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    Søren Kierkegaard

    Jeanne Hersch


    Karl Jaspers accostò spesso Kierkegaard e Nietzsche, che egli definiva "le eccezioni" in quanto trovava che nonostante i contrasti le somiglianze fossero molto significative. Kierkegaard e Nietzsche hanno infatti esercitato una notevole influenza sulla nostra situazione spirituale e, in un certo modo, hanno anche contribuito a crearla.
    Chiunque oggi desideri seriamente "fare filosofia" e dare una risposta alle sfide del nostro tempo deve necessariamente, secondo Jaspers, rivivere dentro di sé la nostra situazione spirituale che è stata segnata in modo decisivo da Kierkegaard e Nietzsche.
    Per Kierkegaard come per Nietzsche, è importante, più che per i pensatori precedenti, conoscere la loro vita. Anche questo è un tratto della modernità: la riflessione filosofica non può più essere separata dalla biografia. Nietzsche e Kierkegaard vissero la loro filosofia, e la loro filosofia nacque dalla vita, non però in senso naturalistico, come se fosse possibile derivare il loro pensiero dai dati sociali, politici e familiari della loro esistenza. Entrambi davano grande importanza all'autenticità e alla credibilità di quello che esprimevano. Entrambi avevano orrore della retorica fine a se stessa: quando il loro tono diventa patetico, quasi sempre questo avviene contro la loro volontà. Entrambi rivolsero spesso l'ironia contro se stessi, tenendo i pensieri separati dalla vita vissuta, come se rischiassero di essere compromessi dalle insufficienze della loro personale esistenza. Bisogna quindi avere una certa conoscenza della loro vita per poterli capire.

    Søren Kierkegaard era danese. Nacque a Copenaghen nel 1813, due anni prima della caduta di Napoleone, e morì nel 1855, quando aveva solo quarantadue anni. La scena su cui si sviluppò il suo pensiero fu sempre dominata dalla figura di suo padre. Si tratta proprio di una scena: nella filosofia di Kierkegaard, ci sono numerosi personaggi che intervengono nei dibattiti, discutono tra loro, si contraddicono, e dietro i quali si nasconde lo stesso Kierkegaard. Suo padre era un uomo severo, profondamente malinconico e molto autoritario. Avendo avuto successo negli affari, si era ritirato da ogni attività per sottomettere interamente la propria vita alle più scrupolose regole religiose puritane: viveva immerso nel silenzio, dedicandosi allo studio. In seconde nozze sposò la sua domestica, da cui ebbe sette figli, solo due dei quali sopravvissero.
    Alla nascita di Søren, il padre aveva cinquantasei anni, il che permise a Kierkegaard di considerarsi il figlio di un vecchio: l'ombra che pesava su di lui sin dall'inizio giustificava il fatto che fosse nato per così dire spiritualmente vecchio. Fin dall'infanzia, Kierkegaard dimostrò una certa propensione alla mistificazione: si travestiva, si mascherava, si nascondeva. Era portato a quella che più tardi fu chiamata l'espressione indiretta, che significa che non esprimeva in modo immediato quello che aveva da dire, ma attraverso un giro di parole, per mezzo di un personaggio inventato. Ebbe lunghe discussioni con suo padre e i suoi amici. Un giorno suo padre gli disse: «Povero figlio mio, tu stai andando verso una muta disperazione». In questa frase si sente tutto il peso dell'atmosfera opprimente in cui viveva. Scrisse egli stesso più tardi: «Se un figlio è uno specchio in cui il padre vede se stesso, anche il padre è uno specchio per il figlio». Questo rapporto così stretto tra padre e figlio non cessò mai di essere un peso: nella sua coscienza, il padre ebbe probabilmente il ruolo di un giudice sempre insoddisfatto. Della madre, invece, Kierkegaard non parlò mai.
