Dante, padre del popolo italiano
Dieci professori della Cattolica attraversano le cantiche ed evocano un modello di “italianità” per tutto il nostro popolo: conoscenza e perdono, dignità e profezia contro l’usura, sorretti dalle “gran braccia” della misericordia.
1. Manfredi e le “gran braccia” della bontà divina di Giuseppe Frasso
Manfredi, figlio naturale, secondo la tradizione, di Federico II e di Bianca Lancia, legittimato dal padre sul letto di morte, fu uomo avvenente, colto, coraggioso, abile politico, sostenitore dei ghibellini d’Italia per rendere più saldo il proprio potere; avversato da molti pontefici e a molti avverso, più volte scomunicato, morì il 26 febbraio 1266 presso Benevento, combattendo strenuamente contro Carlo d’Angiò, che, spinto dalla politica antisveva di Clemente V e dei suoi predecessori, si era mosso alla conquista della Sicilia della quale Manfredi era re. Anche i nemici, ammirati dal suo ardire in quella estrema battaglia, ne onorarono la memoria seppellendolo, come leggiamo nella Commedia, «in co del ponte presso Benevento | sotto la guardia de la grave mora». Dante, che ovviamente non poté vedere il re svevo, ne lascia memoria (oltre che in un punto del De vulgari eloquentia, assieme al padre Federico) appunto nei mirabili versi di Purgatorio III 103-45. Quali le fonti alle quali l’Alighieri si ispirò non è facile dire; resta però impressionante ciò che Manfredi scrisse in conclusione della premessa al Liber de pomo sive de morte Aristotelis, a quanto pare da lui tradotto, mentre giaceva malato, a Palazzo San Gervasio in Lucania: «Mentre il nostro corpo era così tormentato dalla molestia di una grave infermità, che nessuno credeva che potessimo restare in vita, e da molta angustia erano afflitti quelli che vedevano le nostre sofferenze; noi non temevamo già l’imminenza della morte. …non ci dolevamo della nostra dissoluzione… quantunque per possedere il premio della nostra perfezione non confidassimo nei meriti nostri, ma nella sola bontà del Creatore» (Dante, Tutte le opere … commenti a c. di G. Fallani, N. Maggi, S. Zennaro, Milano 20053,, p. 250). Non so se questa conclusione abbia davvero suggerito a Dante l’episodio che presenta il sovrano sottratto ormai a ogni animosità e anzi lo cala in un’aura bucolica di assoluta mitezza (vv. 79-87), quasi a contrasto con lo sprezzo per il suo cadavere, palesato, con feroce applicazione della norma canonica piegata da rancori personali, dal «pastor di Cosenza» (III 123-26). Comunque sia il tocco straordinario del poeta sta, per quel che mi riguarda, nei versi dove, in un indissolubile nesso, l’anima dell’uomo Manfredi narra gli ultimi istanti di Manfredi, re e combattente: «Poscia ch’io ebbi rotta la persona | di due punte mortali, io mi rendei, | piangendo a quei che volentier perdona. | Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, | che prende ciò che si rivolge a lei» (III 118-23). Dante, per bocca di Manfredi, testimonia la misericordia di Dio che va oltre la giustizia degli uomini e abbraccia chiunque a lui si rivolga, rinnovando in noi, quali che siano le nostre miserie, la fiducia in un Dio che ascolta e accoglie.
2. L’usura peccato contro l’operosità umana di Elena Beccalli
Dante colloca gli usurai nel terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno, quello dei violenti contro Dio natura e “arte”, nel senso di operosità umana. Essi sono martoriati da un’incessante pioggia di fuoco da cui tentano invano di proteggersi agitando le mani. Puniti poiché arricchiti grazie al denaro e non al lavoro, disconoscono il principio biblico «della fatica delle tue mani ti nutrirai» (Sal 127,2), che in senso più ampio è derivazione del vivere umano dalla natura e dall’operosità. Significativa è l’immagine della borsa che pende dal collo che, in quella drammatica sequenza, consola i loro occhi ed è vanamente fonte di una lieve speranza. Insomma l’uomo che annulla l’amicizia di Dio si avvicina alla bestialità usando le mani in modo improprio e disordinato.
