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    Vivere insieme

    Fernando Savater


    Nessuno diventa umano da solo: ci facciamo umani gli uni con gli altri. Riceviamo l'umanità che è in noi per contagio: è una malattia mortale che non avremmo mai contratto se non fosse stato per la vicinanza dei nostri simili. Ce l'hanno passata nel respiro, attraverso la parola, ma ancor prima attraverso lo sguardo: quando ancora siamo ben lungi dal saper leggere, leggiamo la nostra umanità negli occhi dei nostri genitori o di coloro che si prendono cura di noi in vece loro. È uno sguardo che contiene amore, preoccupazione, rimprovero, burla: cioè, significati. Uno sguardo che ci solleva dalla nostra naturale mancanza di significato per renderci umanamente significativi. Tzvetan Todorov, uno degli autori contemporanei che ha affrontato questo tema con maggior sensibilità, nel suo libro La vita in comune sostiene che il bambino cerca di cogliere lo sguardo della madre non solo affinché questa accorra per nutrirlo e consolarlo, ma anche perché questo sguardo apporta un complemento indispensabile: lo conferma nella sua esistenza. Come se conoscessero l'importanza di quel momento, benché non sia così, il padre o la madre e il figlio possono guardarsi a lungo negli occhi; quest'azione sarebbe completamente eccezionale in età adulta, quando uno scambio di sguardi di oltre dieci secondi può significare solo due cose: che i due individui si batteranno o faranno l'amore.
    Essendo, come uomini, il frutto di questo contagio sociale, a un primo sguardo è sorprendente il fatto che sopportiamo la nostra socialità con tanta inquietudine. Non saremmo ciò che siamo, senza gli altri, ma ci pesa essere con gli altri. La convivenza sociale non è mai indolore. Perché? Forse proprio perché è troppo importante per noi, perché ci aspettiamo e temiamo troppo da essa, perché ci disturba il fatto di averne tanto bisogno. Durante un brevissimo periodo di tempo, ogni essere umano crede di essere Dio o, perlomeno, il re del minuscolo universo che conosce: il seno materno appare per placare la fame (quasi sempre in forma di biberon), mani affettuose rispondono ai nostri pianti per consolarci e asciugarci le lacrime, per rinfrescarci e riscaldarci, per farci compagnia. Parlo di quelli fortunati, perché ci sono bimbi cui un atroce destino nega anche questo primo paradiso di illusoria onnipotenza. Tuttavia, il nostro regno finisce in breve tempo, anche nei casi più felici. Ben presto dobbiamo accettare che quegli esseri da cui tanto dipendiamo hanno una volontà propria, che non sempre consiste nell'obbedire alla nostra. Un giorno piangiamo e nostra madre tarda a venire; ciò ci annuncia e ci prepara a un giorno più lontano, quello in cui piangeremo e nostra madre non verrà più.
    Nella filosofia e nella letteratura contemporanee sono molte le rimostranze contro l'onere che comporta vivere in società, le frustrazioni che derivano dalla nostra condizione sociale, nonché le misure che possiamo adottare per doverne soffrire il meno possibile. Nel suo dramma Porta chiusa, Sartre coniò una celebre sentenza, in seguito mille volte ripetuta: «L'inferno sono gli altri». Allora, il paradiso sarebbero la solitudine e l'isolamento (che ovviamente non sono affatto la stessa cosa). Il tema dell'«incomunicabilità», che compare in varie forme nelle opere filosofiche, nei romanzi, nella poesia, eccetera, talvolta viene trattato come una serie di rivendicazioni contro la perdita di quella comunanza di senso che si presume esistesse nelle società tradizionali, abbattute dall'individualismo moderno. In altri casi, sembra piuttosto scaturire da quello stesso individualismo che considera la propria unicità e la propria irriducibile particolarità assolutamente incomprese dagli altri. Poi ci sono autori che deplorano i condizionamenti che la convivenza in società impone alla libertà personale o si ribellano ad essi: non siamo mai ciò che vorremmo veramente essere, ma quel che gli altri esigono che siamo! E alcuni propongono strategie vitali affinché l'aspetto collettivo non fagociti la nostra intimità: è bene collaborare con la società finché ciò è vantaggioso anche per noi, ma dobbiamo essere in grado di prenderne le distanze quando ci sembri opportuno. In fin dei conti, come disse una volta l'intraprendente signora Thatcher, la società è un'entelechia e gli unici che esistono veramente sono gli individui...
    Sono molte le argomentazioni accettabili a favore delle proteste e dei risentimenti. Le attuali società massificate tendono a spersonalizzare i rapporti umani, rendendoli frettolosi e burocratici, vale a dire molto «freddi», se paragonati con il «calore» immediato delle antiche comunità, meno regolate, meno popolose e più omogenee. In esse aumenta, invece, la possibilità di controllo governativo, o semplicemente sociale, dei comportamenti individuali, sempre più vigilati e costretti a sottomettersi a certe regole comuni... sebbene quest'ultima forma di tirannia sia sempre esistita, anche nelle piccole comunità premoderne! Malgrado tanto controllo, però, sono troppo pochi i cittadini che godono dei vantaggi della vita in comune e troppo numerosi quelli che soffrono la miseria e l'abbandono. Inoltre, va detta una cosa importantissima e cioè che il nostro secolo ha conosciuto esempi terrificanti del terrore totalitario che i collettivismi dittatoriali possono esercitare sulle persone. Dunque, è possibile che tanti difetti facciano dimenticare fino a che punto la socievolezza non è solo un onere che, dall'esterno, s'impone alla nostra autonomia, ma un'esigenza della nostra condizione umana senza la quale ci sarebbe impossibile sviluppare proprio quell'autonomia di cui siamo così comprensibilmente gelosi. Pur senza voler contraddire la signora Thatcher, è evidente che le società non sono semplicemente un patto più o meno provvisorio, più o meno conveniente, cui giungono gli individui razionali e autonomi, ma piuttosto che gli individui razionali e autonomi sono prodotti eccellenti dell'evoluzione storica delle società, alla cui trasformazione, successivamente, contribuiscono. Come potrebbe essere altrimenti?
