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    il centenario dantesco

    Giandomenico Mucci


    Dante nacque tra il 21 maggio e il 20 giugno, più probabilmente alla fine di maggio, del 1265, a Firenze, nella casa degli Alighieri, nel popolo di san Martino del Vescovo, davanti alla torre della Castagna. La famiglia, di parte guelfa, apparteneva alla piccola nobiltà fiorentina ed era di modeste condizioni economiche.
    Il poeta morì a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, dopo essere stato colto, ritornando da Venezia, da febbri malariche nelle paludi di Comacchio. A Venezia si era recato in missione diplomatica tra la fine di luglio e i primi di agosto di quell'anno, con lo scopo di scongiurare i propositi di guerra minacciati dalla Repubblica come rappresaglia contro gli attacchi delle navi ravennati alla flotta veneziana. Perciò, nel prossimo settembre 2021 ricorre il settimo centenario della sua morte.
    In Italia e all'estero già ferve, da parte dei dotti, la preparazione di varie iniziative editoriali, studi,pubblicazioni, convegni per celebrare l'evento. Per una rivista quale è la nostra, è prematuro oggi associarci alla commemorazione di quel grande. Sembra però opportuno preparare, per così dire, gli animi, mostrando, da un lato, l'attualità e la fortuna del poeta fiorentino nel mondo contemporaneo e, dall'altro, le voci critiche che in Italia si sono levate, non contro la sua arte, ma contro il suo culto, che è stato a lungo patrimonio condiviso della stessa identità italiana.

    A che punto è la fortuna di Dante?

    La stampa italiana, quotidiana e settimanale, non riserva a Dante una particolare attenzione. E lo si può capire. Un poeta classico è oggetto solitamente di studi specialistici. Al più, il suo nome è citato sui giornali per qualche dettaglio o curiosità legati alla sua biografia e ricerche su qualche suo personaggio più noto o sui luoghi per i quali il poeta è passato o ha soggiornato.
    Capita perfino che si diano in pasto ai lettori notizie sull'esistenza delle loro ceneri (è il caso di Dante) e sugli esami condotti con metodi modernissimi sulle loro ossa per cavarne il Dna (è il caso del Petrarca). Tuttavia, spulciando sui nostri giornali degli ultimi venti anni, ci hanno colpito alcuni articoli sulla fortuna di Dante in Russia, negli Stati Uniti, in Francia e in Cina; e, francamente, non ce l'aspettavamo [1].
    In Russia, di Dante si parla fin dall'Ottocento. Nel secolo seguente, la Commedia è stata tradotta da Michail Lozinskij, che per questa sua fatica ottenne nel 1946 il premio Stalin. Lozinskij era uno degli esponenti dell'«acmeismo», la corrente letteraria che guardava a Dante come al sole della poesia europea. Alla stessa corrente apparteneva Osip Mandel'štam, che era solito leggere la Commedia per capire se stesso e il mistero dell'universo, e a tal fine aveva studiato la lingua italiana.
    La versione integrale della Commedia in cinese è stata completata soltanto nel 1954, ma quasi cinquant'anni prima Lu Xun e Liang Quichao si erano resi conto della grandezza di Dante. Nei primi decenni della formazione della Cina moderna, la figura del poeta fiorentino era stata accostata e sovrapposta a quella di un grande poeta cinese del IV secolo a.C., Q. Yuan, e Mao Dun, negli anni Trenta del secolo scorso, si era cimentato in un parallelo tra il poeta cinese e quello italiano. Nello stesso arco di tempo, il francescano Gabriele Allegra, noto biblista, missionario in Cina e studioso di Dante, aveva tradotto in italiano il
    poema Lisao («I tormenti dell'esilio»), nel quale era evocato un viaggio oltremondano alla ricerca della giustizia e della verità [2].
    Sembra che negli Stati Uniti Dante sia celebre non odiante per gli italianisti, se a New York, recentemente, in un bar del Lincoln Center, un italiano che vi è entrato per fare uno spuntino si è sentito chiedere da una signora il favore di leggerle in italiano dei versi di I )ante su una Commedia tascabile che lei aveva estratto dalla sua borsetta [3].
    La presenza di Dante nella cultura degli Stati Uniti risale al 1867, quando Henry Wadsworth Longfellow tradusse la Commedia e animò, dal 1865, nella sua casa di Cambridge, nel Massachusetts, il Dante Club, che nel 1881 divenne The Dante Society of America [4]. Successivamente, nel Novecento altre traduzioni della Commedia hanno dato, sempre negli Stati Uniti, Laurence Binyon (versione lodata da Ezra Pound), Mark Musa e Allen Mandelbaum, e studi sulla traduzione e sui traduttori di Dante ha offerto Giuseppe Di Scipio dello Hunter College e del Graduate Center della City University di New York.
    Dello stesso Hunter College è Maria Paynter, studiosa della critica dantesca negli Stati Uniti, la quale, dalla metà del secolo scorso, si è evoluta, con la lezione di Charles Singleton, verso una lettura fondata sull'unità concettuale e formale del poema di Dante, in contrapposizione al frammentarismo storico-filosofico e alla influenza dell'estetica crociana. Si aggiunga l'attività di Robert Hollander, professore di Letteratura italiana medievale all'Università di Princeton, specialista dei tre massimi poeti italiani del Trecento, premiato con vari riconoscimenti anche in Italia [5].
    Per la Francia, basti citare Jacqueline Risset, professoressa di Letteratura francese all'Università di Roma, traduttrice dell'intera Commedia, fine interprete della biografia e dell'anima di Dante e divulgatrice del suo pensiero e della sua arte.

