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    Conrad

    Vita misteriosa e folle di un marinaio fedele

    Pietro Citati


    Quando la madre morì di tubercolosi nell’aprile del 1865, Józef Teodor Konrad Korzeniowski, che più tardi diventò Jo­seph Conrad, aveva sette anni. Il padre, Apollo, le dedicò un culto quasi mistico, come a una Madonna o a una Gran­de Madre, culto che il figlio non condivise. Il figlio cercò di ripetere ed imitare il modello del padre, non quello della madre, che non ha alcuna parte di rilievo nella sua vita, nella sua mitologia e nella sua letteratura.
    Il padre - scrisse Conrad - era un uomo sensibilissimo, un tem­peramento esaltato e sognante, cupo ed ironico: aveva una conversa­zione affascinante; e il suo viso, fosco e cupo quando era calmo, si illuminava completamente quando rideva o sorrideva. Amava la let­teratura: tradusse Shakespeare; il figlio ricordò che la sua prima in­troduzione alla letteratura inglese era stato I due gentiluomini di Ve­rona, tradotto da Apollo. Il sogno, nascosto nell’amore del padre per la letteratura, era la Polonia cattolica: libera e indipendente dal­l’odiosa e mostruosa tirannia della Russia. Come scrisse il padre nel 1868: «Joseph ed io siamo due esiliati e vagabondi: abbiamo bisogno l’uno dell’altro; lui ha bisogno del misero guardiano che io sono per lui, ed io di quello che lui è per me, la sola forza che mi tenga in vita». Il figlio avrebbe potuto scrivere le stesse parole, sebbene in tutti i suoi libri avvolgesse la figura del padre in un’aura di fallimento.
    Apollo morì a Cracovia nel maggio 1869, quando il figlio aveva un­dici anni. Conrad passò gli ultimi mesi della vita del padre in un’abi­tazione silenziosissima, posseduta dalla morte, dove le suore infer­miere sussurravano, muovendo appena le labbra. Molto tardi, di se­ra, era autorizzato ad entrare nella camera del moribondo: salutava il padre disteso sul letto, il quale spesso non riusciva nemmeno ad ac­corgersi della sua presenza. La notte Conrad si addormentava di un profondo sonno solo a forza di piangere: pensava con terrore alla morte inevitabile che stava per assalirlo. Quando era insieme agli al­tri, non versava una lacrima; e così veniva giudicato un piccolo mise­rabile indurito dalla sorte.
    Dopo la morte del padre, Conrad visse sotto la tutela del fratello della madre, Tadeusz Bobrowski: lo zio l’amò moltissimo, lo consi­gliò, lo comprese (ne conserviamo settanta lettere, scritte tra il 1876 e il 1893: Bobrowski, Lettere a Conrad, Sellerio, a cura di Maria Cristina Bragone). In quasi tutte le lettere lo zio criticava l’influenza romanti­ca del padre sul figlio, al quale raccomandava risparmio, volontà e tenacia. Di rado Conrad gli ubbidì: continuava a sognare e a sprecare denaro; sapeva che lo zio aveva ragione, ma non poteva rinunciare alla propria inesauribile immaginazione e al proprio destino. Quan­do lo zio morì, Conrad scrisse che era stato per lui un «nobile e ine­sauribile tesoro di chiarezza di pensieri e calore di sentimenti».
    Attorno ai sedici anni, Conrad fu travolto dal desiderio di diventa­re capitano di mare. E cominciò a parlarne in modo così insistente da passare per folle. Lo zio gli rispose che era un «incorreggibile e di­sperato Don Chisciotte»: gli amici e i parenti lo deridevano. Più tardi, Conrad ammise che la sua vocazione marina era misteriosa e inespli­cabile. «Credo che io fossi l’unico caso di un ragazzo della mia nazio­nalità e con le mie ascendenze che faceva, per così dire, un salto a piè pari fuori dal suo ambiente e dai suoi vincoli nazionali». Il suo desi­derio affondava, come Conrad ci racconta, nell’immenso amore in­fantile per i libri di viaggio e le carte geografiche: lo stesso che aveva trascinato Baudelaire «a cullare il nostro infinito nel finito dei mari».

