene lontane le potenze distruttive e tenebrose del male; nel cuore del bimbo è una qualche risposta al dramma dell'esistenza nella quale certe potenze si contendono l'uomo; di contro alla madre appare una potenza ostile che vuole inghiottire il bambino. Le energie delicate della luce, della bontà, dell'esistenza personale amorevolmente formata e benevolmente custodita sono più deboli delle potenze dell'oscurità e della violenza. Tra il Sopra e il Sotto (cielo-terra) si esprime la tensione; lo stesso eros che viene dal basso sembra essere più forte di quello che viene dall'alto, più forte quello che ascende dal sangue di quello che discende dallo spirito, anche se la madre rifà naturali per il bambino le cose che per l'adulto sono paurose, perché la madre può tutto: scioglie l'angoscia nel bambino perché riconquisti la pace (cf Elegia terza).

    Alcune annotazioni complementari

    Una breve nota critica: l'esistenza non è come Rilke ce la indica. Egli ha cancellato da essa ciò che ne costituisce il centro: la persona, la sua responsabilità, il suo amore e il suo destino. Con tutte le conseguenze, quali l'infanzia e la fanciullezza neglette e rifiutate e l'emergere graduale di una esistenza abnorme che culminerà nella concezione del superuomo come padrone e signore della storia. Nella dittatura, nell'istanza totalitaria: il massimo orrore!
    Nell'inconscio, laggiù, neppure l'amore della madre arriva e il ragazzo è là come un singolo (il concetto di individualità, dell'essere singolo che possiede se stesso e vive di risorse autonome si smarrisce). Il rapporto eros-amore, Io-tu sono fortemente contrassegnati dalla libido (influsso della psicologia di Freud). Per cui, tutta la problematica del dualismo segreto si insedia nel cuore del bambino nel suo rapporto con la madre: il bene è anche cattivo e l'orrendo è anche bello (Elegia terza).
    Due frutti amari di questa visione:
    - la mestizia per il dolore della vita in tutte le sue fasi soprattutto per la sua caducità, e perché ogni cosa bella e nobile è in balia del destino (Elegia settima);
    - proprio perché l'amore perfetto è privo di oggetto, il mondo autentico deve essere costruito a partire unicamente dall'interiorità del cuore, senza cioè cercare un rapporto di comunione in dimensione verticale e in dimensione orizzontale (Elegia ottava).
    Ritorna la domanda: perché c'è l'uomo? Due direzioni, soprattutto, per una risposta nella Elegia nona:

    1. Per la felicità? Risponde Rilke:

    (...) No di certo, perché è felicità,
    questo precipitoso vantaggio d'una prossima perdita.
    Non per la curiosità, o per l'esercizio del cuore,
    il che ci sarebbe pure nell'alloro... (6-9)

    La felicità, la curiosità (attesa di quanto avverrà) e l'esercizio del cuore (gioia, dolore, abbandono, desiderio) non giustificano l'esistenza umana.

    2. Per «essere qui»? Risponde il poeta:

    Ma perché essere qui è molto, e perché, come sembra,
    tutto ciò che è qui ha bisogno di noi, tutta questa realtà fugace, che stranamente ci concerne. Di noi, i più fugaci di tutti gli esseri (10-12)

    Tutta la realtà immediata e terrestre delle cose ha bisogno dell'uomo per avere senso e significato e l'essere qui dell'uomo ha il suo senso nel significato che egli ha per questa realtà unidimensionale, soltanto orizzontale. L'esistenza è terrestre, il terrestre è la quintessenza dell'«essere qui»; è per l'uomo, all'interno delle cose di qui, il contenuto del suo compito, del suo «essere qui è magnifico».

    Postilla come conclusione

    Sono convinto che queste brevi annotazioni di natura teologico-spirituale sulle Elegie duinesi di Rilke nella loro forma espositiva e nei loro contenuti potranno sembrare ermetiche e qualche volta oscure a chi legge. La poesia di Rilke è bella, ma difficile; la filosofia che vi si nasconde come acqua sotterranea ha bisogno di essere interpretata e situata nel contesto della sua scaturigine. Ma sinceramente valeva la pena di avvicinarsi almeno per un sorso alla fontana, anche accontentandoci di buone traduzioni in italiano (certi termini e certe forme poetiche hanno una freschezza straordinaria nella lingua originale).
    Per concludere, due parole sul concetto di elegia come genere poetico. Essa annuncia con intensità che tutta la realtà passa, quasi come un inno alla caducità dell'esistenza. E lo fa in modo che il cuore del poeta dica sì alla vita con un velo di tristezza, ma allo stesso tempo con la gioia che si sprigiona dal dolore. E allora i concetti acquistano in potenza e valenza mitica.
    Ne sono esempio alcune delle più belle e significative immagini poetiche, che qui di seguito offro come un florilegio, con una brevissima introduzione.
    Quasi una risposta alla domanda rivolta agli angeli: «Chi siete?», una grande creazione visionaria della poesia di Rilke: essi sono i «viziati della creazione» perché subissati di doni, «cerniere della luce», «spazi fatti d'essenza», «stemmi di estatica delizia». La visione poetica è certamente potente, ma statica:

    (...) Chi siete?
    Opera prima felice, beniamini voi del creato,
    cime, crinali di monti all'aurora
    dell'intera creazione - polline di fioritura divina,
    articolazione di luce, varchi, scale, troni,
    spazi di essenza, scudi di delizia, tumulti
    d'un sentire turbinoso, rapito, e ad uno ad uno, d'un tratto
    specchi: che la bellezza effluita
    riattingono in sé, nel volto ch'è proprio[18]