    L'inferno sono gli altri? Solo nella misura in cui possono renderci la vita infernale quando ci rivelano, a volte senza considerazione alcuna, le crepe del sogno libertario di onnipotenza di cui la nostra autocompiacente immaturità ama fantasticare. Viviamo necessariamente nell'incomunicabilità? Naturalmente, se per «comunicazione» intendiamo il fatto che gli altri debbano interpretarci alla perfezione, recependo tutto ciò che noi crediamo di esprimere; ma solo assai relativamente se accettiamo che pretendere comprensione non è la stessa cosa che farsi comprendere e che il primo requisito della buona comunicazione è proprio lo sforzo di capire colui da cui vogliamo essere capiti. Gli altri e le istituzioni che con essi condividiamo limitano la nostra libertà? Forse bisognerebbe porre la domanda in un altro modo: ha senso parlare di libertà senza far riferimento alla responsabilità, cioè al nostro rapporto con il prossimo? Non sono proprio le istituzioni – a cominciare dalle leggi – che ci rivelano la nostra libertà di obbedir loro e di sfidarle, nonché di stabilirle e di revocarle? Persino gli abusi totalitari, o semplicemente autoritari, servono perlomeno a farci comprendere meglio – nella resistenza che ad essi opponiamo – le implicazioni politiche e sociali della nostra autonomia personale.
    Per giustificate che siano le proteste contro le forme effettive dell'attuale società (di qualunque società «attuale»), è pur sempre vero che siamo umanamente configurati per i nostri simili e a causa di essi. È il nostro destino di esseri linguistici, vale a dire, simbolici. Quando nasciamo, siamo «capaci» di umanità, ma questa nostra capacità – che include, fra le sue caratteristiche, la libertà e l'autonomia – non diventa effettiva finché non godiamo e soffriamo del rapporto con gli altri, i quali, naturalmente, non sono mai «di troppo», cioè non sono mai superflui o meri impedimenti allo sviluppo dell'individualità che, di fatto, si afferma solo fra loro. Per conoscere noi stessi, innanzitutto abbiamo bisogno di essere riconosciuti dai nostri simili. Per quanto il nostro rapporto con gli altri possa risultare, eventualmente, negativo, non sarà mai così irrimediabilmente distruttivo come lo sarebbe l'assenza totale di rapporto, ovvero il «non essere riconosciuti», per sempre, da coloro che devono riconoscerci. Lo ha detto benissimo il grande psicologo William James: «L'io sociale dell'uomo è il riconoscimento che questi ottiene dai suoi simili. Non siamo solo animali gregari, cui piace la vicinanza dei nostri compagni, ma abbiamo anche un'innata tendenza a farci conoscere, conoscere e approvare, dagli esseri della nostra specie. Non si potrebbe concepire una punizione più diabolica, se fosse fisicamente possibile, di quella di vederci strappati dalla società e di essere totalmente ignorati dai membri che la compongono». Nessuno arriverebbe all'umanità, se gli altri non lo contagiassero con la propria, poiché diventare umani non è mai cosa di un solo individuo, ma di vari; ma una volta umani, la peggior tortura sarebbe che nessuno ci riconoscesse come tali... neppure per ricoprirci di rimproveri!
    Torniamo per un momento al tema della natura e della cultura, affrontato nel capitolo precedente. È «naturale» l'imperiosa necessità di essere riconosciuti dai nostri simili, che a sua volta prelude a tutti i nostri impegni propriamente «culturali»? Nella Fenomenologia dello spirito, Hegel ci parla di questo passaggio attraverso una sorta di mito speculativo conosciuto come «signore e servo» (o, ancor più drammaticamente, «padrone e schiavo»). Partiamo dal presupposto che nel mondo si aggiri un essere dotato di coscienza, di cui non sappiamo ancora se sia umano o animale. Ha appetiti (fame, sete, volontà di ripararsi, sessualità...) che cerca di soddisfare immediatamente, nonché nemici e rivali con cui deve lottare e dai quali deve fuggire. Per questa coscienza, il mondo non è nient'altro che il teatro del suo tentativo di sopravvivere biologicamente ad ogni costo. Esiste una continuità totale fra il mondo e la coscienza che in esso si muove o, per dirlo con le parole che Georges Bataille usò nella sua Teoria della religione, la coscienza vitale zoologica si trova ancora nel mondo come «acqua nell'acqua». Dunque, in realtà non esiste il «mondo» come qualcosa d'indipendente e di separato dalla coscienza, ragion per cui non c'è neppure vera «coscienza» intesa come volontà autonoma in se stessa. Però, adesso, immaginiamo che la coscienza si trasformi in autocoscienza, in coscienza di se stessa, e cominci a valutare l'indipendenza dei propri desideri rispetto al mondo circostante. Anche il mondo, allora, si trasforma immediatamente in qualcosa di «estraneo», che resiste e si oppone ai suoi appetiti, che sembra «volere» per conto suo, contro ciò che l'autocoscienza considera la propria volontà.
    L'autocoscienza, allora, non si accontenta più della semplice sopravvivenza biologica, che invece le bastava finché si trovava in piena continuità con il resto del mondo. Adesso l'autocoscienza vuole, innanzitutto, il proprio volere, la propria volontà autonoma distinta dal mondo che le si oppone. In certo modo ciò la colloca fuori dalla vita, dal semplice durare come «acqua nell'acqua», e la mette davanti alla morte. Da coscienza della vita si trasforma in autocoscienza che accetta e sfida la certezza della propria morte. In questo mondo che si oppone alla gratificazione dei suoi appetiti, l'autocoscienza prende a essere sempre più capace di valutare, scegliere e gerarchizzare i propri desideri non solo secondo il metro della sopravvivenza, ma anche secondo quello dell'affermazione autonoma della sua volontà. Prima o poi, l'autocoscienza dovrà affrontare un'altra autocoscienza apparentemente simile. Ma, all'inizio, non è disposta ad accettare questa parentela: anzi, vuole che l'altra la riconosca come unica e che rinunci all'aspirazione di considerarsi uguale. È allora che fra le due si scatena la lotta mortale per il riconoscimento, una battaglia in cui le armi fisiche si mescoleranno a quelle simboliche.
