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    Pagine sulla morte

    Da Kundera

    a DeLillo

    Iole Cianciosi

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    Se ne sente parlare ovunque. Io non riesco ancora a capirla a pieno, introiettarla come idea, analizzarla come archetipo. La morte è una cosa strana, ci sommerge, ci avvolge, ci sovrasta. La temiamo ma preferiamo non pensarci troppo e magari è meglio così, lasciar naufragare ai limiti della coscienza questo campo pericoloso, concetto tanto astratto quanto presente e palpabile nel quotidiano ordine delle cose. Ma la letteratura contemporanea gli ha dedicato pagine memorabili.

    «Dum differtur vita transcurrit» 
    «Mentre si rinvia, la vita passa» 
    (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium)

    «Il morire è una componente dell’aria. Si trova ovunque e in nessun luogo» nota DeLillo in Rumore bianco, sempre restando in tema di letteratura contemporanea. Il meglio della letteratura contemporanea. Reticenza è il sostantivo giusto per riferirsi al modello attualmente preponderante per parlare della morte. Oltre a reticenza però, e in opposizione ad essa, vi è anche l’abuso. È proprio attorno a tale bipolarità che ruota il modello instabile e contraddittorio adottato dai media nel trattare l’argomento scomodo e delicato della morte. In effetti, c’è sempre una qualche difficoltà quando si parla di morte, difficoltà che prende le fattezze di una distanza quasi sacra e intimorita, e che sfocia in antitetiche maniere di rapportarsi ad essa.
    La morte è un evento assolutamente scontato, tanto che forse sembrerebbe anche superfluo parlarne, perché certo e inesorabile. Non si sfugge, non ci si nasconde, non si scende a patti, non si tentano penosi convincimenti, sarebbe comunque un fallimento. Imprescindibile, sicura e, mi viene da dire, strana. Strana non perché nella sua natura ontologica sia tale, quanto piuttosto perché accade in certe circostanze in modo bizzarro. Per cui, delle volte, non riusciamo a concepirla, né ad accettarla. Parlarne, come per tante cose della vita, è utile per far comprendere di cosa si tratta. Non per mancata conoscenza della sua essenza, ma per la mancata consapevolezza del suo senso. Perché un senso deve pure avercelo, questa morte. La filosofia in questo caso chiarisce molti dubbi, mentre la letteratura (specialmente la letteratura contemporanea) racconta storie per esorcizzare il dolore.
    Boris Pasternak scriveva che la filosofia si riduce a «un immenso sforzo per risolvere il problema della morte e del destino»; la letteratura in merito è vasta e complessa, ognuno in un modo o nell’altro ci ha pensato e continua a rifletterci: filosofi, poeti, romanzieri ne hanno scritto, pittori e scultori l’hanno raffigurata; tutta l’umanità tenta di comprenderla, caricarla di senso, esorcizzarla, accettarla. I filosofi dell’esistenzialismo hanno trattato a lungo l’argomento facendolo rientrare in un complesso più vasto di interrogativi sul tema dell’esistenza, dell’essere in sé, dell’angoscia, della libertà, della scelta.
    Martin Heidegger, il filosofo tedesco considerato una delle maggiori figure dell’esistenzialismo, considera la morte «come fine dell’Esserci, la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa, […] indeterminata e insuperabile», questo significa che la morte pone l’uomo di fronte alla sua essenza più vera, lo isola con sé stesso, è il modo tramite il quale l’individuo ritrova il suo essere autentico e si riconosce come tale, comprendendosi a pieno. Ovviamente questo processo provoca una particolare sensazione negativa, un turbamento interiore, una malinconia, una frustrazione, una nostalgia della vita: Heidegger la chiama angoscia. L’angoscia non è paura, l’angoscia è la sensazione che l’uomo prova quando si pone davanti al nulla, è quello sconcerto che però ha le sue qualità, perché rivela il significato autentico della presenza dell’uomo nel mondo, ossia non fuggire la morte, ma tenersi in equilibrio all’interno del baratro, sguazzare dentro il nulla senza provare terrore, vivere una vita autentica con la consapevolezza della nullità dell’esistenza. Questo intende DeLillo quando scrive: «siamo la forma più elevata di vita sulla terra, eppure ineffabilmente tristi, perché sappiamo ciò che nessun altro animale sa, ovvero che dobbiamo morire». 
    Per cercare di comprendere un evento talmente diverso dalla vita, senza essere né un filosofo né un dio, viene in soccorso la letteratura contemporanea. Tra i tanti esempi che essa fornisce, tratteremo alcune opere: L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera, Sostiene Pereira di Tabucchi, Rumore bianco di DeLillo. Tre scrittori diversi per tre differenti epoche: un ceco, un americano e un italiano. Il primo alle prese con delle esistenze dissolute e non, in una Praga a ridosso dell’invasione sovietica; il secondo in una Lisbona accecata dal sole di luglio e lambita da brezza atlantica negli anni in cui l’Europa era una cloaca di sangue soggiogata da furie nazionaliste; il terzo in un’America di metà anni ‘80 con le evidenti spaccature nella non più candida perfezione dell’American dream, contesto in cui la morte diviene «suono[…] rumore elettrico […] uniforme, bianco».