    Alla fine Tadeusz Bobrowski comprese e accolse le aspirazioni del nipote. Il 15 ottobre 1874 Conrad partì per Marsiglia, dove rimase fino all’aprile 1878, affidato alla custodia di un polacco che lavorava nella marina mercantile francese. Frequentò una famiglia di armatori, i Delestang; e un gruppo di scrittori e di bohémiens che conobbe nei caffè di Marsiglia. Nel 1875 fece due viaggi alla Martinica, ascoltando per la prima volta «il canto del vento sugli alberi di una nave»: quel canto era destinato «a penetrare nell’intimo del suo cuore, a passare nel sangue e nelle ossa», accompagnando per vent’anni i suoi pen­sieri e le sue azioni. Madame Delestang gli disse: «Bisogna, in primo luogo, fare attenzione a non rovinare la propria vita». Proprio questo rischiò Conrad, di rovinare per sempre la sua vita, lasciandosi trasci­nare dall’avventura, dal romanzesco, dal losco e dall’equivoco. Quasi tutto resta incerto sul contrabbando d’armi con la Spagna carlista, al quale Conrad partecipò sulla nave Tremolino. Non abbiamo notizie precise nemmeno sul suo tentativo di suicidio: si sparò una pallotto­la nel petto, e lo zio giunse a Marsiglia e lo trovò a letto ferito. Tadeusz perse la pazienza e lo accusò, seppure amorosamente, di pigrizia, incertezza, mancanza di indipendenza, fallimento, coscienza del fal­limento, perdita di energia. Ma forse il tentativo di suicidio fu la sal­vezza di Conrad: egli affondò nel paese della morte, e di lì risorse co­me se la profonda accettazione della morte portasse con sé la resur­rezione.
    Subito dopo questo periodo, Conrad cominciò la sua vita di mare. Per vent’anni, come mozzo, secondo ufficiale e capitano, il mare fu la sua passione e il suo desiderio: dietro alla linea dell’orizzonte il mon­do terrestre per lui non esisteva, come non esiste per l’eremita che si rifugia sulla cima dei monti; e i suoi giovani occhi guardavano sulla vasta superficie marina un luccichio di speranze che era soltanto il riflesso dei suoi sguardi pieni di fiamma. Contemplò spettacoli di ogni sorta: trionfali bagliori di mezzogiorno e tenerezze serali, il ca­tastrofico splendore delle tempeste e la tortura delle lunghe bonac­ce, quando nemmeno una bava di vento increspava le onde immobili come uno stagno: mari alla Byron, alla Turner, alla Poe, alla Melville, alla Hugo, alla Baudelaire - vaghi presentimenti del mare di Con­rad.
    «Nulla è misterioso per un uomo di mare - scrisse Conrad - se non il mare stesso». Via via che passavano gli anni, diffidava sempre più di questo mistero: il mare non era mai stato amico dell’uomo; tutt’al più era stato complice della sua irrequietezza. Non aveva mai sposato le sue cause migliori: ignorava completamente compassio­ne, fede, legge, memoria; era indifferente al bene e al male, alla più bassa avidità e al più nobile eroismo. Se non amava il mare, o vedeva in esso il pericolo, Conrad amò sempre, con tutto il cuore, le navi, dal battello ai grandi velieri. Soltanto le navi risvegliarono in lui le quali­tà che egli amava: soprattutto la fiducia, che riassumeva in sé la com­petenza, il coraggio, la partecipazione, la fedeltà a un’idea e ai com­pagni. «Non so se sia stato un buon marinaio - disse Conrad - ma so di essere stato un marinaio molto fedele».
    La scoperta del mare e delle navi coincise, per Conrad, con quella della lingua inglese. Per la prima volta aveva ascoltato le sue sillabe sulla bocca di alcuni ingegneri che lavoravano alla galleria del San Gottardo: nel golfo di Marsiglia, qualcuno ripete le stesse parole da bordo di una nave di Sua Maestà; infine egli cominciò a imparare, sui libri e sui manuali, la lingua dei marinai. Decise che, se fosse diven­tato marinaio, sarebbe stato un marinaio inglese. Per la lingua di Shakespeare e di Dickens, nutriva una immensa venerazione: era la lingua della sua scelta segreta, del suo avvenire, delle lunghe amici­zie, degli affetti profondi, delle ore di lavoro e di riposo, delle ore so­litarie, dei libri letti, dei pensieri continuati, delle energie ricordate - e persino dei sogni.