    Come potrà, un'autocoscienza, affermarsi sull'altra? Tramite il più universale degli strumenti: la paura della morte. Poiché entrambe sono coscienti della propria mortalità, dovranno provare fino a che punto si trovano «al di sopra» del puro istinto di sopravvivenza che le innesta nella zoologia, da cui vogliono affrancarsi, lottando per consolidare la propria autonomia. La lotta per il riconoscimento sarà vinta dall'autocoscienza che dimostrerà di saper andare oltre il terrore della morte: il temerario, colui che sa combattere con l'implacabile freddezza di chi sembra già morto, vince il timoroso, che invece è ancora troppo attaccato al battito vitale e che non rinuncia mai a coprirsi le spalle e a ritirarsi in tempo. È una situazione simile a quella proposta in un gioco terribile che, fino a pochi decenni fa, furoreggiava negli Stati Uniti, di cui compare una versione nel film di Nicholas Ray Gioventù bruciata: i concorrenti lanciano le proprie automobili, una contro l'altra o affiancate, verso un precipizio; il primo che frena o sterza, per istinto di sopravvivenza, è un «coniglio» e perde. L'altro, se salva la pelle, viene riconosciuto come il valoroso, cioè, colui che vale di più, quello il cui disprezzo della morte situa lontano dall'animalità (infatti, quasi tutti gli animali, quando si rendono conto che stanno perdendo con un avversario, si arrendono prima che la lotta possa avere conseguenze fatali).
    L'autocoscienza sconfitta – sconfitta, soprattutto, dalla paura di morire – si sottomette agli ordini del vincitore (il quale non riconosce altro «padrone» che la morte stessa). Tuttavia, il vinto non si trasforma in un semplice animale: per servire il signore, si vede obbligato a lavorare, cosa che lo allontana dall'immediatezza degli appetiti zoologici. Attraverso il lavoro, il mondo cessa di essere solo un ostacolo, o un nemico, e si trasforma in materia per realizzare trasformazioni, progetti, funzioni creative. Alla lunga il padrone, i cui desideri sono immediatamente soddisfatti dallo schiavo, ritorna lentamente all'animalità e come divertimento «umano» non gli resta nient'altro che rimirare il proprio volto nello specchio della morte, fino a identificarsi con essa. Il servo, invece, diventa il depositario dell'autocoscienza più duratura, non limitata alla sterile sfida della morte, bensì dedita alla creazione di nuovi modi di razionalizzare la vita. Insomma, queste due autocoscienze non rappresentano nient'altro che le due metà dell'autocoscienza dell'uomo: l'affermazione della propria indipendenza come valore superiore a quello della semplice sopravvivenza biologica e l'impegno tecnico a poter vivere più a lungo e in maniera migliore. Un altro passo avanti e ognuna delle due autocoscienze riconosce la validità dell'altra: la validità dell'Altro. Ormai sul piano dell'uguaglianza, l'individuo ammette la dignità umana degli altri non come puri strumenti – di morte o di creatività –, ma come scopi in se stessi, i cui diritti devono essere riconosciuti in un contesto di collaborazione sociale.
    Fin qui la mia liberissima parafrasi – che Hegel mi perdoni! – della dialettica mitologica fra il signore e il servo, che ha ispirato anche talenti migliori del mio, come quelli di Karl Marx e Alexandre Kojève. A questa favola speculativa è possibile trovare molte spiegazioni di natura storica e antropologica. Ciò che di essa mi pare più significativo è che, a parte l'assurdità di prenderla alla lettera, rappresenta lo sforzo di raccontare, in modo intelligibile, una prospettiva del passaggio fra natura e cultura, fra la coscienza della morte e la volontà di assicurare la vita: dal gregge sottomesso al dispotismo del più forte alla società egalitaria che suddivide i ruoli sociali. Una volta giunti alla società umana – sottomessa ai valori etici e alle considerazioni politiche – la domanda successiva è questa: come si organizza la convivenza? Domanda che continua a essere valida anche se ormai la brutale opposizione fra padroni e schiavi è stata superata: infatti, i vari «soci» della comunità mantengono ancora appetiti e interessi propri, l'instancabile necessità di essere riconosciuti dagli altri, le discordie su come debbano essere distribuiti i beni che ammettono la condivisione e su chi deve possedere quelli che, invece, vogliono un solo padrone. In una parola, la questione riguarda il modo in cui la discordia umana viene trasformata in concordia sociale.
    Perché esiste la discordia? Naturalmente, non certo perché gli esseri umani sono irrazionali e violenti per natura, come talvolta affermano i predicatori della banalità. Piuttosto, tutto il contrario: gran parte dei nostri antagonismi derivano dal fatto che siamo esseri decisamente «razionali», vale a dire, assolutamente in grado di calcolare i nostri benefici e decisi a non accettare nessun patto da cui non usciamo nettamente in vantaggio. Siamo abbastanza «razionali» per approfittare e diffidare del prossimo (immaginando comprensibilmente che, alla prima occasione, si comporterà con noi come noi cerchiamo di comportarci con lui). Utilizziamo la ragione anche quel tanto che basta a renderci conto che nulla è più vantaggioso del vivere in una comunità di gente onesta e solidale con l'altrui disgrazia; eppure, di fronte alla sventura del prossimo, ci domandiamo: « E se gli altri non se ne fossero ancora accorti?» e siamo pronti a rispondere: «Che incomincino loro e io mi impegno a fare altrettanto». Insomma, è tutto molto razionale, ma spero che, a questo punto del libro, non sia necessario dover ricordare al lettore la differenza, più volte ripetuta, fra «razionale» e «ragionevole». Se ce ne fosse bisogno, comunque, lo invito a guardare la realtà che lo circonda (in cui poche centinaia di privilegiati possiedono la stragrande maggioranza delle ricchezze, mentre milioni di creature muoiono di fame): potrà concludere che viviamo in un mondo terribilmente razionale, ma assai poco ragionevole...
    E non è vero nemmeno che siamo spontaneamente «violenti» e «antisociali». Nient'affatto. E naturale che persone del genere vivano in tutte le società, individui che soffrono di qualche disturbo psichico o che sono stati maltrattati dagli altri a tal punto che poi li ripagano con la stessa moneta. Non possiamo legittimamente aspettarci che coloro che la comunità tratta come se fossero animali, utilizzandoli come bestie da soma e disinteressandosi del loro destino, si comportino, poi, come perfetti cittadini. Tuttavia, i casi non sono così tanti come ci si potrebbe aspettare (è sorprendente quanto si impegnino a essere sociali anche coloro che dalla società traggono il minimo vantaggio) e più spesso le regole della convivenza umana vengono infrante per motivi che potremmo definire opposti. Infatti, non sono gli individui particolarmente violenti i protagonisti degli scontri collettivi, ma gruppi di persone disciplinate e obbedienti nei quali si è instillata la convinzione che il loro interesse comune dipenda dalla lotta contro certi avversari «estranei» e dalla loro distruzione. Non sono violenti per motivi «antisociali», ma per eccesso di socievolezza: sono così ansiosi di essere «normali», di assomigliare il più possibile al loro gruppo, di conservare la propria «identità» con esso, a tutti i costi, che sono disposti a sterminare i diversi, i forestieri, coloro che hanno convinzioni e abitudini diverse, coloro che sono considerati una minaccia per gli interessi, leciti o illeciti che siano, del proprio gregge. No, non sono i lupi feroci, né i loro rappresentanti, il pericolo maggiore per la concordia umana: in generale, il vero rischio è costituito dalle pecore rabbiose...
