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    Dante esegeta

    dei salmi

    Gianfranco Ravasi

    salmiedante
    Da secoli l'analisi della Divina Commedia esige un percorso privilegiato, quello all'interno delle matrici teologiche che la sorreggono e la alimentano. Un'incessante investigazione ha tentato, in tempi più recenti, di individuare presenze spirituali differenti, facendo del pensiero di Dante una sorta di crocevia di culture religiose diverse. C'è chi ha confrontato l'escatologia dantesca con quella sottesa a opere letterarie e teologiche arabe.[1] Frequente è stata la comparazione con la mistica ebraica, espressa ad esempio da un cabbalista come Abraham Abulafia, fino a giungere a vere e proprie forzature sinottiche che ignoravano le piú probabili comuni fonti antecedenti, soprattutto di stampo neoplatonico.[2] Né è mancato chi è ricorso a orizzonti ancor più remoti, collocando Dante «tra induismo ed eresie medievali».[3]

    1. IL GRANDE CODICE DELLE SACRE SCRITTURE

    È indubbio, invece, il rimando a quel grande codice della civiltà medievale che è la Bibbia e questa indagine [4] che è stata oggetto di particolare solerzia in passato merita sempre un approfondimento soprattutto in sede ermeneutica, andando oltre le mere rilevazioni statistiche e testuali. Rimane, tuttavia, interessante anche l'elaborazione di una recensione sistematica del palinsesto scritturistico sotteso al canto poetico dantesco sia nelle citazioni dirette, sia nelle allusioni esplicite, sia negli ammiccamenti lessicali e simbolici. Per questi ultimi, stando al soggetto che ci siamo proposti, ossia il Salterio usato dal poeta, vorremmo solo a titolo esemplificativo evocare l'immagine del «duro camo » destinato a tenere a freno l'uomo, presente in Purgatorio, XIV 143. Siamo di fronte a un evidente rimando alla versione della Vulgata del Salmo 31 (32), 9, ove si descrive il controllo del cavallo e del mulo come metafora dell'educazione sapienziale della persona: in camo et freno maxillas eorum constringe.
    Sempre per illustrare questa operazione di decifrazione dei rimandi biblici, operazione che in filigrana rivela un costante rifarsi del poeta al linguaggio e all'immaginario scritturistico, un altro esempio, in questo caso neotestamentario, potrebbe configurarsi nel distico di Purgatorio, III 122-23, ove Manfredi, re di Napoli e Sicilia, esalta «la bontà infinita [di Dio il quale] ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei». In dissolvenza a queste parole è facile immaginare la parabola del Vangelo di Luca che ha per protagonista il padre che «corre incontro» al figlio prodigo «gettandoglisi al collo e baciandolo» (15, 20), come appare anche nella celebre tela di Rembrandt dell'Ermitage, dedicata a questa scena.
    Certo è che Dante, nella linea di tutti gli autori medievali, ha come testo di riferimento la Vulgata, probabilmente nella tipologia allora comune del codice Parisiensis ed è, quindi, poco rilevante allegare le eventuali varianti rispetto a tale modello ai fini di un'ipotetica critica testuale biblica dantesca. Infatti tali lievissime varianti sembrano nascere più da esigenze intrinseche al ritmo o al verso dantesco: così accade, ad esempio, per il Labia mea Domine del Salmo 50 (51), 17, adottato in Purgatorio, XXIII 11, in luogo dell'attestato Domine, labia mea. Noi ora punteremo direttamente sul nostro tema sviluppandolo in modo non esaustivo ma solo emblematico e procedendo lungo due traiettorie, la prima di taglio testuale, la seconda di impronta piú ermeneutica.

    2. LA QUESTIONE TESTUALE

    Il Salterio costituisce uno dei libri anticotestamentari capitali nella tradizione cristiana, sia a livello poetico, sia in ambito teologico e mistico. Come affermava enfaticamente san Girolamo, «Davide è il nostro Simonide, il nostro Pindaro, il nostro Alceo, il nostro Flacco, il nostro Catullo. È la lira che canta Cristo!».[5] Agostino, invece, esclamava: Psalterium meum, gaudium meum! [6] Non si deve dimenticare che delle circa 60.000 citazioni bibliche presenti nelle opere del celebre Padre della Chiesa, 20.000 appartengono all'Antico Testamento e di esse ben 11.500 sono dei Salmi, il libro sacro più citato dopo i Vangeli.
    Anche Dante è conquistato dalla «salmodia» (Purgatorio, XXXIII 2) che a più riprese fa cantare dai suoi personaggi, [7] coniando per quest'opera orante un suggestivo termine: essa è una «teodia» (Paradiso, XXV 73). Anzi, egli è consapevole delle difficoltà che si interpongono nell'uso di questi cantici sia perché essi intrecciano poesia e teologia sia perché egli li accoglie attraverso una serie di mediazioni legate alle traduzioni: dall'originale ebraico al greco della versione dei Settanta fino al latino della Vulgata per approdare talora alla resa volgare. Scrive infatti nel Convivio 7 15), segnalando che la difficoltà di tradurre

    è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e di armonia; ché essi furono transmutati d'ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno.

