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    Letteratura e formazione /10. Libri memorabili tra classici e contemporanei

    (NPG 2011-01-72)

     

    Raffaele Mantegazza

     

     

    Concludendo questa rubrica sulla letteratura e la formazione, proviamo a dare qualche consiglio a chi volesse cimentarsi con la difficilissima arte della scrittura; e lasciamo che questi consigli provengano da alcuni degli autori che ci hanno fatto compagnia in questi mesi, autorevolissimi guide nell’intricata selva delle belle lettere.[1] Cosa occorre dunque per sapere scrivere? E soprattutto, perché si scrive?

     

    Herbert George Wells

    «Suppongo che il suicida mentre appoggia alla tempia la canna della pistola provi per ciò che succederà l’attimo seguente quello che in quel momento provai io: un sentimento di curiosità».

     

    Perché si scrive? Perché si è curiosi. La scrittura è curiosità, anche di fronte all’estremo. Scrivere significa portare sulla carta quel sentimento misto di paura e speranza che da bambini ci spingeva a guardare dietro tutte le porte o a cercare le tracce dei mostri nascosti sotto il letto. Chi scrive non si arrende alla banalità e alla consuetudine, alla monotonia di un mondo monocromatico. Vuole la meraviglia, lo stupore, la stranezza; e la sa trovare proprio sotto la quotidianità, tra le sue pieghe.

    Ha uno sguardo indagatore che si lascia condurre dagli oggetti e dalle situazioni, che si lascia trascinare via senza sforzo dai marosi della fantasia e dell’immaginazione; senza nemmeno la sicurezza di poter fare un giorno ritorno al proprio porto sicuro; perché in letteratura di sicuro non c’è proprio niente.

     

    Tommaso Moro

    «Ma giudicarono che non fusse convenevole voler con forza e minacce sforzare alcuno a credere quello che tu credi per vero».

     

    Perché si scrive? Perché si hanno delle idee. Ma scrivere per convincere qualcun altro delle proprie idee, scrivere solamente per fare questo, è fare cattiva propaganda.

    Scrivere senza idee è copiare, attività meccanica e inutile. Le idee devono uscire quasi da sole dal testo, non ci deve essere alcuna violenza dell’autore: e soprattutto occorre ricordare il vecchio adagio «habent sua fata libelli», i libri hanno un loro proprio destino. Le nostre idee, una volta scritte, non sono già più nostre: appartengono alla repubblica delle lettere, nella quale ognuno legge, capisce e interpreta come vuole. Forzare altri a credere alle proprie idee è pernicioso in politica, è impossibile in letteratura, perché dal momento in cui sono fissate sulla carta le idee non sono gia più nostre; e non esiste copyright che ce le possa restituire.

     

    François Rabelais

    «Se vuoi evitare di vedere un cretino devi prima rompere il tuo specchio».

     

    Perché si scrive? Per far sorridere. Non esiste ironia se non c’è autoironia; ed è questa l’arte più difficile di tutti, anche se oggi sembra la più diffusa. Essere autoironici non significa fare gli imbecilli, soprattutto se si occupano posizioni di responsabilità; non significa rompere i rituali per il gusto di romperli o scombinare i ruoli per puro spirito carnascialesco. Non prendersi troppo sul serio è possibile solamente se ci si prende assolutamente sul serio: la letteratura come la filosofia è la cosa più seria del mondo e proprio per questo sa ridere di sé. È difficile, oggi più che al tempo di Giovenale, scrivere satire perché la risata grassa e volgare scatenata dal turpiloquio o dalla battuta da taverna sembra insinuarsi anche al di sotto dei prodotti culturali apparentemente più «alternativi».

    Forse oggi scrivere per far sorridere significa scoprire il gusto del gioco di parole, della satira che attacca i ruoli e mai le persone, della leggerezza del colpo di fioretto che scopre le contraddizioni del dominio lasciando però ad altri il colpo decisivo: che non è mai stato compito della letteratura sferrare (semmai della politica) ma solo indicare con garbo e suscitando un lieve sorriso.

     

    Ovidio

    «O Tempo divoratore, e tu, invidiosa Vecchiaia, voi tutto distruggete e a poco a poco consumate ogni cosa facendola morire, rosa dai denti dell’età, di morte lenta».