    Sin dall'antichità più remota si è cercato di organizzare la società umana in modo tale da garantire il massimo della concordia. Naturalmente, per ottenerla, non possiamo confidare unicamente nell'istinto sociale della nostra specie, perché, pur facendoci sentire il bisogno della compagnia dei nostri simili, esso ci mette anche contro di loro. Le stesse ragioni che ci avvicinano agli altri, possono fare di essi i nostri nemici. Com'è possibile? Siamo esseri sociali perché assomigliamo moltissimo gli uni agli altri (naturalmente, molto più di quanto farebbe supporre la differenza delle nostre culture e dei nostri modi di vivere) e più o meno tutti vogliamo, di solito, le stesse cose essenziali: riconoscimento, compagnia, protezione, abbondanza, divertimento, sicurezza... Ma ci assomigliamo a tal punto che spesso desideriamo le stesse cose (materiali e simboliche) e ce le litighiamo. Spesso ci capita anche di desiderare certi beni solo perché li desiderano gli altri: fino a che punto riusciamo a essere gregari e conformisti!
    Dunque, ciò che ci unisce, ci mette anche gli uni contro gli altri: i nostri interessi. La parola «interesse» viene dal latino inter esse, ciò che sta in mezzo, fra due persone o due gruppi: ma ciò che sta fra due persone, o due gruppi, serve a volte a unirli e, altre, a separarli e a renderli ostili fra loro. Talvolta avvicina chi è lontano (solo insieme a te posso raggiungere ciò che cerco), talvolta oppone chi è diverso (vuoi quel che voglio io e se ce la fai tu, non ce la farò io). Dunque, proprio l'indubbia «socievolezza» degli interessi umani fa sì che abbiamo bisogno di vivere in società, ma che, troppo spesso, la concordia sociale ci risulti impossibile.
    Come fare per organizzare ciò che Kant chiamò, con precisione e una punta d'ironia, la nostra «insocievole socievolezza»? I filosofi hanno elucubrato molto su questo punto, come su altre questioni di portata e profondità simili. Però con una differenza notevole, messa intelligentemente in luce da Hannah Arendt. Mentre la filosofia della conoscenza non vuole mettere fine alla conoscenza, né la filosofia cosmologica pretende di abolire l'universo, la filosofia politica sembra supporre che l'unico vero successo consista nella soppressione della politica. Da Platone in poi, in altre parole, i filosofi hanno sempre trattato la politica come un indesiderabile conflitto che bisogna emendare, e non come un'espressione di libertà creativa che deve essere protetta e incanalata. Infatti, la politica è collisione di interessi, ricerca di un'armonia sempre precaria che ha come scopo quello di trovare soluzioni parziali ai vecchi problemi, i quali poi, inevitabilmente, ne creano di nuovi, non meno sconcertanti né meno difficili da risolvere. Quando parla di politica, la maggior parte dei filosofi desidera mettere un punto finale a tanto imbroglio. Sogna una formula definitiva che abolisca, una volta per tutte, le rivalità, le discordie e le aporie della vita in comune, in una parola, una soluzione che ci permetta di vivere senza politica. E, pertanto, anche senza storia; solo a un filosofo può capitare di parlare con certo sollievo della «fine della storia», come è successo, non molto tempo fa, a Fukuyama. La maggior parte dei filosofi, che lo denunciarono con veemenza, si scagliava soltanto contro la sua convinzione che quel gioioso momento fosse già arrivato, semplicemente perché ciascuno di essi pensava che non fosse ancora giunto il tempo in cui la sua personale idea della fine della storia dovesse realizzarsi. Ma tutti condividevano con Fukuyama il desiderio che la storia finisse, una buona volta, insieme alla politica, questo faticoso e confuso dolore.
    È questa la ragione per cui tanti filosofi illustri, a partire dai primi greci, sono stati critici e perfino nemici dichiarati delle idee democratiche. Questa avversione è, senza dubbio, un autentico paradosso, perché la filosofia nasce con la democrazia e, in un certo senso, è davvero inseparabile da essa: la democrazia esiste quando gli esseri umani accettano il fatto che le loro leggi e i loro progetti politici non derivano né dagli dèi né dalla tradizione, bensì dall'autonomia di ciascun cittadino, armonizzata, polemicamente e provvisoriamente, con quella degli altri individui, dotati di uguali diritti di opinione e di scelta. E la democrazia esiste quando gli uomini accettano di dover pensare con la propria testa, senza dogmi prestabiliti, sopportando la critica e il dibattito in seno al consesso razionale dei loro simili. In fondo, il progetto della democrazia sul piano socio-politico è lo stesso che ha la filosofia sul piano intellettuale. La democrazia implica il fatto che la politica esisterà sempre (nel senso discordante e conflittuale che abbiamo visto) per la stessa ragione per cui la filosofia implica che esisterà sempre il pensiero, cioè il dubbio e la discussione sulle cose più essenziali. I filosofi addivengono a questa conclusione abbastanza malvolentieri (a quale filosofo non sarebbe piaciuto poter risolvere definitivamente i grandi problemi dell'umanità?), ma per quanto riguarda i fondamenti della politica, tutti concordano sulla necessità di chiarirli una volta per tutte. La fine del pensiero autonomo rappresenta una disgrazia anche per il pensatore più arrogante; ma l'abolizione definitiva della discordante autonomia sociale degli individui sarebbe auspicata come un trionfo da molti grandi teorici della società...