    L'immagine del cristianesimo trasmessagli dal padre era molto cupa. Per Kierkegaard, il cristianesimo era una perpetua rievocazione del crimine commesso dagli uomini, che crocifissero il Giusto e il Santo: si trattava sostanzialmente del cristianesimo del peccato originale e della crocifissione, più che del Salvatore e della resurrezione.
    Nel 1830, quando aveva diciassette anni, Soren si iscrisse come studente di teologia all'Università di Copenaghen. Dato che questo era il desiderio di suo padre, si trattò di un atto di obbedienza. I dieci anni che seguirono rappresentano un periodo piuttosto frivolo della sua vita: Soren studia, ma senza grande impegno; segue i corsi che gli piacciono, in modo irregolare; vestito con eleganza, indipendente dalla sua famiglia, fa parte di un gruppo di giovani romantici tra cui c'è anche Hans Christian Andersen, il famoso scrittore. Di questo periodo restano molte tracce nella sua opera; ma, sotto il carattere frivolo, si sente già un'inquietudine e un terrore a cui tenta di sfuggire. Si interessa alle antiche leggende, ai romanzi cavallereschi, ai racconti popolari, e in generale alla letteratura romantica e alle sue ombre notturne, cariche di sensi di colpa. Già allora gli si aprono davanti tre vie, che svolgeranno un ruolo importante nella sua opera: la prima è quella del piacere, che sarà simbolizzata da Don Giovanni, l'insaziabile; la seconda è quella del dubbio, che sarà incarnata da Faust; la terza, infine, quella della disperazione.
    Così, fin dall'inizio, Kierkegaard è alle prese con il desiderio insaziabile, il dubbio e la disperazione. Poi però si innamora di una ragazza, Regina Olsen, che ricambia il suo amore. La violenza della loro passione lo fa esitare, lo precipita nel dubbio: ha diritto di amare? Questo amore, considerato dall'esterno, visto da un altro, sarebbe accettato? Kierkegaard si pone la domanda: gli viene forse dato l'ordine di partire? Nel settembre del 1840, chiede la mano di Regina, che gli viene concessa. Ora sono fidanzati. Lei ha diciott'anni, lui ventisette. Già il giorno dopo, pensa di essersi sbagliato. Kierkegaard è chiaramente uno di quegli uomini che non sopportano la gioia del possesso. Desiderare, sì; possedere, no. Sprofonda nella malinconia, il suo umore diventa instabile; sente il bisogno di espiare un antico peccato. Non sappiamo di che cosa si tratti: di un peccato personale? O del peccato originale? O ancora di una colpa misteriosa di suo padre, di cui il padre gli aveva spesso parlato?
    Nello stesso tempo, la sua vita religiosa si fa più intensa. Già due anni prima del fidanzamento con Regina, aveva attraversato una crisi mistica nel corso della quale, come raccontò in seguito, aveva provato una gioia indescrivibile. Nel corso di quello stesso anno 1840, suo padre morì, dopo essersi completamente riconciliato con lui: Kierkegaard ebbe così la sensazione di avere stipulato, con il padre morto, una specie di contratto in virtù del quale gli doveva certe cose.
    Lo stesso anno, secondo la volontà del padre, sostenne gli esami di teologia, e nel 1841 discusse con successo la sua tesi di dottorato intitolata: Sul concetto dell'ironia con costante riferimento a Socrate. [1]
    Questo titolo è importante: l'ironia svolge un ruolo fondamentale nel modo di esprimersi che da allora fu quello di Kierkegaard. Dopo un anno di sofferenze e di tormenti, egli restituì a Regina l'anello di fidanzamento. Regina ebbe allora un comportamento insolito per l'epoca: andò a casa sua e lo pregò in ginocchio di tornare con lei. La risposta di Kierkegaard fu la pubblicazione del Diario del seduttore (opera poi inserita nel volume intitolato Aut-Aut). Se Kierkegaard lo scrisse, forse in parte fu perché Regina si staccasse definitivamente da lui: il seduttore che vi è rappresentato gioca con i sentimenti di una ragazza, mostrando una straordinaria finezza estetica. Ogni gesto di passione è insieme freddamente strategico, ogni gesto di tenerezza racchiude l'aculeo della crudeltà. La rottura era ormai definitiva. Kierkegaard partì per Berlino e, già nel 1843, Regina si fidanzava con Fritz Schlegel. Per Kierkegaard, fu una ferita inguaribile.