    Dell'ottantina di personaggi biblici evocati nella Divina Commedia (una sessantina dell'Antico e una ventina del Nuovo Testamento), Davide – considerato dalla tradizione l'autore del Salterio – è il più citato: egli è per antonomasia il «salmista» nel Monarchia [8] e nel Convivio; [9] è l'«umile salmista» in Purgatorio, x 65, sulla base dell'episodio della danza davanti all'arca riferita nel Secondo Libro di Samuele (6, 12-32); è il «cantor» penitenziale a causa della «doglia del fallo» compiuto nell'adulterio con Betsabea e dell'assassinio del marito di lei, Uria, considerato alla base del Salmo più famoso, il Miserere (Paradiso, XXXII 11-12); è il «cantor de lo Spirito Santo» (Paradiso, XX 38), anzi, il «sommo cantor del sommo duce» (Paradiso, XXV 72).
    Ebbene, se si escludono poche scarne presenze di taglio allusivo nelle altre due cantiche, si può affermare che il Salterio è per eccellenza il libro del Purgatorio dantesco. Quello che era il testo della Chiesa orante durante il cammino nella storia diventa, così, il soggetto del canto di coloro che sono in marcia verso la purificazione e la liberazione. È per questo, come vedremo, che il libro dei Salmi è una sorta di parabola spirituale «esodica» che guida le anime dalla schiavitù del peccato alla piena e luminosa libertà dei figli di Dio. Certo, interessante per l'uso che Dante fa dei Salmi è anche il Convivio, ove alla citazione latina si allega sempre una versione italiana (di Dante o di una traduzione preesistente?) e la relativa interpretazione.
    Tuttavia il Purgatorio rimane il luogo poetico e spirituale ove meglio risuona il canto salmico: dieci citazioni sono esplicite (una è mediata attraverso l'uso che ne fa Matteo) per un totale di otto Salmi diversi e con una preminenza del citato Miserere che ha una triplice presenza. A proposito di questo celebre Salmo penitenziale, Enrico Malato ha fatto notare suggestivamente che Miserere nel canto i dell'Inferno (v. 65) «è la prima parola che Dante personaggio pronuncia nel poema e sarà anche l'ultima evocata prima della sua immersione nel tripudio della candida rosa, attraverso un'allusione, nel discorso di san Bernardo, "al cantor [Davide] che per doglia / del fallo disse: Miserere mei"» (Paradiso, XXXII 12).[10] Naturalmente l'elenco dei Salmi evocati si allarga qualora si procedesse anche alla recensione delle varie allusioni, dei rimandi indiretti, degli echi verbali e simbolici. Noi alleghiamo qui la tabella delle occorrenze dirette e poi procederemo, attraverso uno specimen, a un'analisi di impronta solo ermeneutica, lasciando a margine le molteplici implicazioni storico-critiche ed esegetiche. Ecco la lista delle presenze salmiche dirette nel Purgatorio:
    1. III 46: «In exitu Israel de Aegypto»: Salmo 114 (113A), 1
    2. V 24: «cantando `Miserere' a verso a verso»: Salmo si (5o), 3
    3. XIX 73: «Adhaesit pavimento anima mea»: Salmo 119 (118), 25
    4. XXIII 11: «Labia mia, Domine»: Salmo 51 (50),17
    5. XXVIII 80: «ma luce rende il salmo Delectasti»: Salmo 92 (91), 5
    6. XXIX 3: «Beati quorum tecta sunt peccata»: Salmo 32 (31), 1
    7. XXX 19: «Tutti dicean: 'Benedictus qui venis' »: Salmo 118 (117), 26 (cfr. Matteo 21, 9)
    8. XXX 82-84: «[...] e li angeli cantaro / di subito 'In te, Domine, speravi'; / ma oltre 'pedes meos' non passaro»: Salmo 31 (30), 2-9
    9. XXXI 98: «`Asperges me' sì dolcemente udissi»: Salmo 51 (5o), 9
    10. XXXIII 1-2: «`Deus venerunt gentes', alternando / or tre or quattro dolce salmodia»: Salmo 79 (78), 1.