    «L'insostenibile leggerezza dell'essere» (Kundera)

    Ne L’insostenibile leggerezza dell’essere Milan Kundera si domanda se «davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa», per estensione potremmo chiederci: quanto peserà la morte? Più o meno della vita, o allo stesso modo? La morte è ascrivibile allo spazio fragile e nullo del non accertato, è «il punto morto del mondo, l’anello che non tiene» (Eugenio Montale, I limoni), è la leggerezza insostenibile dell’essere che svanisce con la sua essenza una volta per tutte.
    Vi è un passo all’interno del romanzo che fa riflettere sulla banalità della morte, sulla sua improvvisa e assurda tempestività, sulla follia che in genere, durante le guerre, la muove: è il racconto di una morte stupida, incosciente, mediocre, violenta, ma non insensata. Jacov, così si chiamava, durante la seconda guerra mondiale venne imprigionato dai tedeschi in uno dei tanti campi, e accusato di non rispettare i turni di pulizia delle latrine: umiliato e accecato dall’odio per la situazione assurda in cui si trovava, si scaraventò sulla recinzione elettrificata del campo, lì restò appeso, morto, il figlio di uno degli uomini più temuti della Terra, Stalin. Kundera commenta che benché il figlio di Stalin avesse «dato la sua vita per della merda», la sua morte è stata significativa, metafisica, perché «morire per della merda non vuol dire morire senza un senso». Per Kundera «il kitsch fa parte della condizione umana», e la morte risente di tutto questo, in quanto «il kitsch è un paravento che nasconde la morte», «è la stazione di passaggio tra l’essere e l’oblio». La morte è ciò che si pone dopo la vita e oltre il kitsch.

    «Sostiene Pereira» (Tabucchi)

    «E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d’estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte» (Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira).
    Nostalgico, melanconico, flemmatico. Pereira è un vecchio giornalista che dopo trent’anni in cui si è occupato di cronaca nera, conduce la rubrica culturale del Lisboa, un giornale del pomeriggio della capitale portoghese. È vedovo, incapace di elaborare il lutto, di divincolarsi dal ricordo, in sovrappeso e con un denso sovraccarico di domande, dubbi, interrogativi morali. Non ancora in grado di comprendere la situazione degenere della vicina Spagna che sprofondava nella guerra civile, né di conseguenza capace di attuare una degna resistenza intellettuale contro le spire nazionaliste, pensa alla morte. Ci pensa spesso, la vede emergere nelle sue giornate oziose, calde, estive, perché essa appare «decisiva per la comprensione e valutazione della vita».
    La scorge durante un pomeriggio sonnolento in una Lisbona luccicante e sfavillante, tra le acque del Tago e la brezza oceanica incastonata nella cupa atmosfera dell’estate del 1938, «il problema è che non faccio altro che pensare alla morte, mi pare che tutto il mondo sia morto o che sia in procinto di morire». Autonomo, anticonformista, un guerrigliero educato – come egli stesso sostiene «io non sono né dei vostri né dei loro, preferisco fare per conto mio» – che combatte la sua quotidiana battaglia contro una congettura astratta. Vi sarà ad un certo punto della sua vita “squilibrata” – in quanto orientata alle memorie del passato e al pensiero di un futuro vago, senza considerare il presente, senza sostenerne il peso – uno sconvolgimento, un evento nel senso freudiano del termine, ossia un avvenimento che soverchia antiche e salde verità, che gli farà prendere atto, visione concreta, tangibile, di quella che fino ad allora, per lui, era solo un’idea astratta, e allora Pereira, paradossalmente smetterà di pensarvi, tornando finalmente a vivere. L’idea di morte e il modo in cui le diverse culture si rapportano ad essa sono un fatto storico, sociale, antropologico. Ogni comunità radicata in una tradizione che si è sviluppata in un determinato tempo di un certo luogo è influenzata e subordinata a certe supposizioni. Oggi sembra che la morte sia sempre più distante, ma nello stesso tempo è anche ben presente. È un fatto relativo, dipende dai punti di vista. Seneca nell’età giulio-claudia, sosteneva nelle Epistulae morales ad Lucilium, composte tra il 63-65 d. C., che l’uomo sbaglia in certi comportamenti, nel modo di rapportarsi alla vita da cui deriva anche la concezione della morte. «In questo noi ci sbagliamo, nel vedere la morte davanti a noi, gran parte di essa è dietro di noi» (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium).
    La morte ci precede, è il tempo passato che abbiamo già vissuto, è unicamente questo. Non è nel futuro, è un evento trascorso, un fatto compiuto, terminata prima che noi ne avessimo potuto scorgerla. Il punto è che «non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto» (Seneca, De brevitate vitae), anche perché come ammonisce Julian Barnes in Il senso di una fine c’è «il tempo inquieto. Il tempo molto inquieto».