    A ventanni, nel settembre 1878, Conrad andò a Londra, per cerca­re di imbarcarsi. Penetrò nella grande città dickensiana, con qualco­sa del viaggiatore che penetra in un vasto e inesplorato deserto. Nes­sun esploratore avrebbe potuto essere più solitario. Non conosceva anima viva tra tutti i milioni di uomini, che intorno a lui popolavano le misteriose lontananze delle strade. Era gonfio d’orgoglio. Stava re­alizzando una meta chiara: fare di sé stesso, in primo luogo, un mari­naio degno del servizio, abbastanza provetto per lavorare a fianco de­gli altri marinai, e, in secondo luogo, giustificare la sua esistenza ai propri occhi, assolvendo un silenzioso impegno morale.
    Il 24 aprile 1878, partì col Mavis, un vapore di settecentocinquanta tonnellate, con un carico di carbone diretto a Costantinopoli. Avreb­be passato quindici anni su velieri inglesi, raggiungendo Bangkok, Singapore, Madras, Calcutta, Giava, Sydney, Porto-Adelaide, Port Louis, diversi porti sconosciuti del Borneo. Intanto, scrupolosamen­te e coscienziosamente, faceva gli esami: fu promosso a luogotenen­te nel dicembre 1884 e a capitano il 10 novembre 1886. Molti anni do­po, in un libro di ricordi, commentò: «Adesso ero senza discussione un capitano di lungo corso britannico. Questo fatto, soddisfacente ed oscuro in sé, rivestiva per me un certo significato ideale»; era la risposta allo scetticismo e alle chiacchere poco amabili che erano state tenute sulla sua vita.
    Nel novembre 1891, gli offrirono un posto di secondo ufficiale sul Torrens, che doveva partire per Porto-Adelaide, in Australia. Era un bellissimo veliero, che trasportava passeggeri, e deteneva il record di velocità tra Plymouth e Porto-Adelaide. «La mia esperienza sul Tor­rens - scrisse Conrad - fu felicissima…». Nel viaggio di ritorno co­nobbe il futuro romanziere John Galsworthy, che lesse il suo primo romanzo. Galsworthy disse di lui: «Mi parve un essere di un’altra raz­za… Il potere di fascino era uno degli aspetti dominanti di Conrad: fascino di un’animazione espressiva e piena di slancio; del suo cuore profondamente affettuoso, del suo spirito sottilissimo e dagli inte­ressi così diversi… Aveva uno straordinario potere di osservare e di sentire». Purtroppo vi erano lunghi, insopportabili mesi, a volte an­ni, che Conrad passava senza far’ nulla, a Londra, o nei porti orientali. Aveva l’angoscia di restare inattivo, incapace di vivere nel presente, sempre proiettato nel futuro o nel passato.
    Allora venne soccorso dalla letteratura - ammesso che la lettera­tura soccorra qualcuno. Quando, nell’autunno del 1889, cominciò a scrivere il suo primo romanzo, La follia di Almayer, non obbediva a nessuna vocazione. La necessità che lo mosse era nascosta e oscura, un fenomeno mascherato e inesplicabile. Era una giornata autunna­le, dall’atmosfera opalina, con una luce velata, semiopaca; e gli alberi della vicina piazzetta di Londra sembravano tracciati ad inchiostro di china su un foglio di carta velina. «Rimasi a lungo a guardare dalla finestra, dopo che la figlia del proprietario aveva portato via le tazze della prima colazione… Mi sentivo tutto intero impregnato dall’in­dolenza dei marinai lontani dal mare, questo luogo di incessante fa­tica e di dovere interminabile. Io assaporavo a fondo la mia irrespon­sabilità assoluta. Mi sembra che non pensassi assolutamente a nul­la».
    Quasi senza rendersene conto, Conrad continuò: lentamente, molto lentamente. Qualche anno dopo, scrisse alla zia: «Rimpiango ogni momento che passo lontano dalla carta. Non dico dalla penna perché ho scritto molto poco, ma l’ispirazione mi viene guardando la carta. Il pensiero va vagando in grandi spazi riempiti da forme vaghe. Tutto è ancora caos, ma - lentamente - gli spettri si trasformano in carne viva, in vapore ondeggiante, si solidificano e chi sa? Forse qualcosa nascerà nello scontro tra le idee indistinte». Soprattutto, nei primi anni di letteratura, insisteva sul fatto che il suo lavoro avve­niva nell’inconscio. Egli non calcolava, non costruiva, non corregge­va, non interveniva: lasciava soltanto che la tenebrosa forza di scrive­re erompesse dagli abissi. «Sono troppo pigro per cambiare i miei pensieri, le mie parole, le mie immagini e i miei sogni. La pigrizia è una cosa sacra».