    3. LA QUESTIONE ERMENEUTICA

    L'aspetto più significativo dell'uso dantesco dei testi sacri è nel suo profilo ermeneutico. Esso sostanzialmente ricalca l'impostazione tradizionale, anche se non manca qualche guizzo di originalità. È, ad esempio, il caso dell'avvio del secondo libro del Monarchia ove il Salmo 2, 1-3, notoriamente riletto dalla tradizione giudaica e cristiana in chiave messianica a causa della presenza del re definito come «figlio di Dio» (2, 7), secondo l'antica formula del «protocollo reale» di investitura, viene da Dante applicato a sorpresa all'impero romano fondato sul diritto, per cui l'unctus, il consacrato con l'unzione, non è più il Messia ma l'imperatore (n 1 1-7). Tuttavia lo statuto metodologico dell'interpretazione biblica dantesca permane quello già in vigore nell'esegesi patristica.
    Essa aveva ricevuto la sua codificazione sintetica nella celebre dottrina dei «quattro sensi» che il domenicano Agostino di Dacia, morto nel 1285, nel Rotulus pugillaris aveva delineato in una famosa quartina di impianto mnemonico:

    Littera gesta docet.
    Quid credas allegoria.
    Moralis quid agas.
    Quo tendas anagogia
    . [11]

    Dante nel Convivio (II 12) illustrava questa tetralogia ermeneutica con accuratezza ed essenzialità. Il senso letterale, che puntava al significato primario del testo, «non si stende piú oltre che la lettera delle parole fittizie». Il senso allegorico, che trascende teologicamente il dettato letterale, «si nasconde sotto il manto di queste favole [narrazioni], ed è veritade ascosa sotto bella menzogna». Qui, però, il linguaggio di Dante si rivela ambiguo perché svilisce eccessivamente la lettera classificandola come «menzogna», anche se l'idea sottesa è sempre quella che le parole umane sono il velo sotto cui si cela la Parola divina. Il senso morale è finalizzato alla parenesi per i credenti, cioè alla «utilitade dei lettori», mentre il senso anagogico, proteso a scoprire la dimensione escatologica delle Scritture, «per le cose significate significa de le superne cose».
    Sta di fatto, però, che il livello interpretativo piú radicale e rilevante è quello che intercorre tra il senso letterale e quello allegorico, tra quello storico-letterario e la dimensione teologica, secondo appunto le due nature della Bibbia, fatta di parole umane che veicolano e custodiscono la Parola di Dio, in analogia col mistero centrale cristiano dell'Incarnazione che unisce in sé Lógos divino e sárx umana, cioè Verbo e carne, come è detto nel prologo del Vangelo di Giovanni (i, 1-14). Anche Dante ne è consapevole e nel Convivio (II 1 8 e 11) acutamente osserva che il senso letterale

    dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente allo allegorico. [...] Onde, con ciò sia cosa che la litterale sostanza sempre sia subietto e materia dell'altre, massimamente dell'allegorica, impossibile è prima venire alla conoscenza dell'altre che alla sua.