Se la riforma gregoriana dell’XI secolo enuncia la proibizione di far generare denaro dal denaro condannando il prestito ad interesse, quando Dante scrive nel XIII secolo si afferma il principio che l’usura è “un peccato contro il giusto prezzo”, quello di mercato, ovvero che è un interesse sproporzionato, dettato dall’avidità. Già in epoca medioevale si condanna una finanza non al servizio della persona, anzi contro la persona e che diventa autoreferenziale e fine a se stessa. Evidente è l’analogia con l’oggi, quando la pandemia amplifica le povertà, alimenta ulteriormente le disuguaglianze e accresce i rischi di usura, esigendo un ripensamento della finanza chiamata a tornare a servizio della persona e dell’operosità umana.
3. Ulisse simbolo della conoscenza di Carlo Cottarelli
Ogni giorno, tramite i mezzi di comunicazione di massa, siamo bombardati da informazioni, opinioni, sentenze definitive, condanne e santificazioni. Prima c’erano solo i giornali, le radio e le televisioni, con messaggi che arrivavano dall’alto, dalle cosiddette élite. Oggi ci siamo democraticizzati. I messaggi arrivano anche dal basso attraverso la rete. Questa democratizzazione del bombardamento non ha migliorato le cose: restano spesso messaggi superficiali, basati su evidenze empiriche raffazzonate, al meglio ingenue, al peggio volutamente distorte. Travolti da questo bombardamento mediatico volto “alla pancia”, ci lasciamo trascinare verso lidi sconosciuti. Corriamo il rischio di non usare quello che più dovrebbe caratterizzare la nostra specie: la nostra capacità di pensare. E allora ricordiamo cosa scrisse Dante nel canto XXVI dell’Inferno: «Considerate la vostra semenza: | fatti non foste a viver come bruti, | ma per seguir virtute e canoscenza» (vv. 118-20).È Ulisse il personaggio della Divina Commedia che preferisco.
4. Manfredi, testimone di Giustizia di Claudia Mazzucato
«Biondo era bello e di gentile aspetto» (Purgatorio III 107): basta questa istantanea per far innamorare di Manfredi, nepote di Costanza imperatrice.
Figura struggente del Purgatorio, Manfredi si rivela attraverso il sorriso e i segni indelebili di una morte violenta – «l’un de’ cigli un colpo avea diviso» (v. 108), «…una piaga a sommo ‘l petto» (v. 111), «rotta la persona | di due punte mortali» (vv. 118-19). Per il suo corpo di nemico ucciso non vi sono pietà e sepoltura, bensì pioggia, vento, esilio.
Ma il male – agìto e subìto – non ha la parola definitiva per chi, come Manfredi, nonostante gli «orribil … peccati» (v. 121) commessi, si (ar)rende «piangendo, a quei che volentier perdona» (v. 120), la cui «bontà infinita ha sì gran braccia, | che prende ciò che si rivolge a lei» (vv. 122-23).
Bella e di gentile aspetto è la Giustizia che sa abbracciare chiunque le si rivolge portando peccati, ferite, lacrime. Gli attributi di questa Giustizia disarmata e disarmante sono braccia spalancate, volentieri protese, incondizionate e infinitamente grandi da accogliere ogni orribil peccatore. La dismisura e l’infinito nel bene sono la cifra di questa Giustizia: non la proporzione, la commisurazione, la retribuzione del male.
È questa la verità che Manfredi prega Dante di riferire alla bella figlia. Una notizia sorprendente, una ‘buona notizia’: la bontà non ha limiti e abbraccia volentieri chiunque compie, anche in limine, il gesto infinito di arrendersi, volgersi e rivolgersi. Così è un abbraccio, non un colpo restituito, a cambiare davvero tutto.