    Immagino che da ciò derivi la passione che tanti filosofi hanno nutrito per le utopie. Attualmente, si utilizza la parola «utopia» e, soprattutto, l'aggettivo «utopistico» in un senso molto vago e generico, che per alcuni significa «assurdo» e «irrealizzabile», mentre per altri equivale all'impeto razionale che porta a trasformare radicalmente il mondo mettendo fine alle ingiustizie; tuttavia, mi sembra opportuna una precisazione. Il termine deriva, come si sa, da un racconto fantastico intitolato proprio così, Utopia, scritto nel 1516 da Tommaso Moro, un personaggio di sicuro spicco che riunì doti poco conciliabili quali essere pensatore, statista, martire della fede e santo della Chiesa cattolica. In un film biografico, a suo tempo assai notevole, eccelsamente interpretato da Paul Scofield, Moro veniva chiamato «un uomo per tutte le occasioni», una definizione assolutamente meritata. Il suo racconto Utopia ha qualcosa della satira e molto dell'esperimento mentale: «Come sarebbero le cose se...». Già nel titolo, l'ironia di Moro gioca con un'ambiguità calcolata perché, secondo l'etimologia greca, «u-topia» significa «luogo che non si trova in nessun luogo» (cioè, non luogo), ma suona anche simile a «eu-topia», luogo buono, il luogo del Bene.
    Nel libro sono già presenti molte delle utopie che sarebbero venute dopo: un àmbito politico chiuso e senza vie d'uscita («Utopia» è un'isola), autoritarismo caratterizzato da una presunta benevolenza e fondato sulla rigida applicazione di criteri razionali, regolamentazione dettagliata della vita quotidiana di tutti gli individui (compresi i momenti di ozio, i rapporti familiari e la sessualità), abolizione della proprietà privata, totale asservimento dell'individuo al bene della comunità (le persone possono essere spostate da un posto all'altro secondo le necessità collettive), uguaglianza economica, abolizione della concorrenza, immobilità storica (le leggi furono dettate dall'avo mitico Utopus novecento anni prima!), eccetera. Nel progetto originale, Moro includeva anche alcuni elementi in urto con la sua ortodossia ecclesiastica, come la tolleranza religiosa (forse un ammiccamento all'amico Erasmo?) e l'eutanasia volontaria, anche se ammetteva che seguire la verità rivelata dalla fede fosse un'«utopia» migliore. Indubbiamente, sarebbe inopportuno leggere questo racconto come se fosse un programma politico o, meglio, «antipolitico», ignorando la sua componente ludica, di gioco teorico. L'autore stesso vietò, alla fine della vita, che la sua opera fosse tradotta dal latino all'inglese, perché temeva che potesse servire a corrompere gli ignoranti. Un timore assai fondato, visti e considerati alcuni effetti che le utopie avrebbero avuto in seguito.
    Una volta stabilito il mondo «utopistico» come genere letterario, possiamo estendere il concetto retrospettivamente – fino alla Repubblica di Platone – e osservarlo seguire il suo corso in opere come la Nuova Atlantide di Francis Bacon, la Città del sole di Campanella, le opere di Charles Fourier e di Robert Owen fino alla fiction di H.G. Wells nel nostro secolo, senza dimenticare alcune perversioni del modello quali le Cento giornate di Sodoma del marchese de Sade. In generale, gli aspetti positivi delle utopie sono la proposta di un'alternativa globale alle società esistenti nella realtà (che modifica il modo di vedere abitudinario, secondo il quale è «inevitabile» tutto ciò che di fatto è in vigore) e, nella maggior parte dei casi, la proposta di un'armonia sociale basata sulla rinuncia all'avidità e agli abusi dell'interesse economico privato. Tuttavia, sono molti anche gli aspetti gravemente negativi: autoritarismo claustrofobico, trasformazione degli aperti ideali umani (libertà, giustizia, uguaglianza, sicurezza...) in regolamenti asfissianti, la supposizione che basti il calcolo razionale – sempre esercitato da pochi illuminati –per determinare quale sia il miglior modo di vivere per «tutti» i cittadini, la scomparsa della spontaneità e dell'innovazione (di solito, le «utopie» si propongono per il futuro, ma nessuna di esse ammette che il suo prolungamento possa essere proprio l'ignoto futuro), il rispetto dell'ordine fin negli angoli più remoti dell'intimità, eccetera.
    L'effettiva realizzazione di progetti che, a loro tempo, poterono apparire giustificatamente «utopistici» (pensiamo agli Stati Uniti, all'Unione Sovietica, allo Stato d'Israele e perfino al Terzo Reich di Hitler) ci ha reso più diffidenti, rispetto ai suoi pionieri, nei confronti della bontà dell'utopia intesa come orientamento dell'organizzazione politica. Anche nei casi migliori, i vantaggi sociali sono sempre stati bilanciati da gravi contrappesi che la pura impostazione razionale non aveva saputo prevedere. Di qui che la fantascienza contemporanea abbonda di «distopie», vale a dire «utopie» francamente detestabili, proposte come modelli da non seguire, come quella del Mondo nuovo di Aldous Huxley e di Noi di Zamjatin. Malgrado le buone intenzioni filosofiche che ispirarono la maggioranza delle utopie, quando il sogno di alcuni, che vogliono una concordia prefabbricata e senza ombre, si realizza storicamente, per tutti gli altri tale sogno si trasforma in incubo.
    Alcuni utopisti e quasi tutti i politici totalitari del nostro secolo, come materia prima per i loro progetti, hanno rivendicato l' «uomo nuovo». Tuttavia, l'uomo, per fortuna, non può essere «nuovo» senza cessare di essere tipicamente umano, poiché la sua sostanza simbolica è composta da una tradizione di saperi acquisiti, da esperienze storiche, da conquiste sociali, da ricordi e da leggende. Le persone non saranno mai lavagne su cui si possa cancellare – e che metodi terribili sono stati usati, negli ultimi decenni, per cancellare dalle menti umane quanto vale la pena ricordare e difendere! – e dove, poi, il legislatore, sebbene mosso dalle migliori intenzioni, scrive arbitrariamente la prima legge sociale. Né gli uomini possono essere emendati dal razionale attaccamento ai loro interessi per essere sottomessi a un interesse globale, o a un bene comune, determinato da qualche saggezza situata al di sopra delle loro teste. No, è necessario forgiare la politica della concordia partendo dagli esseri umani esistenti, prendendo in considerazione le loro ragioni e le loro passioni, le loro discordie, la loro tendenza all'egoismo predatorio, ma anche il loro bisogno di essere riconosciuti dalla simpatia sociale degli altri. A quanto sappiamo, tale concordia è fragile e dovrà sempre sottostare a mille minacce: sarà essa stessa a secernere i veleni che la corroderanno, talvolta partendo dai successi migliori. Come orientare, allora, la riflessione su tanti paradossi, sul dramma collettivo della nostra vita in comune?