    4. IL SALMO «ESODICO», SIMBOLO DEL PURGATORIO

    Questa prospettiva ermeneutica è applicata implicitamente al primo canto salmico che si ode risuonare «insieme ad una voce» nell'orizzonte purgatoriale dantesco. È questo canto che noi sceglieremo come simbolo dell'uso del Salterio nel Purgatorio. [12] Si tratta del Salmo 113 (114), [13] il cosiddetto «Hallel pasquale», particolarmente caro alla tradizione giudaica e cristiana, anche in ambito liturgico. In questo carme che ricorda l'evento capitale della storia e della fede di Israele, ossia la liberazione esodica dalla schiavitú di Egitto, tutta la natura personificata partecipa alla gioia del popolo ebraico che esce da una terra straniera e si accosta al confine della terra promessa, segnato dal fiume Giordano. Ecco, infatti, all'inizio dell'itinerario, il mare che guarda e si ritira per lasciar passare Israele; ecco, alla fine della marcia nel deserto, il Giordano che risale il suo corso per lasciar asciutto il suo letto al transito del popolo salvato; ecco, al centro del viaggio esodico, i monti del Sinai, tremanti sotto il terremoto della teofania sinaitica (Esodo 19, 18), divenire simili a creature viventi come gli arieti e gli agnelli saltellanti.
    La stessa terra nel v. 7 del Salmo è raffigurata nell'originale ebraico come una partoriente che freme nelle doglie del parto. L'orante stupito si interroga sul mistero di questo iperbolico mutamento cosmico (vv. 5-6). La risposta è nella finale apparizione di Dio che domina l'universo e che riesce, come nel prodigio di Meriba nel deserto (Esodo 17, 1-7; Numeri 20,1-13), a trasformare la rupe in sorgente d'acqua per dissetare il suo popolo. L'esodo è, quindi, agli occhi del salmista biblico qualcosa di piú di un'epopea di liberazione nazionale: egli, in pratica, offre già una interpretazione "allegorica" del dato storico: è la celebrazione di un'azione divina che trasfigura quel transito in un trapasso dalla servitú del male e del peccato alla libertà di una nuova nascita. Da quel momento «Giuda divenne il suo [del Signore] santuario» (v. 2): si ha, dunque, una consacrazione del popolo redento.
    Ebbene, questo Salmo diventa il vessillo del Purgatorio, una sorta di «principio di organizzazione testuale» e ideale.[14] Lo si dice esplicitamente quando nel canto II appare l'imbarcazione («vascello snelletto e leggero»), guidata da un «celestial nocchiero »; in essa «più di cento spirti» vengono traslati nel regno della loro purificazione. Essi «`In exitu Israel de Aegypto' / cantavan tutti insieme ad una voce / con quanto di quel salmo è poscia scripto» (II 46-48). Gli spiriti purganti intonano all'unisono l'intero testo salmico: «è il primo canto che si ode nel Purgatorio ed è il primo di una lunga serie. Su tutte le cornici infatti risuonerà un canto liturgico — tolto dalle preghiere o dai Salmi piú noti recitati allora nella Chiesa dal clero e dal popolo — come richiamo ai pensieri celesti, alla salvezza ottenuta, all'amore divino ». [15] Ora, l'ermeneutica secondo i quattro sensi sopra evocati distingueva nettamente nel Salmo 113 le varie sfaccettature.
    Il senso «letterale» rimandava all'esodo storico dall'Egitto e, nella rilettura riattualizzante del Secondo Isaia (cc. 40-55), al nuovo esodo dall'esilio babilonese nel VI sec. a.C. Il senso "allegorico" vedeva in quella liberazione la redenzione operata da Cristo: non si deve dimenticare che i Vangeli ricorrono spesso a categorie esodiche per definire il senso profondo delle parole e degli atti di Gesú. Il senso «morale» puntava a comparare il battesimo col passaggio attraverso le acque del mar Rosso, ma anche a indicare la conversione dal peccato alla grazia. Infine, come è attestato già nella stessa Bibbia attraverso la rilettura dell'esodo in chiave escatologica operata dal libro della Sapienza e dall'Apocalisse, si delineava il senso «anagogico» che apriva l'itinerario della salvezza alla pienezza finale.
    Ora, è significativo che Dante stesso ci abbia offerto a piú riprese la chiave ermeneutica per giustificare l'uso del Salmo 113 come emblema purgatoriale. Lo ha fatto già nella nota Epistola XIII a Cangrande, [16] ove si distingue il sensus qui habetur per litteram, che è l'esodo di Israele dall'Egitto, e il sensus qui habetur per significata per litteram, che rimanda al significato trascendente spirituale ed esistenziale (Ep. XIII 20-21). Ma è soprattutto nel Convivio che ancora una volta l'Alighieri ci mette in mano una guida preziosa ed esplicita per cogliere quel «sovrasenso» che rende il Salmo 113 la parabola mistica del passaggio dal peccato alla grazia e, quindi, dallo stato intermedio purgatoriale all'attesa pienezza escatologica (II 1 6-7),

    sì come si può vedere in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate.

    Questa breve incursione nella base biblica e teologica della Commedia rivela quanto sia intrisa di esegesi e di riflessione spirituale la poetica dantesca e come sia impossibile prescindere da questa dimensione in una corretta illuminazione del pensiero e della stessa poesia dell'Alighieri. È ciò che confermava la lettura appassionata di un grande teologo del Novecento, Hans Urs von Balthasar, quando nel suo capolavoro, Gloria, scriveva:

    Dante è certamente sintesi: di scolastica e di mistica, di antichità classica e di cristianesimo, di concezione sacrale dell'impero e della Chiesa francescano-spirituale e, in modo ancora più stupefacente, del mondo della poesia dell'amor cortese e del mondo da questo così distante della sapienza della scuola medievale. Nella sua maniera egli sembra farsi posto fra i grandi costruttori di cattedrali medioevali nei quali, per un'ultima volta, estetica ed etica coabitano in modo così indivisibile, si postulano e si promuovono a vicenda. [17]