5. Pia de’ Tolomei: la pace del perdono di Maria Pia Alberzoni
Forse per motivi autobiografici Pia de’ Tolomei, incontrata fuggevolmente da Dante nel V canto del Purgatorio (vv. 130-36), dove si trovano le anime di coloro che morirono di morte violenta e si pentirono all’ultimo, mi ha sempre colpito. Per diversi motivi.
Innanzi tutto il fatto che questa donna, ingannata e fatta eliminare dal proprio marito, non pronunci alcuna parola cattiva nei confronti di chi pure ha usato con lei una violenza inaudita. Addirittura non lo nomini nemmeno, accennando solo al fatto di essere ben consapevole del mandante della sua morte: «Siena mi fe’, disfecemi Maremma: | salsi colui che ‘nnanellata pria | disposando m’avea con la sua gemma» (vv. 134-36).
In secondo luogo, Dante la presenta come persona di grande discrezione perfino nei suoi confronti. Pia non ha nessun parente che la ricordi e sa che l’unico che potrà tenere viva nel mondo la sua memoria è proprio quest’uomo, che si aggira nel Purgatorio e che tornerà nel mondo dei vivi. Nel breve dialogo con lui si coglie il segno di una delicatezza quasi materna quando ella chiede a Dante di essere ricordata, ma solo dopo che egli si sia riposato dal lungo viaggio nell’aldilà. Pia si offre come esempio vivo e palpitante di quanto l’adesione cordiale alla volontà di Dio, anche quando passa da una grande sofferenza, possa pacificare e dare la forza del perdono e una sorta di lievità, pur nella memoria di un’ingiustizia subita. È quanto testimonierà nel III canto del Paradiso un’altra donna, Piccarda Donati: «E ‘n la sua volontade è nostra pace» (v. 85).
6. Sordello da Goito, modello per l’oggi di Ermanno Paccagnini
È tutta una fila di personaggi, per di più protagonisti di canti studiati a memoria decenni fa, che ti bussano alla porta per essere richiamati. E però è al più riservato di essi che mi sento portato: quell’«anima lombarda» (Purgatorio VI 61) di Sordello da Goito dei canti VI-VIII del Purgatorio, che si affaccia «posta | sola soletta» (vv. 58-59) standosene «altera e disdegnosa | e nel mover de li occhi onesta e tarda» (vv. 62-63). Un susseguirsi di aggettivi che si depositano in una immagine di maestosità sì da paragonarla a un leone. Una fierezza silenziosa e dignitosa, che sa convivere con l'umiltà, dentro la quale sta il calore per una patria intesa come luogo natio, tradotta da Dante sia come tale (Firenze), che come nazione («serva Italia», v. 76); e che si anima in un ripetersi di abbracci sempre calorosi e commossi, pur nel loro diversificarsi; solenni pur nell'umiltà. Un quadro di maestosità costantemente tenuto entro un fondale di dolce luce, nel quale Sordello diviene a sua volta luce: nel senso di guida e modello di vita morale, come nel suo additare e giudicare i principi con parole severe e solenni; ma soprattutto nella sua capacità di meravigliarsi e di stupirsi, che si traduce in poesia e canto; una poesia che celebra rettitudine e energia. Ed è, questa di Dante, un'immagine di grande attualità: sia in sé, ovvero in quanto Sordello rappresenta nelle sue passioni; sì anche in quel ruolo di modello che si fissa nelle parole di reprimenda verso quei rappresentanti del potere che si sottraggono a quanto sarebbe da loro richiesto in termini di giustizia e di responsabilità, che passano dal suo planh in morte di Blacatz alle tante autorità della valle dei principi; e da qui, purtroppo, al nostro oggi.