    «Rumore bianco» (DeLillo)

    «Non dobbiamo aggrapparci artificialmente alla vita, e neanche alla morte. Non si fa altro che procedere verso le porte scorrevoli. Onde e radiazioni» (Don DeLillo, Rumore Bianco).
    Per comprendere come l’individuo contemporaneo in un mondo globalizzato si rapporti a tale concetto, è bene tirare in causa Rumore bianco di Don DeLillo, capostipite del postmodernismo e classico della letteratura contemporanea, l’opera che meglio rispecchia la nevrosi attualmente dilagante, in un contesto di saturazione materiale ma carenze morali ed eccessivi scompensi psichici.
    Jack Gladney, professore di studi hitleriani presso il College-on-the-Hill e sua moglie Babette, una coppia di una comune famiglia nucleare di Blacksmith, vivono una vita apparentemente normale, si amano, hanno dei bambini e una bella casa con giardino, vivono nell’America dei bagliori del traffico notturno e dei supermercati di giorno. Nulla di strano tranne una cosa: la loro paura ossessiva per la morte, evento che si illudono di poter controllare, con le buone maniere «seguendo regole di buon comportamento» o con una cura bizzarra a base di un farmaco in segretissima sperimentazione, in grado sulla carta di curare la paura della morte. Il punto è che non è così: sono miseri tentativi fallaci, questi, perché la morte ha una soverchiante e inesorabile potenza che va oltre le supposizioni e le previsioni umane, è fondante dell’idea stessa di vita come qualcosa di sacro, raro, da custodire e proteggere; senza la morte non saremmo tanto attaccati alla vita, così come senza il buio non capiremmo l’importanza della luce.
    L’essere umano comprende per assenza e capisce che qualcosa è importante solo quando questa gli manca. Abbiamo tutto, ma siamo individui vuoti, mancanti del senso della vita e stracolmi di inutili accessori. Un materialismo individualista di matrice capitalista ci sta allontanando da quella vita autentica che Heidegger raccomandava, siamo sempre più alienati e sordi alla «voce della coscienza» (Martin Heidegger, Essere e tempo). Allora non dobbiamo parlare della morte, dobbiamo parlare della vita, e di come ci rapportiamo ad essa, perché se impariamo veramente a vivere una vita autentica, solo allora non abbiamo più motivo di temere il baratro, il nulla, le tenebre, perché ne diventiamo consapevoli, li comprendiamo nel senso che li prendiamo con noi, introiettandoli.
    Facciamo come Seneca e come i tibetani che «cercano di vedere la morte per ciò che essa è. Ovvero la fine dell’attaccamento alle cose. Una verità semplice ma difficile da capire» (DeLillo, Rumore bianco).
    Per sentirci più come il giovane guerrigliero antifranchista Monteiro Rossi in Sostiene Pereira, che ad un certo punto dice: «lo sa cosa gridano i nazionalisti spagnoli?, gridano viva la muerte, e io di morte non so scrivere, a me piace la vita».

     

    FONTE: https://www.ilcartello.eu/microcosmi/la-morte-nella-letteratura-contemporanea/ 

     


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