    NOTE

    1. Cosi, ad esempio, la nota opera di M. ASÍN PALACIOS, Dante e l'Islam, trad. it., Introduz. di C. OSSOLA, Parma, Pratiche, 1994.
    2. Si veda in questo senso soprattutto S. DEBENEDETTI STOW, Dante e la mistica ebraica, Firenze, Giuntina, 2004, la quale concepisce Dante come «un anello di congiunzione per una visione del mondo che, all'insegna dell'escatologia cabbalistica, si è perpetuata nei secoli senza soluzione di continuità». Similmente U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, Laterza,1993: lo studioso considerava il De vulgari eloquentia debitore di Abulafia.
    3. M. SORESINA, Le segrete cose. Dante tra induismo ed eresie medievali, Bergamo, Moretti e Vitali, 2002.
    4. Nella vasta bibliografia vogliamo solo segnalare gli Atti del Convegno organizzato da «Biblia» il 26-28 settembre 1986 a Firenze, editi in Dante e la Bibbia, a cura di G. BARBLAN, Firenze, OlschIci, 1988, con particolare accento sul Nuovo Testamento (specificatamente sull'Apocalisse), ma anche con attenzione alle connessioni col giudaismo (il «contrappasso» nella Bibbia e nel Talmud, ad esempio) o ad alcune figure bibliche specifiche come Geremia. Si veda anche C. LUND-MEAD e A. IANNUCCI, Dante and the Vulgate Bible, Roma, Bulzoni, 2012.
    5. Epistula Litt ad Paulinum, De Studio Scripturarum, n. 8 (Patrologia Latina XXII, 545).
    6. Enarratio super Psalmum 137, in Patrologia Latina XXXVII, 1775.
    7. Vd., ad esempio, Purgatorio, II 47, V 24, IX 140-45, XXIII 10-12, XXX 82-88, XXXIII 1-3; Paradiso, VI 124, X 139-48, XV 98.
    8. Monarchia, I 15 3; III 14 6.
    9. Convivio, II 3 11,115 12; IV 19 7, IV 23 8.
    10. E. MALATO, Saggio di una nuova edizione commentata delle Opere di Dante. Il canto I dell'Inferno, Roma, Salerno Editrice, 2007, p. 39.
    11. 'La lettera istruisce sulle azioni, l'allegoria su ciò che devi credere (la verità che è dietro di esse), il (senso) morale su come agire, l'anagogia su ciò cui tendere (il profondo significato spirituale della scrittura, che illumina sull'escatologia e consente l'accesso alle verità universali della fede)'.
    12. Per la bibliografia generale rimandiamo a quella indicata da A. PENNA, Bibbia, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. I 1970, pp. 626-29. In particolare per il Salmo 113 (114) ci riferiamo a R. HOLLANDER, Allegory in the Divine Comedy, Princeton, Princeton Univ. Press, 1969; CH. SINGLETON, In exitu Israel de Aegypto, in «Annual Report of the Dante Society», vol. LXXVIII, 1960, pp. 1-24 (poi in trad. it. in ID., La poesia della Divina Commedia, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 494-520); D.J. TUCKER, In exitu Israel de Aegypto. The 'Divine Comedy' in the light of Easter Liturgy, in «The American Benedictine Review», a. xi 1960, pp. 43-61. Per il canto II del Purgatorio, oltre ai Commenti generali alla Divina Commedia, si vedano J. FRECCERO, Casella's Song, in «Dante Studies», a. XCI 1973, pp. 73-80, ed E. PISTELLI, Il canto di Casella, Firenze, Tip. Bonducciana A. Meozzi, 1907.
    13. I Settanta hanno fuso in un'unica composizione, con la numerazione definita come Salmo 113, due distinti testi innici che l'ebraico tiene separati nei Salmi 114 (113A) e 115 (113B).
    14. Così G. MAZZOTTA, Teologia ed esegesi biblica (Par III-V), in Dante e la Bibbia, cit., pp. 95-112.
    15. DANTE ALIGHIERI, Commedia, con il commento di A.M. CHIAVACCI LEONARDI, vol. n. Purgatorio, Milano, Mondadori, 1994, p. 54.
    16. Cfr. C. PAOLAZZI, Nozione di 'Comedia' e tradizione retorica nella dantesca 'Epistola a Cangrande', in ID., Dante e la 'Commedia' nel Trecento: dall'Epistola a Cangrande all'età di Petrarca, pref. di F. MAZZONI, Milano, Vita e Pensiero, 1989, pp. 3-110.
    17. H.U. VON BALTHASAR, Gloria, Stili laicali, trad. it., Milano, Jaca Book, 1976, pp. 6-7.


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