    Sono due gli approcci principali, ognuno con diverse sfumature. Secondo il primo, l'organizzazione politica della comunità umana si fonda su un contratto sociale fra gli individui (non è necessario credere che abbia avuto luogo come evento storico, basta accettare il punto di partenza teorico «come se» fosse accaduto), i quali progettano in comune le loro leggi, le gerarchie, la distribuzione del potere e il modo migliore di occuparsi delle necessità pubbliche. Oltre a preoccuparsi dei propri interessi privati, i membri della comunità capiscono che è ugualmente indispensabile organizzare determinati aspetti collettivi che vanno a beneficio di tutti e sostengono la vivibilità stessa del gruppo in quanto tale. Gli interessi del singolo possono contrastare con quelli degli altri, ma non con l'ambito comunitario che li investe del loro senso: sono «privati», ma non «antisociali», perché se così fosse cesserebbero di funzionare come propriamente «umani». Pertanto, è possibile decidere in comune quel che riguarda tutti e rivisitare periodicamente le norme così stabilite: inoltre, anche i governanti dovranno intervenire periodicamente per correggere le disfunzioni derivanti dalla lotta degli interessi privati e proteggere coloro che si vedano impossibilitati, qualunque sia il motivo, a occuparsi dei propri bisogni fondamentali.
    Il secondo approccio, invece, non ha fiducia nella capacità di deliberazione dei membri quando si tratta di scegliere il meglio per la comunità. Il potere politico deve limitarsi a stabilire soltanto il contesto, il più flessibile e meno interventista possibile, in cui abbiano libero gioco le libertà dei membri che ricercano la soddisfazione dei propri interessi. Ciascun individuo è assolutamente in grado di cercare il meglio per sé, ma non è in grado di pianificare ciò che deve andar bene per tutti. In realtà, il miglior beneficio pubblico deriverà proprio dall'interazione fra coloro che cercano senza scrupoli il proprio guadagno privato, per via della già menzionata condizione «sociale» dei nostri interessi apparentemente più privati. Alla ricerca del proprio guadagno, ciascun individuo non potrà far altro che collaborare, pur senza volerlo, alla ricerca di quello degli altri, perché si ottiene sempre di più beneficiando il prossimo che non danneggiandolo. Una specie di «mano invisibile» armonizzerà ciò che è apparentemente discordante, rafforzerà i piani più consoni al bene della vita comunitaria e condannerà al fallimento le soluzioni arbitrarie ed erronee. Il potere politico dovrà astenersi il più possibile dall'intervenire in un simile gioco fra astuzie private, per non viziare il risultato finale e per non danneggiare l'insieme cercando un eccesso «artificiale» di perfezione.
    In sintesi, per dirlo con le parole di Roger Scruton, «il difensore della decisione collettiva cerca una società esplicitamente acconsentita dai suoi membri: cioè, dove essi stessi scelgano le istituzioni e le condizioni materiali. Il difensore della mano invisibile cerca una società che risulti dal consenso, anche se non è mai stata acconsentita esplicitamente nel suo insieme, poiché le scelte dei suoi membri individuali riguardano questioni che non hanno niente a che fare con il risultato globale»'. In linea generale, il primo dei due approcci politici è considerato «di sinistra» e il secondo «di destra». Tuttavia, credo che non sia possibile comprendere il funzionamento effettivo di quasi tutte le società che oggi conosciamo senza applicare, in un modo o nell'altro, entrambi i criteri.
    Il grande problema è che, a differenza di quanto succede nelle utopie, nelle società esistenti non tutti gli ideali sono pienamente compatibili. Per esempio, le libertà pubbliche sono sommamente auspicabili, ma talvolta entrano in conflitto con la sicurezza dei cittadini, anch'essa un principio degno di considerazione. In molti casi si verificano conflitti simili e anche peggiori: è importante difendere i diritti umani delle donne nelle società che non li rispettano – come quella imposta dai talibani in Afghanistan –, ma è parimenti meritevole di rispetto il diritto di ogni comunità umana a interpretare i propri valori senza ingerenze violente di altre nazioni; la libertà di commercio e di impresa è un principio assai rispettabile, ma fra le sue conseguenze meno desiderabili sembra esserci la miseria sempre più spaventosa di gran parte dell'umanità. All'inizio del nostro secolo, Max Weber parlò delle «battaglie fra gli dèi» per indicare lo scontro fra le realtà storiche di ideali contrapposti: sono come liquori troppo forti e puri che non possono essere bevuti senza essere miscelati. Forse l'arte politica per eccellenza è indovinare le dosi del cocktail che li riunisca tutti senza per questo smettere di essere socialmente «digeribile»...
    A partire da Platone, la virtù che meglio esprime quella concordia sociale basata su elementi discordanti di cui stiamo parlando si chiama giustizia. Siamo troppo abituati, secondo me, a vederla in modo puramente distributivo (dare a ciascuno il suo, a ciascuno secondo i suoi meriti e i suoi bisogni) e retributivo (punire i cattivi e premiare i buoni). Tuttavia, ci sono definizioni più ampie e, a mio parere, preferibili. Quella che mi piace di più appartiene a un pensatore anarchico del XIX secolo, Pierre-Joseph Proudhon; dice più o meno che la giustizia è il rispetto, spontaneamente sperimentato e reciprocamente garantito, della dignità, umana, in ogni persona e in ogni circostanza in cui questa si veda impegnata, e a qualunque rischio possa esporci la. sua difesa (Della giustizia nella rivoluzione e nella Chiesa). Il concetto di dignità umana nella sua forma più contemporanea (anche se nel terzo capitolo lo abbiamo già visto impiegato dall'umanista rinascimentale Pico della Mirandola) incomincia a generalizzarsi a partire dal XVIII secolo, quando il sistema dei privilegi dell'aristocrazia, riservato a pochi, viene messo in crisi dalla rivoluzione che dà spazio all'esigenza di riconoscimento individuale dell'umanità e della cittadinanza. È allora che i «diritti umani» fanno la loro comparsa come concetto politico presente in tutte le istituzioni democratiche e la loro teoria, sebbene non sempre la pratica, si è andata rafforzando negli ultimi duecento anni. Essi implicano un autentico sovvertimento delle società tradizionali, sia in origine (in America comparvero dopo una guerra d'indipendenza e in Europa si imposero dopo una rivoluzione che costò la testa ai sovrani) sia ora, quando si tenta di difenderli veramente. I diritti umani, o diritti fondamentali, sono un po' come una dichiarazione più dettagliata di ciò che comporta la «dignità» che, giustamente, gli uomini debbono riconoscersi a vicenda.