7. Adriano V, il Papa genovese di Roberto Cauda
Tra i personaggi storici che compaiono nella Divina Commedia, ho scelto di commentare la figura di Papa Adriano V, che mi ha particolarmente colpito, pur essendo certamente un personaggio minore rispetto ad altri, quando frequentavo la seconda classe del Liceo Ginnasio Andrea D’Oria di Genova e studiavo i canti del Purgatorio.
Il motivo di quel mio giovanile interesse – interesse che persiste tuttora, lo confesso – per il personaggio, è anche dovuto forse al fatto che la lettura dei versi del canto XIX del Purgatorio che riguardavano Papa Adriano V, mi ricordavano luoghi familiari: Sestri, Lavagna, Chiavari, il fiume Entella (la «fiumana bella», v. 101), luoghi delle mie vacanze estive trascorse al mare di Cavi di Lavagna. Inoltre, proprio per queste mie frequentazioni estive, conoscevo bene la magnifica Chiesa dei Fieschi a Cogorno nella quale si ricorda, oltre ad Ottobono Fieschi - Papa Adriano V, Sinabaldo Fieschi - Papa Innocenzo IV, suo zio.
Dal punto di vista storico, Adriano V ha avuto un brevissimo pontificato, durato solo 38 giorni, dall’11 luglio al 18 agosto 1276; pur essendo collocato da Dante in Purgatorio a scontare la pene tra gli avari, le fonti storiche non confermano la sua avarizia (la sua famiglia era del resto ricchissima). Non sembra inoltre che egli sia stato avido di potere. Secondo alcuni critici letterari, Dante potrebbe aver erroneamente attribuito ad Adriano V comportamenti e colpe di Adriano IV, attorno ai quali esiste la testimonianza diretta di un contemporaneo, Giovanni di Salisbury. Indipendentemente dalla veridicità storica di quanto attribuito a Adriano V, la descrizione che di questo papa viene data da Dante, secondo la lettura di Natalino Sapegno è motivata dalla necessità di rammentare la vanità dei beni mondani: «…l’episodio del Papa pentito è svolto da Dante con un movimento patetico non privo di efficacia che punta sulle note intense della delusione dell’ambizioso pervenuto all’apice della fortuna…»; «…un vero e proprio exemplum … a ribadire il concetto di vanità di tutti i beni mondani…».
Nel caso di Papa Adriano V, Dante utilizza come spesso fa nella Divina Commedia, un personaggio storico noto ai contemporanei per stigmatizzare e condannare atteggiamenti e comportamenti discutibili specie se compiuti da uomini di chiesa. Anche se è posto in Purgatorio, colpevole di avarizia ed attaccamento al potere, al papa viene attribuito comunque un alto profilo come si addice al ruolo rivestito in vita, e che consiste nell’esprimersi, in due occasioni, in lingua latina: «scias quod ego fui successor Petri» (v. 99) e poche terzine dopo «’Neque nubent’» (v. 137). Il latino, unito alla rilevanza del titolo di papa, assegna ad Adriano V una grande dignità che fa di questa figura un’anima degna di attenzione e rispetto. In questo canto Dante, pur non sottraendosi alla necessità di collocare Adriano V in Purgatorio per le colpe di cui si è macchiato in vita, si conferma uomo di profonda fede mostrandosi comunque rispettoso del Magistero papale, per ciò che esso in sé rappresenta, mantenendolo pertanto distinto dalle colpe che derivano dalla debolezza e fragilità dell’uomo.
Del resto la collocazione in Purgatorio corrisponde di fatto ad una assoluzione, ottenuta con l’espiazione e quindi il perdono. Dante quindi mantiene sempre il rispetto dovuto a un pontefice: «Per vostra dignitate | mia coscienza dritto mi rimorse» anche se il papa lo ferma immediatamente, «drizza le gambe, levati sù, frate!» (vv. 131-34), conscio della sua condizione di peccatore in Purgatorio, ben diversa da quella di papa assunta in vita.