    Aut-Aut uscì nel 1843, prima del fidanzamento di Regina, sotto pseudonimo (il ricorso a pseudonimi è del resto frequente nello scrittore Kierkegaard), e fu un grande successo. Quasi nello stesso tempo, ma usando il proprio nome, Kierkegaard pubblicò due discorsi religiosi. Emerge qui il duplice aspetto della sua personalità che continuerà a caratterizzare la sua produzione anche negli anni successivi: Kierkegaard pubblicherà contemporaneamente testi estremamente aggressivi contro il cristianesimo e la Chiesa, e discorsi di edificazione religiosa.
    Nelle sue opere principali, come per esempio le Briciole filosofiche (1844) o la Postilla conclusiva non scientifica (1846), Kierkegaard tratta di problemi filosofici e religiosi estremamente sottili e complessi; nello stesso tempo si dimostra però un polemista impietoso, capace di criticare in modo così violento la stupidità della sua epoca da costringere alla fuga il redattore capo di una rivista e alla chiusura la rivista stessa. Kierkegaard fa continuamente riferimento a fatti che nessuno conosce, a un segreto nella sua stessa vita. A questo segreto si è cercato di dare interpretazioni fisiologiche o psicologiche, o anche psicoanalitiche. L'aspetto più interessante e forse più importante di questo segreto è probabilmente la sensazione di avere una missione particolare da compiere. Non quella del capo o del riformatore, che viene seguito da un docile gregge. No: la missione di Kierkegaard, in quel tempo di cristianesimo facile, è quella di rappresentare l'indispensabile eccezione, colui che non è come il resto del gregge, ma ha il compito di scuotere la cristianità scristianizzata fino a distoglierla dal suo cristianesimo senza Cristo, di ricordare a questa cristianità che cos'è un fatto realmente religioso e l'esigenza assoluta che ne deriva. Kierkegaard visse nella convinzione di dovere incarnare questo ruolo, non solo a parole, non solo negli scritti, ma anche negli atti e, se necessario, fino al martirio.
    All'inizio del 1854, Kierkegaard si impegnò definitivamente nella lotta contro la Chiesa protestante danese ufficiale. Fino alla morte del suo vescovo, aveva mantenuto un certo riserbo. L'elogio funebre pronunciato dal successore designato, l'hegeliano Martensen, presentò il defunto come un testimone della Verità. Kierkegaard ne fu rivoltato: che cosa voleva dire? Non si può essere un testimone di Cristo basandosi su una professione di fede più o meno derivata dalle prospettive e dalle concezioni filosofiche di Hegel.
    Un anno dopo, Kierkegaard attaccava Martensen in una serie di pamphlet intitolati L'istante. Questo concetto dell'istante – ci torneremo sopra più avanti – ha un'importanza centrale nel suo pensiero. Nell'Istante, di cui uscirono nove numeri, Kierkegaard sottolinea la necessità di separare la Chiesa dallo Stato danese: per lui era inaccettabile che un prete fosse anche un funzionario, integrato in una realtà così estranea al Vangelo qual è, appunto, lo Stato. Il decimo numero dell'Istante stava per uscire, quando Kierkegaard, allo stremo delle forze, si accasciò per la strada. Fu trasportato all'ospedale, dove morì 1'11 novembre 1855, dopo essersi rifiutato di ricevere la comunione dalle mani di un prete-funzionario: le sue convinzioni erano così imperiose che continuò a tradurle in atto fino alle soglie della morte.