    Che cosa comporta la dignità umana? In primo luogo, l'inviolabilità di ogni persona, il riconoscimento del fatto che non può essere utilizzata o sacrificata dagli altri come un semplice strumento per realizzare gli scopi della comunità. Per questo non ci sono diritti «umani» collettivi, per lo stesso motivo per cui non ci sono esseri «umani» collettivi: la persona umana non può sussistere al di fuori della società, ma non si esaurisce nel servizio prestato a quest'ultima. Di qui la seconda caratteristica della sua dignità, il riconoscimento dell'autonomia di ogni individuo per poter concepire progetti esistenziali e metri personali di eccellenza, senz'altro limite che l'uguale diritto degli altri alla stessa autonomia. In terzo luogo, il riconoscimento del fatto che ciascun individuo deve essere trattato socialmente secondo il suo comportamento, il merito o il demerito personali, e non secondo quei fattori casuali che non costituiscono parte essenziale della sua umanità: la razza, l'etnia, il sesso, la classe sociale, eccetera. In quarta e ultima istanza, il bisogno di solidarietà con la disgrazia e la sofferenza degli altri, il mantenimento attivo di un rapporto di simpatia e di aiuto con il prossimo. La società dei diritti umani dev'essere l'istituzione in cui nessuno viene abbandonato.
    I fattori della dignità umana individuale, oggigiorno, s'imbattono in presunte congetture «scientifiche» che tendono a «cosificare» le persone, negandone la libertà e la responsabilità, nonché riducendole a meri «effetti» delle più generiche circostanze. Il razzismo è l'esempio più evidente di tale negazione della dignità umana, ma attualmente sta incominciando a essere sostituito da un altro tipo di determinismo etnico e culturale, secondo il quale ogni individuo è costituito unicamente in base all'inevitabile configurazione che riceve dalla sua comunità. Si suppone, così, che le culture siano realtà chiuse in se stesse, impenetrabili le une alle altre, nonché imparagonabili, ciascuna delle quali è portatrice di un modo di pensare e di esistere completo in se stesso che non deve essere «contaminato» dalle altre, né alterato dalle decisioni individuali dei suoi membri. Questi terribili dispositivi «programmano» i loro nati per schierarli irrimediabilmente contro quelli di altre culture (lo «scontro delle civiltà» di cui parla Samuel Huntington) o almeno per chiuderli allo scambio spirituale con essi. Volesse il cielo che fra cinquanta o cento anni l'oggi tanto invocata «identità culturale» dei popoli, che secondo alcuni deve essere preservata politicamente a qualunque costo, potesse essere considerata con la stessa ostile diffidenza con cui la maggior parte di noi accoglie i riferimenti al gruppo sanguigno e al colore della pelle! Perché non c'è dubbio che, in fondo, racchiuda la volontà non meno «ingiusta» di attentare contro il presupposto essenziale della dignità umana di ciascuno: quello per cui noi uomini non siamo nati per vivere schierati in eserciti opposti, ciascuno sotto il proprio vessillo, ma per mescolarci gli uni con gli altri senza cessare di riconoscerci, a prescindere dalle differenze culturali, un'essenziale somiglianza, e, in base a questa commistione, per inventarci continuamente (si veda, in proposito, ciò che abbiamo detto nell'ultima parte del quarto capitolo).
    La tipica ossessione dei nazionalismi, una delle malattie più gravi del XX secolo, esalta la necessaria «appartenenza» di ogni essere umano alla sua zolla di terra, facendo di questo una fatalità orgogliosa di se stessa. In fondo, non è altro che la detestabile mentalità possessiva che non solo pretende di apporre il marchio del padrone sulle case e gli oggetti, ma persino sui territori e i paesaggi. La stupida affermazione «qui siamo così» e la mitizzazione delle proprie «radici», come se gli esseri umani fossero dei vegetali, blocca la vera necessità umana dell'ospitalità che dobbiamo gli uni agli altri, nel rispetto di ciò che abbiamo chiamato «dignità». Per chi è capace di riflettere, tutti siamo stranieri, ebrei erranti, tutti veniamo da chissà dove e andiamo in una direzione sconosciuta (verso gli sconosciuti?), tutti dobbiamo ospitalità ai nostri simili nel breve transito in questo mondo comune a tutti e nostra unica, vera «patria». Lo ha detto assai bene uno scrittore ebreo contemporaneo, George Steiner: «Gli alberi hanno radici; ma gli uomini e le donne hanno gambe. E con queste attraversano le frontiere, le barriere della stoltezza delimitate dal filo spinato; con queste visitano e in queste abitano il resto dell'umanità in qualità di invitati. C'è sempre un personaggio fondamentale nelle leggende, numerose nella Bibbia, ma anche nella mitologia greca e in altre ancora: lo straniero sulla porta, il visitatore che chiama, la sera, alla fine del viaggio. Nelle favole, questa chiamata è spesso quella di un dio nascosto o di un emissario divino, che mette alla prova la nostra ospitalità. Mi piacerebbe pensare a quei visitatori come agli autentici esseri umani che dobbiamo diventare, se veramente desideriamo sopravvivere».