È anche interessante ricordare la grande deferenza con la quale Dante descrive la dignità papale, riconoscendo il peso delle responsabilità ad essa connesse, come traspare dai versi: «pesa il gran manto a chi dal fango il guarda | che piuma sembran tutte l’altre some» (vv. 104-5). Tanti infatti sono stati i papi che nel corso della millenaria storia della Chiesa hanno portato sulle spalle il peso del “gran manto”, spesso in situazioni drammatiche, onorando appieno e fino alla santità l’alto Magistero.
Riservo un’ultima riflessione all’avarizia, colpa per la quale Papa Adriano V è punito. Esiste la comune convinzione di un presunto attaccamento dei genovesi al denaro, che non può tuttavia avere influenzato Dante nella sua decisione di collocare Papa Adriano V in Purgatorio. Il luogo comune dell’avarizia dei genovesi nasce infatti molti secoli dopo, nel 1600, El siglo dei genovesi che come banchieri gestivano l’oro del nuovo mondo che «nasce in America, cresce en Valencia y se entierra en Genova».
8. Il “messo di Dio” di Gian Luca Potestà
«Io sono uno di quelli che si rinfrancano lo spirito con gli anagrammi. La teologia è un po’ fuori dal mio campo», ci avverte Don Delillo in Americana. Dante è quel che ci vuole per rinfrancare questo spirito! A partire dal Veltro di Inferno I, la Commedia presenta diversi personaggi i cui profili restano racchiusi in enigmi e giochi di parole. Nella sezione finale del Purgatorio – comunemente detta “l’apocalisse di Dante” – la scena è occupata da un gigante violento che, montato su di un carro, se lo porta via (è Filippo il Bello, che deporta la Chiesa romana in Francia). Poco più sotto Dante gli contrappone un erede imperiale indicato solo come «un cinquecento diece e cinque, | messo di Dio» (Purgatorio XXXIII 43-44). Di lui non dice altro. Forse perché, scrivendo dopo la morte di Enrico VII, non sa chi potrà prenderne il posto.
Ma perché lo chiama così? I trattati medievali di grammatica attestano l’abitudine di trasformare termini indicanti numeri nelle corrispettive cifre numeriche romane. In questo caso, “cinquecento diece e cinque” = DXV. E poiché DXV non dà senso, già i primi lettori della Commedia proposero di modificare la successione delle lettere, leggendo DVX (= DUX) al posto di DXV. Ma perché Dante, se vuole evocare un DVX, non scrive semplicemente “cinquecento cinque e diece”? Non doveva essere difficile, per uno come lui, trovare una rima in -ece!
Lo scarto ben calcolato spinge verso la soluzione. Si presuppone che il lettore conosca il celeberrimo seicentosessantasei, misterioso nome della “bestia” secondo l’Apocalisse. In cifre romane: DCLXVI. Prese in questa sequenza, le lettere non significano nulla. Lungo la tradizione teologica latina si era peraltro trovato un curioso espediente interpretativo. Basta disporle diversamente, e le lettere rivelano il tratto più caratteristico dell’Anticristo, la sua fascinazione abbagliante: DIC LVX (“di’: luce”).
Ora capiamo: Dante civetta con l’Apocalisse di Giovanni e, insieme, con la tradizione che aveva inteso e spiegato il 666 come un anagramma. Nella propria apocalisse, per dare un nome al messia vendicatore prende tre numeri trasformabili in lettere (tre delle sei di Giovanni) e li dispone in sequenza anagrammatica. Al lettore comprendere e risolvere. Pochi versi più sotto, precisa che si tratta di un “enigma forte”. Enigma al quadrato: spetterà infatti alla storia rivelare il vero nome dell’atteso liberatore. Se oggi “la teologia è un po’ fuori dal campo”, talvolta aiuta almeno a “rinfrancare lo spirito”.