    E in Italia?

    Carlo Betocchi, Mario Luzi, Giorgio Caproni e Giovanni Giudici si sono distinti per lo studio e l'amore fedele per Dante. Ma forse hanno avuto pochi imitatori. C'è chi lamenta, da noi, l'abbondanza dei commentatori di Dante che, come fanno i vocabolaristi, si copiano tra loro [6]. C'è chi lamenta «il delirio e la dissennatezza» di commenti alla Commedia destinati ai ragazzi e scritti con tecnicismi quasi incomprensibili [7]. C'è chi lamenta la scarsa presenza di Dante perfino nei licei classici e scientifici per dare più spazio agli autori moderni [8].
    Secondo i critici di questa scarsa presenza, la cultura italiana, scolastica e non, è vittima da decenni di un grosso equivoco. «Per alcuni sembra ancora vivo e vegeto il pregiudizio illuministico, per cui non solo le problematiche della realtà contemporanea devono venire al primo posto nell'interesse degli studiosi e degli studenti, ma tutto quello che sa di passato, di tradizione, di classicità può essere buttato tranquillamente a mare».
    Quasi che il futuro possa essere costruito nell'ignoranza «di un percorso millenario che quanto più si conosce tanto meglio si può procedere verso il domani con sicurezza, maturità, coscienza critica». Probabilmente è questo il background che determina l'eccessivo ridimensionamento o la scomparsa della presenza dantesca nei programmi delle nostre scuole superiori. «Sarebbe come se nelle scuole inglesi si decidesse di non studiare più Shakespeare o come se in un corso di letteratura greca classica si rinunciasse a Omero o a Tucidide o ai tragici ateniesi del V secolo» [9].
    Anche Cesare Segre considerava negativa la tendenza a concentrarsi sulla letteratura contemporanea, come se il resto fosse un precedente remoto e facoltativo. «Che si direbbe di un ministro chedecidesse di lasciare alla loro sorte, cioè alle intemperie, ai vandali, ad altri deprecabili terremoti gli affreschi di Assisi, dato che sono così lontani dagli "interessi dei giovani" e dalle "valenze estetiche, sociali, culturali" d'oggi? Il Novecento italiano è un secolo con molti notevoli poeti e narratori, qualcuno grande, ma un secolo in cui l'Italia è ormai periferia: la ricchezza di opere e di idee-guida della Francia o dell'Inghilterra, della Germania o della Russia, per non parlare degli Stati Uniti, ci soverchiano indubbiamente. Il fatto che gli scrittori contemporanei siano di comprensione immediata e ci parlino più direttamente non annulla questo gap» [10]. E il noto italianista non riusciva a trovare motivi per giustificare l'accantonamento degli autori del Tre
    e del Cinquecento, che fecero della letteratura e dell'arte italiane il centro del mondo conosciuto.