    Nella sua opera Il disagio della civiltà, Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi e uno degli spiriti più grandi della nostra epoca, dice che il dolore umano ha tre origini: «La supremazia della Natura, la caducità del nostro corpo e l'insufficienza dei nostri metodi per regolare i rapporti umani in seno alla famiglia, allo Stato e alla società». Tuttavia, nessuna di queste tre disgrazie può essere propriamente considerata il peggio di quel che ci stringe d'assedio: per l'essere che ha bisogno dello sguardo onnicomprensivo e garante dell'altro per diventare se stesso, «il male è, in origine, ciò che minaccia l'individuo con la perdita dell'amore». Nulla ci lascia più inermi, più invalidi, più in balia della minaccia della perdita dell'amore, intendendo l'amore sia nel suo senso più letterale (paterno-filiale ed erotico) sia in quello più generico che i greci chiamavano philia: l'amicizia fra coloro che si scelgono mutuamente come complementari («perché lui era lui, perché io ero io» sono le belle parole con cui Montaigne giustifica la sua philia per Étienne de la Boétie) e la simpatia civile – cortese e vagamente impersonale, ma solidale in un modo nient'affatto trascurabile – che i concittadini devono dimostrare quotidianamente gli uni nei confronti degli altri affinché la vita in società sia gratificante. Senza amore né philia, l'umanità si atrofizza e noi restiamo in balia dell'inospitale legge della giungla. A ragione Goethe disse che «sapersi amato dà più forza che sapersi forte».
    Come si fa a meritare l'amore degli altri? La maggior parte delle strutture etiche di tutte le culture si dedica a darci istruzioni in tal senso. Isaac Asimov, uno scrittore di fantascienza che, a parer mio, è anche un buon filosofo, inventò le «tre leggi della robotica» iscritte nella programmazione delle creature meccaniche protagoniste di Io, robot e altri suoi racconti. Sono queste:
    I) Non farai del male a nessun essere umano.
    II) Aiuterai, per quanto potrai, gli esseri umani (purché ciò non comporti la violazione della prima legge).
    III) Proteggerai la tua esistenza (purché ciò non significhi violare le due leggi precedenti).
    Poiché noi non siamo robot, la maggior parte delle morali antiche e moderne invertono l'ordine di questi tre precetti, ma per il resto le loro norme sono ben enucleate dalla triade di Asimov. Naturalmente, ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre consiglieri provocatoriamente disillusi che ci raccomandano di approfittare il più possibile di coloro che rispettano la moralità per ottenere dei vantaggi. Grazie a questo tipo di individui «illuminati», viviamo circondati da polizia, prigioni, miseria e abbandono. Ma tali cinici consiglieri sono davvero furbi come credono? Vale veramente la pena di ottenere quei vantaggi casuali che ricaviamo seguendo i loro consigli, rispetto a ciò che, con tali comportamenti, tutti ci troviamo a perdere? È prudente, per me e per te, mio lettore, rinunciare a ottenere l'amore dei nostri simili finché l'ultimo dei fuorviati, o dei malvagi, si sia convinto che ciò di cui abbiamo veramente bisogno è questa philia e non un'altra cosa?
    Le manifestazioni più tipicamente umane possono essere comprese solo in un contesto sociale: si tratta di cose che facciamo pensando agli altri e chiamando gli altri attraverso di esse quando questi non siano presenti. Ridere, per esempio. L'umorismo è un ammiccamento che ricerca veri e propri «compagni di vita» che possano condividere con noi la comparsa, a volte piacevole e a volte devastante, del nonsenso nell'ordine consueto dei significati stabiliti. Nulla è così sociale, né unisce tanto, come il senso dell'umorismo: per questo quando, durante una riunione di amici, si sente ridere con gusto o si assiste allo scambio frequente di sorrisi, diciamo che i presenti si «stanno divertendo». Cioè, si trovano a loro agio riconoscendosi gli uni con gli altri. Perfino colui che ride da solo, in verità ride in attesa delle anime gemelle che possano unirsi a lui, attraverso il riso. Molte amicizie – e non pochi amori! – cominciano quando le due persone colgono il senso di una barzelletta che sfugge a tutti gli altri...
    Neppure la creazione artistica e i piaceri che ne derivano possono essere veramente capiti senza la condivisione. Quando scopriamo qualcosa di bello, la prima cosa che facciamo è cercare qualcuno che possa goderne insieme a noi: insieme a lui o a lei, anche noi ne godiamo di più. I bambini piccoli passano la vita tirando i grandi per la manica per mostrar loro piccole meraviglie che gli adulti, talvolta, sono troppo stupidi per apprezzare nel loro valore. Ma che cos'è la bellezza? Perché, per noi, è così importante scoprirla, crearla e condividerla? Perché per far sì che la nostra vita continui a essere desiderabile, certe volte dobbiamo arrangiarci per far apparire bello perfino ciò che è brutto?

    Spunti di riflessione...

    Possiamo diventare «umani» da soli, senza bisogno di nessun altro? Incominciamo a diventare umani con la parola o prima ancora, con lo sguardo dei nostri simili? È davvero inevitabile che la convivenza con gli altri debba essere «dolorosa»? È giustificato protestare contro i risultati effettivi di questa società di cui, d'altro canto, abbiamo tanto bisogno? Essere ignorati dagli altri non sarebbe un inferno peggiore del vivere fra loro? Viviamo nell'«incomunicabilità» o invece non dobbiamo mai aspettarci di «comunicare» del tutto? Noi umani ci schieriamo gli uni contro gli altri, in seno alla società, perché non siamo abbastanza razionali o perché non siamo ragionevoli? È possibile raggiungere qualche forma di concordia partendo dalla discordia che nasce dalla contrapposizione delle ragioni umane? Come spiega Hegel il passaggio dall'animalità «naturale» all'«umanità» storica e culturale? I filosofi che hanno riflettuto sulla politica vogliono comprenderla meglio o abolirla una volta per tutte? Può esserci una «politica» senza conflitti né schieramenti? Può esistere democrazia senza politica? In che cosa l'essenza della filosofia assomiglia a quella della democrazia? Che cosa sono le «utopie»? «Utopia» è la stessa cosa di «ideale»? Ci sono «utopie» degne di essere aborrite o, perlomeno, di essere considerate pericolose? Nella storia, si è mai realizzata qualche utopia? Noi uomini stabiliamo un «contratto sociale» o siamo, invece, il risultato di scelte private che determinano il bene comune? Gli ideali politici sono tutti ugualmente e completamente compatibili con la società effettiva? Che cos'è la giustizia? Qual è la sua relazione con la «dignità umana»? Possono esserci «diritti umani» collettivi? Gli uomini sono inesorabilmente condizionati dalla razza e dalla cultura? Quali sono i principi generali delle morali umane? È il riso un argomento a favore della vita in comune degli uomini?

    (da: Le domande della vita, Laterza 2001, pp. 163-186)


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