    Parallelamente alle lotte condotte nella vita e negli scritti, Kierkegaard fu autore di opere letterarie, estetiche, morali e filosofiche che godettero di grande fama e la cui influenza è viva oggi ancora, come Aut-Aut, la Postilla conclusiva non scientifica, La malattia mortale (1849) che tratta della disperazione, e altre. Lasciò inoltre un certo numero di discorsi edificanti, degli scritti puramente religiosi nel senso della tradizione della Chiesa e un Diario (1831-55) dove prosegue la sua lotta contro se stesso e tenta di chiarire i suoi problemi.
    Kierkegaard si considerava, e lo diceva, un pensatore "privato", sottolineando così il carattere individuale, solitario di tutta la sua opera: ogni generalizzazione qui è priva di senso. Ma nello stesso tempo egli si rivolgeva agli altri, non per diffondere qualche credo comune, ma per risvegliarli, per metterli dí fronte all'esigenza religiosa nella sua radicalità, quell'esigenza che fa appello all'essenza unica e solitaria di ogni essere umano.
    Kierkegaard è quindi un "pensatore privato", eppure viene generalmente considerato come un discepolo di Hegel. Come si spiega? Kierkegaard prese effettivamente da Hegel un concetto decisivo: la dialettica. La sua dialettica, però, come anche l'uso che ne fa, è totalmente diversa da quella del filosofo tedesco: in Hegel, la dialettica permette alla storia universale di oltrepassare e superare le antitesi, le contraddizioni, i conflitti per mezzo della storia stessa. Hegel è il pensatore della totalità che ingloba e riconcilia, l'uomo del vasto sistema all'interno del quale tutte le tappe della storia finiscono per trovare il loro giusto posto, trasformando così l'intero processo in una sorta di gigantesca cerimonia regolata dai cerchi del sistema. Niente del genere in Kierkegaard: Kierkegaard si oppone con violenza a Hegel e lo combatte con tutte le sue forze. Quello che innanzitutto rifiuta di Hegel è, appunto, il sistema, quel sistema che ai suoi occhi è solo una fuga, un modo per rifugiarsi nella totalità, nella generalità, e che dispensa così ogni uomo dall'accettarsi in modo radicale come essere individuale e assoluto. Hegel fa quindi esattamente il contrario di quello che cerca Kierkegaard. Se Hegel poté dire che tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale, significa quindi che al di là di tutti gli orrori della storia, per quanto egli non li abbia mai presi a cuor leggero, Hegel accettava la totalità in quanto realtà generale grazie a un'evidenza razionale che, spiegando tutto, relativizzava le realtà particolari. Agli occhi di Kierkegaard, questo è il colmo della slealtà. La lealtà – dice – esige che ciascuno, ma davvero ciascuno, sia assolutamente e incondizionatamente se stesso, e che venga considerato come tale. Secondo Kierkegaard, non c'è nulla, nemmeno la storia universale nella sua totalità, a cui l'individuo debba essere subordinato. Questo significa per lui il cristianesimo. Si tratta quindi, innanzitutto, di essere leali con se stessi e di riconoscere l'assoluto dell'individuale; poiché tuttavia una lealtà totale non è umanamente possibile perché esistono dei paradossi della soggettività a cui nessuno può sfuggire, c'è un solo modo di essere leali, e cioè portare delle maschere. Quelli che pretendono di esprimersi in modo spontaneo e diretto sono dei bugiardi, oppure degli ingenui che non hanno ancora superato lo stadio di una certa spontaneità immediata, in realtà ipocrita, che serve loro a proteggersi dalla disperazione. Per chi ha scoperto che cosa significa, nella condizione umana, essere un soggetto, non è più possibile nessuna lealtà diretta; non resta che trarne le conseguenze e ricorrere alla maschera, all'espressione indiretta, l'unica che non finge più, agli occhi degli altri, di essere qualcosa di diverso da quello che è, cioè la sola espressione possibile.