    La fatica era immensa: lo sforzo incalcolabile. Doveva spremere da sé stesso ogni sensazione, pensiero, immagine - spietatamente, senza riserve e senza rimorsi: doveva esplorare i più oscuri angoli del suo cuore, i più remoti recessi del suo cervello - esplorare alla ricer­ca del mot juste, che non riusciva mai a trovare. Alla fine del suo lavo­ro quotidiano si sentiva esausto, svuotato di ogni sensazione e pen­siero, con la mente vuota e il cuore dolorante, con la consapevolezza che in lui non era rimasto niente. «A me sembra - commentava - che questo sia l’unico modo per raggiungere la vera grandezza, o av­vicinarsi a lei. Lo sforzo sincero di andare avanti fino alle ultime for­ze, senza lasciarsi abbattere dai dubbi, dalla stanchezza e dalle criti­che, è l’unica vera giustificazione di chi scrive in prosa». Ma questo sforzo era terribile. La pagina restava bianca: l’ispirazione una neb­bia. Gli pareva che nella sua testa fosse entrata una bruma fosca. L’oppressione era come quella di chi doppia, d’inverno, il Capo Horn. Pagine manoscritte giacevano sopra e sotto il tavolo: intorno a lui vi erano pagine viventi, segnate e martoriate; pagine morte, che sarebbero state bruciate al cadere del giorno, - relitti di un lungo conflitto. Era disperato. «Talvolta ci vuole tutta la mia determinazio­ne e il mio dominio su me stesso, per trattenermi dallo sbattere la testa contro il muro».
    Poi finalmente un giorno (che a Conrad sembrava sempre lonta­nissimo), il libro era compiuto. Gli sembrava di aver commesso un assassinio. Quando finì La follia di Almayer, il 24 aprile 1894, scrisse allo zio. «Ho il dolore di farti conoscere la morte di Kaspar Almayer, che ha avuto luogo questa mattina alle tre. Dopo che mi sono risve­gliato questa mattina, mi sembra di aver sepolto una parte di me stesso. E tuttavia sono contento - un poco». Il 17 settembre 1895, quando concluse un Un reietto delle isole, scrisse a Edward Garnett. «È mio penoso dovere informarti della triste morte del signor Peter Willems di Rotterdam e di Macassar, che è stato assassinato il sedici del corrente mese alle due pomeridiane, mentre il sole splendeva gioiosamente e l’organetto suonava sul marciapiede l’abominevole intermezzo della Cavalleria».

    Conrad era un uomo piccolo, grazioso, dagli oc­chi neri brillanti, ora socchiusi e acuti, ora dolci e caldi. I suoi modi erano insieme bruschi e carezze­voli, le parole cortesi, contenute e dure: le mani, i piedi o le ginocchia o le labbra, qualcosa in lui era agitato da un movimento continuo. «Non ho mai veduto un uomo - scrisse un amico - così rigo­rosamente virile, eppure di una sensibilità tanto femminile». Bertrand Russell era affascinato dalla sua conversazione: «Parlammo con un’intimità sempre crescente. Mi sembrava di sprofondare al di là di ogni strato di superficialità, finché gradual­mente entrambi raggiungemmo il fuoco centrale. Era un’esperienza diversa da qualsiasi altra avessi mai avuta. Ci guardavamo negli occhi, mezzo sbi­gottiti e mezzo intossicati per il fatto di trovarci in­sieme in una simile regione. Era un’emozione in­tensa come un amore appassionato, e abbracciava tutto, allo stesso modo».