9. Gioacchino da Fiore, spirito profetico di Alessandro Ghisalberti
Tra le figure della seconda corona dei beati, incontrate da Dante nel cielo del Sole e la cui presentazione è affidata a San Bonaventura, spicca la carica luminosa che riveste Gioacchino da Fiore (1135 ca.-1202): «e lucemi dallato | il calavrese abate Giovacchino | di spirito profetico dotato (Paradiso XII, 139-141).
Penso che ciò che della figura e dell’opera dell’abate Gioacchino ha affascinato Dante sia rinchiuso nel sintagma: «spirito profetico» (v. 141), nel quale sono evocati lo Spirito santo e la carica profetica, che hanno originato l’oltrepassamento della lettera per scrutare nelle Scritture il cammino della Trinità nella storia. Individuando il magnete della carica spirituale nel futuro piuttosto che nel passato, Gioacchino da Fiore ricava la luce dello Spirito e della profezia sulle direttrici della storia dal Vangelo di Giovanni, dove Gesù dichiara: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future» (Gv 16,12-13). Il testo giovanneo agli occhi dell’Abate esplicita che la pienezza della verità effusa dallo Spirito si riferisce alla profezia come intelligenza spirituale della storia, segnata dall’azione concorde delle tre persone della Trinità, che Dante splendidamente iconizza nell’immagine dei tre cerchi della visione finale del Paradiso (Paradiso XXXIII, 115-120), assunta dal Liber figurarum di Gioacchino.
Il nucleo dirompente dello spirito profetico, che ha colpito Dante, noi lo riconosciamo meglio se lo connettiamo con il nome caratteristico dello Spirito santo, quello di amore: se la parola spirituale oggi può farci perdere nelle nebbie del “virtuale”, la parola amore ci porta a qualcosa che ci colpisce nell’intimità, alla forza del desiderio e all’attrazione interiore che in precisi momenti della vita ci rapisce e ci espone nudi all’altro (sia esso uomo, mondo, Dio), che ci fa capaci di attendere ogni giorno un giorno futuro, dunque una energia che ci investe ed insieme ci inquieta come una novità, una “rivelazione”, che nel linguaggio biblico di Gioacchino è segnata col nome greco di “apocalisse”.
10. “Quei che volontier perdona” di Agostino Giovagnoli
Il protagonista del Canto III, 103 ss. del Purgatorio è, apparentemente, Manfredi: «Biondo era bello e di gentile aspetto, | ma l'un de' cigli un colpo avea diviso» (vv. 107-8). Ma è di un Altro il ruolo centrale nel racconto: «quei che volontier perdona» (v. 120). Nella sua vita tumultuosa, il nipote di Costanza d’Altavilla aveva compiuto “peccati orribili”, ma dopo essere stato raggiunto da due colpi mortali si affrettò a chiedere perdono. Più che una chiara coscienza di ciò ha aveva fatto fu, probabilmente, una spinta confusa ma potente a chiedere perdono, anzi ad incontrare Colui che perdona, ad emergere nel momento cruciale della morte.
Sembra di capire che Dante sia rimasto stupito di incontrarlo in Purgatorio, come probabilmente lo stesso Manfredi si aspettava. Questi, infatti, in base ai suoi comportamenti terreni avrebbe meritato una punizione severa e definitiva. Ma lo stupore di Dante serve a sottolineare la distanza tra la giustizia umana e quella divina. È infatti verso la misericordia che l’attenzione del lettore viene orientata. Quella misericordia che gli uomini di Chiesa non considerarono possibile verso uno scomunicato. Una vicenda antica, ma molto attuale. Papa Francesco ha cominciato il suo pontificato parlando di misericordia: è questa la parola che ha scelto «mentre le nostre categorie e il nostro modo di pensare vengono scossi, le priorità e gli stili di vita sono messi in discussione».
A cura della redazione
Roberto Righetto, Roberto Presilla, Velania La Mendola e Simone Biundo
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