    Eppure Kierkegaard si riferisce all'autorità, alla Parola di Dio. Questo è certamente un paradosso. Notiamo per inciso che forse è proprio per questo paradosso che Kierkegaard ha maggiormente impressionato il grande teologo protestante Karl Barth: al centro della sua teologia, Barth metteva proprio la fedeltà alla Parola di Dio, insieme allo sforzo per comprendere questa Parola nel suo significato letterale.
    Kierkegaard vuole il regno della Parola di Dio. Per capire quale debba essere la sua autorità, bisogna impegnarsi veramente nella lettura della sua opera. Kierkegaard del resto è non solo un pensatore profondo, ma anche un grande scrittore, e spesso un poeta, per quanto un poeta di un genere del tutto particolare. Il suo stile è abitualmente scabro, severo, molto astratto, ma talvolta anche concreto, lirico con una sobrietà e un ritegno che appartengono solo a lui. Kierkegaard trattiene subito il suo slancio, senza il minimo compiacimento, oppure si ritira nell'espressione ironica o indiretta. È capace di dire le cose più profonde con estrema sottigliezza usando termini densi fino alla brutalità. Il suo è uno stile a cui bisogna abituarsi, ma allora basta leggere qualche pagina per cogliere, molto meglio di quanto non lo possa dire io, chi era e di che cosa parlava Soren Kierkegaard. Questa è un'altra caratteristica che ha in comune con Nietzsche.

    L'istante: questo non è semplicemente il titolo di un pamphlet, è anche un concetto centrale nell'arsenale a cui ricorre Kierkegaard nella sua lotta contro Hegel. Quest'ultimo, come abbiamo visto, cerca una soluzione o un significato per tutto ciò che è accaduto nel corso della storia, per la storia nella sua totalità, cerca una finalità nell'insieme del suo sviluppo: tutto ciò che esiste deve trovare il suo posto e la sua giustificazione nella storia. Kierkegaard, invece, afferma non solo il valore assoluto di ogni individuo, della soggettività individuale, ma anche quello di ogni istante vissuto. Vediamo qui nascere qualcosa di importante che avrà un ruolo decisivo nella storia del pensiero filosofico, cioè la corrente che sarà chiamata Existenzphilosophie in tedesco, existentialisme in francese ed esistenzialismo in italiano.
    Che cos'è l'esistenza? Per Kierkegaard, si tratta dell'apparizione della libertà responsabile di un soggetto. Un esempio per illustrare questo concetto: considerando le cose dall'esterno, si può vedere l'acqua scorrere, dei rami cadere, una persona compiere un atto, e tutto ciò appartiene allo stesso tempo, che si tratti dell'acqua che scorre, dei rami che cadono, dell'uomo che compie un atto. L'atto liberamente compiuto dall'uomo, invece, non può derivare da ciò che è accaduto prima nel tempo che hanno in comune la natura e l'uomo che agisce: l'atto dell'uomo proviene da ciò che è accaduto nel cuore della sua soggettività e per questo l'uomo se ne assume personalmente la responsabilità. Agendo, l'uomo non si lascia semplicemente inserire nella serie delle cause e degli effetti, non è lui stesso semplicemente un effetto di qualcos'altro, ma diventa una sorta di inizio assoluto. Nella trama delle cause e degli effetti, l'uomo inserisce il suo atto libero che ha un'origine diversa, compie una rottura, che l'esistenzialismo, o filosofia dell'esistenza, chiama rottura esistenziale.
    Il termine "esistenza", con questo significato, viene da Kierkegaard. È stato lui a dargli questo senso. Da allora, il verbo "esistere" ha preso in filosofia un nuovo significato: non significa più soltanto la presenza di qualcosa nel reale, ma bisogna tornare alla sua etimologia, come ha fatto Heidegger: ex-sistere, che significa emergere fuori dal magma delle cose, provocare una rottura, non essere il derivato di una continuità omogenea.