    Col passare degli anni la nevrastenia di Conrad, che nella giovi­nezza era stata mascherata dalle pose di cavalleresco dandy del ma­re, crebbe a dismisura. Cadeva in preda a crisi di malinconia e di de­pressione: si abbandonava a una querula autodenigrazione, quasi che dalle sue mani di eroe sconfitto non potessero uscire che falli­menti. L’immaginazione gli faceva vedere pericoli e insidie da ogni parte. Tortuoso, capriccioso, complimentoso, con qualcosa di pro­fondamente aggressivo, ora stringeva al petto ora allontanava gli amici che lo visitavano. Se l’umore era lieto, accoglieva gli amici con un’allegria deliziosa e assurda, con un amabile scoppio di trovate in­fantili, abbandonandosi al suo estro di «impostore sincero e ispira­to». Ma era un’allegria inquietante. Qualche volta si avvertiva in lui un’atroce indifferenza, e sembrava che fingesse i gesti della passione solo per tenerla definitivamente lontana da sé. Poche parole lasciate cadere nella conversazione facevano intuire che quest’uomo doveva disporre di «notizie confidenziali sul proprio conto», tali da assillar­gli l’animo sino alla fine dei giorni. I suoi libri lasciavano intendere che egli provava una sottile complicità per tutti i peccati commessi dagli uomini; e che in fondo al suo spirito si celava - mai alla luce, sempre avvolto nei misteri e di ombre, mai in coperta- quel «com­pagno segreto», quel «passeggero clandestino», che sta rinchiuso nel cuore di molti di noi, e compie le azioni che noi non osiamo commettere.
    Nemmeno il «passeggero clandestino» possedeva l’ultimo segre­to di Conrad. Quando egli cercava di raggiungere, ancora più in fon­do, ancora più indietro, la prima sorgente della propria persona, in­contrava una presenza minacciosa e indistinta. Nulla di preciso e di limitato: né istinti né sensazioni né complessi né archetipi: ma una specie di nebbia bianca o grigia, simile a quella che la mattina vapora mollemente dalle terre tropicali: un’oscura suggestione melodica; qualcosa di così vago e profondo da mancare di orizzonte e di pro­fondità. In questa nebbia e in questa musica, senza un solo punto di appoggio o un solo confine, Conrad temeva disperatamente di per­dersi.

    Nel 1896, l’anno dopo la pubblicazione della Follia di Almayer, Conrad scrisse Un avamposto del progresso, che Adelphi stampa in­sieme alla Laguna (nella Piccola Biblioteca Adelphi, a cura di Matteo Codignola). Era uno dei racconti che più amava: non tanto, forse, perché vi aveva espresso l’esperienza del viaggio nel Congo, avvenuto nel 1890, ma perché aveva omesso e abolito una parte fondamentale di questa esperienza, dalla quale sarebbe nato Cuore di tenebra (1898-99). I due bianchi, che ora stanno nel cuore del Congo, sono abituati a vivere tra le folle dell’occidente; e credono alla forza inso­stituibile delle istituzioni e della morale. In Africa, conoscono la più totale solitudine. Non sanno nulla, non vedono nulla, salvo ombre di negri e zanne di elefanti: hanno l’impressione di non essersi mai vi­sti. Alla fine uno dei due uccide l’altro e si impicca ad una croce.
    In Cuore di tenebra appare Marlow nella funzione di secondo nar­ratore: come l’avevamo già incontrato in Lord Jim. La sua voce è sar­castica e ironica, profondamente diversa da quella delle sue altre in­carnazioni. Sembra un Buddha, «con le guance incavate, le braccia pendenti e le palme aperte all’infinito, come un idolo». Marlow non nasconde la figura di Conrad: dice cose che egli solo poteva dire, e attraverso le sue parole dobbiamo leggere tutto il racconto e forse tutti i libri di Conrad. «No, è impossibile, è impossibile comunicare ad altri la sensazione viva di un momento qualsiasi della nostra esi­stenza, quel che ne costituisce la verità, il significato; la sua sottile e penetrante essenza».
    Quando il racconto inizia, siamo a Londra, quasi di notte, sulle ri­ve del Tamigi, in quel punto e in quell’ora che Dickens amava e che Conrad imparò ad amare sulle pagine di Dickens. «Una caligine po­sava sulle rive basse che correvano piatte a perdersi nel mare. L’aria era fosca al di sopra di Grave send, e più lontano appariva addensato un tenebrore funereo, incombente senza moto sulla più vasta e po­polata città della terra… Sui tratti superiori del fiume, il luogo della mostruosa città era sinistramente segnato nel cielo; un tenebrore greve alla luce del sole, un vasto bagliore livido sotto le stelle». Lì, nel cuore della tenebra, Marlow evocò un’altra tenebra: quella delle terre attorno al fiume Congo; un fiume enorme, che somigliava straordi­nariamente, sulla carta, a un immenso serpente con la testa nel ma­re, il corpo riposato, disteso in una curva lontanante entro una va­stissima regione. La prima tenebra cerca di conquistare, attraverso le esplorazioni, la rapina e la schiavitù, la seconda tenebra. Ma tutto è vano: l’assalto della prima tenebra non fa che approfondire la secon­da. Non c’è altro che tenebra, quella della civiltà, quella della natura originale, quella della natura esplorata. Non c’è nemmeno una trac­cia di luce: o la luce di una candela illumina soltanto un corpo che muore. Tutto è male: nient’altro che male.