    Di diverso parere è Alfonso Berardinelli. «Ci si dovrebbe [...] decidere, una buona volta, a prendere sul serio la cultura scientifica e tecnica come cultura umanistica, almeno nelle scuole che lo prevedono. E magari l'insegnamento letterario andrebbe organizzato di conseguenza: privilegiando la prova scientifica e facendo leggere Leonardo, Galilei, Verri, Algarotti, Cattaneo, Leopardi, fino a Luigi Einaudi, Calvino e Primo Levi» [11].
    Quanto a Dante, lo stesso autore scrive: «Dante è lontano, è così lontana la civiltà a cui appartenne che non dobbiamo credere di trovarci ancora sulla linea di una continuità culturale con lui. La nostra attuale cultura ha, con ogni evidenza, abbandonato, rinnegato e sepolto la cultura medievale. Noi non siamo loro. E forse è possibile considerare più vicino a Dante un islamico, un indù, un buddista tibetano, che vivono in condizioni di "sottosviluppo" economico, che non un italiano e un europeo forniti di cultura classica e comfort metropolitani» [12].
    La discontinuità culturale, di cui parla il testo, è cosa evidente a tutti. Ma non si può introdurre in un discorso sulla poesia e sull'arte un criterio di chiara origine sociologica. Questo criterio svolge la sua parte nella comprensione del fattoartistico, ma non può spiegarlo da solo, con il rischio di togliergli quel valore che lo eleva oltre e sul tempo che lo ha visto nascere.
    L'affermazione di Berardinelli mostra palesemente la debolezza del suo impianto concettuale a chi lo applicasse, per esempio, all'arte di Bach o di Mozart. La civiltà barocca tedesca è certamente morta, e morta è altresì la civiltà asburgica, ma chi oserebbe dire che Bach e Mozart sono lontani da noi e dalla civiltà contemporanea?
    Jorge Luis Borges soleva stupirsi quando qualcuno alludeva al Medioevo come a «una sorta di lungo sonno dogmatico» [13], e parlava della Commedia come di un «libro totale», di «una lettura infinita»: «Sembra che in quel libro ci sia già tutto; io mi meraviglio del fatto che ci siano scrittori italiani che abbiano avuto l'ardire di scrivere dopo Dante» [14].
    Per spiegare in certuni la disaffezione da Dante, Andrea Zanzotto si rifaceva «al distratto italiano medio di oggi, abituato spesso dalla scuola a considerare il poeta come il solito accigliato soprammobile da ufficio» [15]. ln realtà, la causa di quella disaffezione, come pure della presunta non attualità di Dante, era stata individuata con chiarezza da Mario Sansone, noto storico della nostra letteratura, quando, intervenendo durante il Convegno dantesco celebrato a Penne (Pe) nel 1993, disse: «Per sentire Dante ci vuole una condizione civile e serena, una disponibilità che invece oggi appare nulla. Troppo egoismo, troppo materialismo portano verso una sorta di depressione morale», che impedisce di stimare e appropriarsi «della freschezza, della lealtà, soprattutto del coraggio» del poeta fiorentino [16].