     

    Perché si scrive? Perché si invecchia e poi si muore. E perché Metamorfosi? Ma per lo stesso motivo. Solo i mortali si pongono il problema del cambiamento dopo la morte. Gli immortali non scrivono: non ne hanno bisogno, non necessitano di lasciare un segno della loro presenza perché questa sarà eterna. La scrittura è il segno che ci sopravvive, il «segno che non passa mai»[2] di una bellissima canzone; la scrittura fa parte di quegli elementi che lasceremo in eredità al mondo quando ce ne saremo andati: la pagina di diario scritta stasera parlerà di noi alla memoria di coloro che ci rimpiangeranno, la lettera imbucata ieri sarà sostegno al dolore di chi sentirà la nostra mancanza. Uno degli elementi di maggiore tristezza suscitati da un certo uso dei programmi di videoscrittura è la poca cura per la scrittura che essi inducono, che è poca cura per la memoria e per le tracce di noi che vogliamo lasciare nel mondo. Ma in realtà, anche la scrittura muore, e non esiste – per fortuna – scrittura eterna; anch’essa muore, si sfoglia, cede al dominio del tempo.

    Verrà un giorno in cui, come in certi racconti di fantascienza, delle Metamorfosi di Ovidio non resterà che polvere; e questo sarà l’ultimo sberleffo a un’arte che si crede eterna e che invece trova la sua nobiltà proprio nel consegnarsi, con leggerezza, all’abbraccio consolante della morte.

     

    Franz Kafka

    «Un libro dovrebbe servire come una scure per rompere il ghiaccio dentro di noi».

    Perché si scrive? Perché si soffre. La scrittura è fatta di dolore, è sostanza di dolore. Ma è anche evasione, via d’uscita, fine di una claustrofobia sociale.[3] Scrivere significa far uscire il nostro dolore dal carcere del nostro io, proporre una fine per il narcisismo del sofferente e al contempo una fine per la comoda illusione per la quale colui che soffre è solo per questo migliore degli altri. Il nostro dolore è in realtà una finestra su quello degli altri: e la vera scrittura del dolore, come ha insegnato Marguerite Duras non si ripiega mai sul proprio stato di sofferenza ma ne fa un pre-testo per capire quello altrui. Per questo è così difficile scrivere attorno ai propri lutti, alle proprie sofferenze, alle proprie morti e ai propri morti.

    La scrittura non consola, non cambia le cose, forse non sublima proprio nulla, ma aiuta a universalizzare il dolore. E un dolore universale ricerca e merita una consolazione universale: identificarmi con il dolore di un altro è impossibile, credere nel suo dolore è un atto di fede che anche attraverso la scrittura può essere suscitata, almeno da quando qualcuno tanti secoli fa ha scelto di narrare il dolore di una madre per la perdita di un figlio, fosse questa avvenuta in Grecia, nel lontano Oriente, a Gerusalemme a Pasqua. Dolori universali perché narrati ma soprattutto perché sottratti almeno in parte alla dimensione privata e grazie alla scrittura restituiti a una dimensione pubblica, sociale, rituale.

     

    Ernest Hemingway

    «Bisogna scrivere quando si sa qualcosa. Non prima e, maledizione, non troppo tempo dopo».

    Perché si scrive? Perché si conosce. Ma la conoscenza svanisce, ci lascia un po’ attoniti, se ne va chiudendo le porte. Quante volte crediamo di sapere qualcosa e invece non è ancora giunto il momento per conoscerla davvero; e quante volte invece perdiamo una conoscenza che abbiamo posseduto (sempre ammesso che le conoscenze si possiedano e non siano invece esse a possedere noi!). Quante volte vorremmo far ritornare «il tempo prima della parola/che non avremmo mai voluto dire»,[4] quante lettere avremmo voluto far tornare indietro una volta spedite e quante emozioni abbiamo lasciato morire senza che le parole arrivassero in orario all’appuntamento?

    G. E. Lessing parlava a proposito dell’arte di «momento fruttuoso», ovvero di un attimo nell’istante creativo nel quale si può vedere chiaramente sia il processo che ha portato l’artista fino a quel punto sia gli sviluppi futuri; è allora che occorre scrivere, quando l’esperienza non è più intrisa con la nostra coscienza in modo da non capirla e quando però al contempo essa non se ne è ancora del tutto allontanata. Un difficile equilibro tra memoria e oblio, esperienza e ricordo, passato e futuro Del resto, se la scrittura è gioco con la morte perché non dovrebbe essere anche gioco con il tempo, con la sua spietata e consolatoria azione di dissoluzione e – ancora una volta – morte?

     

    Primo Levi

    «È il lettore che deve essere indignato, non lo scrittore».