    Marlow racconta ai suoi quattro ascoltatori l’esperienza che ha avuto (e che Conrad aveva, in parte, avuto) nel cuore del Congo. L’Africa, che entrambi avevano sognato fin da bambini, quando la cercavano sulle carte geografiche, era terrificante. L’acqua era ridotta a melma. Il sole accecava. La muraglia vegetale, esuberante e intrica­ta massa di tronchi, di rami, di foglie, di frasche, di tralci immobili nella luce, faceva pensare a una tumultuosa invasione di vita muta. I boschi erano immoti come maschere: massicci come le porte sbarra­te di una prigione. Tutto era solitudine: silenzio, che penetrava sino in fondo al cuore; immobilità, stagnazione, morte, male. Non c’era nessuna speranza di salvezza, come indicavano i neri ridotti schiavi, con il collare di ferro attorno al collo.
    Invece che luce, l’Occidente aveva portato soltanto rovine. I suoi segni erano i vagoncini di ferro con le mote mancanti, simili a cal­casse di animali: macchinali in rovina, cataste di rottami arrugginiti, tubi di conduttura abbandonati; - non cerano nemmeno i bulloni per aggiustare una nave malata. I bianchi, che girovagavano senza scopo qua e là sotto il sole, erano dominati da «una rapacità imbecil­le», così idiota da sembrare irreale. In questa irrealtà c’era solo una persona viva e reale, così raccontavano a Marlow, Mister Kurtz, un misterioso colonizzatore, che si era spinto sino nel cuore del Congo e inviava zanne di elefante alla possente compagnia di Bruxelles. Mar­low risalì il fiume per vederlo ed ascoltarlo: perché Kurtz era sopra­tutto una voce; «tra i suoi doni, quella che fra tutti dominava era la sua facoltà di parola; emanazione dal profondo di una tenebra im­perscrutabile».
    Quando la leggenda si chiari, Mr. Kurtz apparve sopratutto come un razziatore, che aveva assoggettato i neri; e dai neri si era fatto con­sacrare, in danze notturne, dio o semidio. Kurtz era gravemente ma­lato: ascoltata da vicino, la sua voce era profonda e vibrante. Dietro i suoi discorsi, c’era la suggestione di parole udite in sogno, di frasi pronunciate nell’incubo. Completamente solo in quella solitudine selvaggia, Kurtz aveva guardato dentro di sé ed era impazzito. Vedeva fantasmi e gridava: «Quale orrore! Quale orrore!»: quale orrore dun­que l’Europa, l’Africa, lui stesso, la realtà, il sogno, la sua folle impre­sa, l’inutile impresa di Marlow, che cercava in fondo a tutte le cose. Lui solo aveva compreso questa verità centrale: l’orrore della tenebra, sia nella civiltà sia nella natura; l’onnipresenza del male.
    Marlow e Conrad non avevano compreso. Avevano soltanto ascol­tato: il frastuono incessante, il fragore ininterrotto, uniforme e preci­pitoso, o il tremolio, che a tratti si diffondeva, interrompendo la fo­sca tranquillità del paesaggio. Oppure avevano inteso un grido, un altissimo grido di illimitata desolazione, che trafiggeva l’aria immota come una freccia acuminata; un grido che era la voce stessa dell’Africa. Conrad non poteva trasformare questo frastuono o questo grido in un discorso logico. Poteva fare una sola cosa: abbandonarsi all’elo­quenza funerea della propria prosa che avviluppava il racconto come la foschia generata dal caldo, o «come uno di quegli aloni nebulosi resi visibili dalla spettrale illuminazione della luna».

    (Corriere della Sera 15 agosto 2014)


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