    Dante e i Papi

    Nella Chiesa, l'opera di Dante è stata sempre tenuta nel dovuto onore. Dantisti insigni sono stati membri del clero cattolico. Ci piace ricordare p. Luigi Pietrobono, scolopio, l'arcivescovo Giovanni Fallani e p. Giovanni Busnelli, che apparteneva al Collegio degli scrittori della nostra rivista [17].
    Il Magistero stesso della Chiesa ha espresso, almeno due volte, l'amore e la venerazione per «il signore dell'altissimo canto».
    Paolo VI, che fin dagli anni giovanili ebbe consuetudine con Dante e di lui alimentò il pensiero e la preghiera, pubblicò, nel settimo centenario della nascita del poeta, la Lettera apostolica Altissimi cantus, rivolta al popolo italiano e alle altre nazioni formate alla civiltà cristiana [18]. In essa si legge: «È utile che Dante possa essere per altri, quanto più numerosi possibile, un secondo Virgilio, che li introduce nel santuario dell'arte. E questo è ancor più auspicabile ai nostri tempi, in cui al progresso economico e tecnologico non di rado corrisponde un regresso della vita spirituale. L'arte soffre d'indigenza: assai spesso viene portata a espressioni inconsistenti e unilaterali, viene ridotta a un soggettivismo, per così dire, manicheo, sprezzante della natura, viene trasformata in riso cinico, in descrizione ed esaltazione dei vizi» [19]. Pertanto, «esortiamo gli uomini della nostra epoca a perfezionare e illuminare la loro cultura incontrandosi con un così alto spirito» [20].
    I medesimi sentimenti e la medesima esortazione sono presenti nell'Enciclica In praeclara summorum, con la quale Benedetto XV volle commemorare il sesto centenario della morte di Dante [21]. Il documento non si limita a esaltare il grande poeta, ma anche affronta, e in qualche modo giustifica, le frequenti invettive di Dante contro i Papi e gli ecclesiastici della sua epoca, per sottrarre il poeta all'aura di anticlericalismo che l'idealismo nostrano e il positivismo gli andavano tessendo intorno già dall'Ottocento. L'arte di Dante non può essere artificialmente isolata dalla sua fede cattolica. E, a quanto ne sappiamo, non è finora mai successo che una Enciclica sia stata scritta e dedicata a un artista che fu un laico credente e non era un santo.

    NOTE

    1. Cfr F. LICINIO GALATI, «Il paese che ha Dante ha certamente un'anima», Oss. Rom., 9-10 dicembre 1993, 3.
    2. Cfr ivi, 29 giugno 1997, 3; Corriere della Sera, 13 novembre 2004, 35.
    3. Cfr Oss. Rom., 19 novembre 2014, 4.
    4. Cfr 30 Giorni, maggio 2006, n. 5, 60-69.
    5. Cfr Il Foglio, 7 aprile 2007, VIII.
    6. Cfr M. PICCHI, «Quando Dante ride», in L'informazione bibliografica 20 (1994)
    365 s.
    7. Cfr G. CASSIERI, «Come perdersi in Paradiso», in La Stampa, 7 febbraio 1995, 17.
    8 R. Cfr Secolo d'Italia, 4 ottobre 2005, 14.
    9. M. SPINELLI, «L'irresponsabile gioco al massacro della fronda antidantista», in Oss. Rom., 13 dicembre 1997, 9.
    10. C. SEGRE, «Dante e Petrarca bocciati in italiano», in Corriere della Sera, 5 ottobre 1997, 33.
    11. A. BERARDINELLI, «Dante e Petrarca? Troppo difficili. A scuola meglio Calvino», ivi, 7 ottobre 1997, 31.
    12. ID., «Dante», in Cento poeti. Itinerari di poesia, Milano, Mondadori, 1997, 95.
    13. J. L. BORGES, Conversazioni, Milano, Bompiani, 1993, 183.
    14. Ivi, 180 s. Cfr T. S. ELIOT, Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica, ivi, 1995, 185-196.
    15. A. ZANZOTTO, «L'Italia del povero Dante che squallido nido di vipere», in Corriere della Sera, 7 gennaio 1996, 23. Analoga valutazione di Tullio De Mauro: cfr D. FERTILIO, «Ma che storia e istituzioni. L'Italia nasce dai classici», ivi, 6 aprile 2006, 43.
    16. Cfr nota 1.
    17. Cfr D. MONDRONE, «Gesuiti studiosi di Dante», in Civ. Catt. 1965 II 535-547; 1965 III 119-132.
    18. PAOLO VI, «Litterae Apostolicae Motu proprio datae "Altissimi cantus" septimo exeunte saeculo a Dantis Aligherii ortu», in Acta Apostolicae Sedis 58 (1966) 22-37. Cfr G. FRAsso, «Una salda amicizia: papa Paolo VI e Dante», in Vita e Pensiero 97 (2014) 124-131.
    9. PAOLO VI, Altissimi cantus, n. 43.
    20. Ivi, n. 66.
    21. BENEDETTO XV, «Epistola Encyclica saeculo sexto exeunte ab obitu I)antis Aligherii», in Civ. Catt. 1921 II 289-301.


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