     

    Perché si scrive? Perché si vuole denunciare. Perché, checché se ne dica oggi, la denuncia è una delle poche attività umane ancora degne di essere prese in considerazione in un mondo basato strutturalmente sull’ingiustizia. Ma occorre anche saper denunciare, e questa competenza si mostra soprattutto nel campo del linguaggio. Se il linguaggio della denuncia è volgare, urlato, gutturale come il gergo del dominio, rischia di confondersi con quest’ultimo e di mancare il bersaglio: il libri di Primo Levi sono straordinari proprio in questo evitare accuratamente l’invettiva fina a se stessa. Se il linguaggio della denuncia si rivolge unicamente alle emozioni rischia di non realizzare quello che è il vero fine della letteratura, ovvero partire dal regno delle emozioni per poi risalire lentamente alla ragione e al regno del concetto, quello affrontato direttamente dalla filosofia e dalla teologia.

    La denuncia richiede poesia, sapiente gioco con le parole, metafore e metonimie: un libro sullo sterminio non può essere la fotografia dello sterminio, deve aggiungere qualcosa per arrivare a suscitare indignazione nel lettore: questo «qualcosa» è la storia da narrare, con competenze che non si possono inventare. Per questo un romanzo sulla Shoà è diverso da una testimonianza; e per questo lo può scrivere anche chi non ha provato direttamente quella esperienza. Pensarla diversamente significa sancire l’atto di morte della letteratura.

     

    Italo Calvino

    «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

     

    Perché si scrive? Perché c’è speranza. La letteratura anche più disperata, come l’arte anche più nera, da Kafka a Munch, da Finale di partita a Guernica si sottrae alla dannazione dell’inferno nel momento in cui lo indica e in questo modo ne tratteggia anche una possibile via d’uscita. La letteratura non è cinica: cinismo e nichilismo sono le filosofie del nostro tempo: filosofie da ricchi, perché chi ha il problema di trovare il pane per i propri figli non ha tempo di essere cinico o nichilista. Ma la letteratura aborre il nichilismo, altrimenti dovrebbe semplicemente tacere. Ed essa del resto non è cinica perché altrimenti troverebbe attività più redditizie da svolgere: parliamo ovviamente della vera letteratura, non dei romanzi furbetti che ogni tanto troviamo in cima alle classifiche di vendita.

    Scrivere significa sapere che tutto non sarà sempre così’, che ci sono vie d’uscita, che c’è speranza. Il gesto di iniziare un primo capitolo, lo straordinario momento in cui si verga la prima parola, la prima lettera sul foglio, è gravido di futuro: scrivere significa non rassegnarsi a un mondo che invece può cambiare. Forse non attraverso la scrittura, ma certamente anche a partire da essa.

     

    Dante Alighieri

    «Vidi cose che ridire / Né sa né può chi di là su discende / Perché appressando sé al suo disire / Nostro intelletto si profonda tanto / Che dietro la memoria non può ire».

    Perché si scrive? Perché si deve smettere di scrivere. La scrittura è cosa umana e come tutte le cose umane deve riconoscere i propri limiti.

    Forse è proprio questo il più alto elemento pedagogico della scrittura: a chi ha passato una notte insonne per cercare un aggettivo, la rima perfetta, la metafora non scontata, non viene voglia di credersi onnipotente.

    Scrivere significa anche sapere che non tutto si può scrivere, che a un certo punto qualcosa manca: «A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Scrivere allora è soprattutto saper tacere, lasciare che parli il mondo, o la natura, o l’altro, o Dio. O che non parli più nessuno. Dopo la scrittura c’è il silenzio. «Il resto è silenzio»:[5] il resto sono forse altre parole. Che nessuno scriverà mai, che nessuno avrà più voglia di scrivere. Parole essenziali che non saranno nemmeno parole, ma che nutriranno l’anima più profondamente del miglior romanzo mai letto, della migliore trama mai scritta.

     

    Perché si scrive? E perché no?

     



    [1] Come risulterà chiaro, le citazioni riportate tra virgolette sono originali degli autori mentre il seguito è una nostra libera elaborazione compiuta però sempre a partire dalle poetiche degli autori medesimi (o almeno da come noi le interpretiamo).

    [2] Gianna Nannini “Sei nell’anima”.

    [3] È la definizione dell’angoscia secondo Theodor W. Adorno.

    [4] Roberto Vecchioni, Tu quanto tempo hai?

    [5] William Shakespeare, Amleto.


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