    Il cuore della madre è per il bambino un nido profondo e forte in cui ci si rifugia. La tenerezza della madre protegge il piccolo curvandosi sui suoi «nuovi occhi» e difendendolo contro il male. La madre può tutto contro le minacce del futuro, la madre dona pace al piccolo:

    Madre, lo facevi tu piccolo, tu eri colei che l'iniziò;
    per te era nuovo; tu curvavi sui nuovi
    suoi occhi il mondo amico e da quello estraneo lo difendevi.
    Gli anni, ah, dove sono fuggiti quando tu, con la sola
    tua figura slanciata, il caos fluttuante gli sostituivi?
    Non uno scricchiolio il cui perché non sapessi sorridendo dire.
    Come da sempre sapessi quando s'assestan le assi...
    Ed egli ascoltava e si placava[19]

    Una delle più belle raffigurazioni del canto dell'allodola che la letteratura poetica possieda. Chiamata «uccello», è la prima a cantare al mattino nelle giornate assolate e calde e il suo canto risuona nell'immensità dello spazio a primavera, la stagione delle promesse e delle speranze, salendo in volo, espressione di una mirabile e pura freschezza di vita:

    (...) un grido puro, del resto, come l'uccello,
    quando la stagione in ascesa lo innalza, dimentica quasi
    che è un animale affannato, e non solo null'altro che cuore,
    ciò ch'essa lancia nell'azzurro, negli intimi cieli [20]

    Un'altra immagine, quella della fontana che sprizza in alto, per descrivere subito la curva della ricaduta dell'acqua, segno che ogni promessa o speranza ha la sua fine a seguire:

    (...) poi il trillo, fontana,
    che nel getto sprizzante anticipa già la caduta
    in un gioco di promesse (...)[21]

    La traccia di un pipistrello in volo «lacera» come dentellata incrinatura una tazza di porcellana. Il pipistrello è segno dell'uomo che non si raccapezza e la tazza sta a significare la sera nella quale tutte le cose sembrano farsi trasparenti:

    E come è stordito un essere, che deve volare
    ed esce da un grembo. Come impaurito
    di se stesso, sussulta nell'aria, come un'incrinatura
    attraverso una tazza. Così la traccia
    del pipistrello lacera la porcellana della sera [22]

    Un altro uccello, la civetta che volando sfiora la guancia della Sfinge, figura evocatrice del regno dei morti, delle civiltà passate e della loro presenza visibile, ma non udibile da noi oggi.
    Tutto passa e soltanto un filo sottilissimo e invisibile rende presenti noi oggi a coloro che vissero ieri:

    (...) Ma il loro sguardo
    scaccia da dietro il bordo della corona la civetta. Ed essa, sfiorando lenta di striscio lungo la guancia
    che più matura s'incurva,
    nell'udito nuovo dei morti
    molle disegna, come su duplice
    pagina aperta, il contorno ineffabile[23]

    L'ultima: il cimitero come paese del dolore dove crescono «alberi di lacrime» (i salici piangenti), segni forti di una grande mestizia. Il regno dei morti e il regno dei vivi si compenetrano: ciò che c'è di là c'è anche di qua, benché velato. La morte è dentro l'uomo inevitabilmente:

    (...) Gli mostra gli alti
    alberi delle lacrime e i campi fiorenti di malinconia,
    i viventi li conoscono solo sotto forma di mite fogliame.[24]

    NOTE

    [1] Nel suo studio Reiner Maria Rilke, Brescia 2003, 310.
    [2] Cf H.G. GADAMER, Reiner Maria Rilkes Deutung des Daseins. Zu dem Buch Romano Guardini, in ID., Kleine Schrieften. II. Interpretationen, Tübingen 1967, 178-187; M. CACCIARI, L'Angelo necessario, Milano 1992. Sulle tappe della vita, sui componimenti in poesia e in prosa (incluso l'epistolario) e sull'estetica di Rilke («tocca vertici talora inarrivabili»), rimando al testo delle Poesie (1907-1926), curato da Andreina Lavagetto, Torino 2000, nel quale si può consultare la precisa "cronologia".
    [3] Cf GIOVANNI PAOLO II, Lettera agli artisti, 10.
    [4] R.M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, Milano 2006, 25-26.
    [5] Elegia prima, 59-60.
    [6] Elegia ottava, 84-86.
    [7] Elegia nona, 67-70
    [8] Elegia nona, 77-79.
    [9] Elegia nona, 36-38.
    [10] Elegia ottava, 66-69.
    [11] Elegia ottava, 70-75.
    [12] Cf BENEDETTO XVI, Deus caritas est, passim.
    [13] Cf i primi capitoli della Genesi.
    [14] Elegia decima, 110-113.
    [15] Elegia sesta, 8-10.
    [16] Elegia prima, 1-2.
    [17] Elegia sesta, 28.
    [18] Elegia seconda, seconda strofa.
    [19] Elegia terza, 26-38.
    [20] Elegia settima, 2-5.
    [21] Elegia settima, 15-17.
    [22] Elegia ottava, 61-65.
    [23] Elegia nona, 81-87.
    [24] Elegia decima, 64-66.

    (Rivista di vita spirituale, 62 (2008) 1, pp.53-68)


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