    Una tale rottura esistenziale si verifica nel momento di una decisione liberamente presa, nell'atto con cui il soggetto si attua, si rende presente attraversando la continuità del tempo, "trapassando" il tempo. È questo che Kierkegaard chiama, appunto, l'istante.
    L'istante quindi non è più quel limite tra passato e futuro che tormentava tanto Agostino, lasciandolo stupefatto dopo avere scoperto che siamo tutti nel tempo, e tuttavia il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente non è niente, appena un limite tra due nulla, cosicché in conclusione il tempo non esiste, anche se noi siamo sempre nel tempo.
    Nonostante una profonda affinità, in Kierkegaard le cose non stanno così. La nozione del tempo non è considerata in se stessa, ma in rapporto al soggetto esistenziale che decide nel tempo e che, di conseguenza, agisce nel tempo: è con questa rottura che il soggetto "attraversa" il tempo. Per i risultati la sua azione è empirica; ma anche se gli effetti della sua azione si situano al livello dell'esperienza abituale, nel tempo normale, l'atto compiuto non è empirico, non è "nel" tempo, ma attraversa il tempo: questo è l'istante.
    Per chi vuole capire Kierkegaard, entrambi i concetti, di esistenza e di tempo, sono inseparabili, e possono aiutarci a cogliere in che modo il suo pensiero si oppone a Hegel. Kierkegaard si serve di questi due concetti per sottolineare la realtà assoluta, puntuale, di ciò che è ogni volta unico, e quindi irriducibile a ciò che un sistema totale è in grado di assorbire, di subordinare, di annegare nel relativo.
    Che rapporto c'è quindi tra questi due concetti e il cristianesimo? Spesso Kierkegaard chiama Cristo "il Paradosso". Il Paradosso è Cristo, oppure la Croce. La Croce è l'intersezione di due dimensioni. L'istante, questa rottura esistenziale del tempo causata da una libertà, può essere rappresentato da una croce: il braccio orizzontale è il tempo in cui si concatenano le cause e gli effetti; quello verticale è la rottura che si verifica nel tempo. Cristo è l'interruzione del tempo storico, e quindi il Paradosso, con cui l'eternità viene a scindere la continuità del tempo empirico. C'è quindi un'analogia tra l'apparizione dell'eternità, per mezzo della persona di Cristo, nel tempo, e l'apparizione della libertà, di una soggettività esistenziale, nel tempo.
    Per Kierkegaard, Cristo è anche il paradosso assoluto. Che cos'è un paradosso? Di solito è un giudizio in sé contraddittorio, che l'intelletto non può semplicemente accettare come tale: un paradosso si distingue da una contraddizione logica per il fatto che quest'ultima è un errore di ragionamento commesso dall'intelletto, mentre il paradosso non si lascia ridurre all'intelletto e alle sue operazioni. Dire che Cristo è il paradosso assoluto significa che Cristo non ammette nessuna prova della sua natura contraddittoria; Cristo non può essere raggiunto da nessuna prova, e da nessuna confutazione; di conseguenza di Cristo, come di Dio stesso, non si può avere nessuna conoscenza. Mettendo in luce le ragioni per cui non può esserci una teologia, Kierkegaard sviluppa quindi una sorta di teologia negativa.
    Questa rappresentazione di Cristo in quanto Paradosso che interrompe il tempo come la decisione assoluta di un soggetto risulta decisiva e gravida di conseguenze. Kierkegaard sottolinea per esempio che i primi discepoli di Cristo, per il fatto di essere stati suoi contemporanei, non gli furono più vicini di quanto non possa esserlo, in qualsiasi epoca, una soggettività in cerca di Cristo. Cerchiamo di capire: poiché la presenza di Cristo introduce una rottura nel tempo, chi per una sua decisione spirituale o morale compie la stessa rottura attraverso la sua azione o la sua fede diventa il contemporaneo di Cristo nell'eternità dell'istante, forse anche a maggior diritto di chi è vissuto a livello empirico nello stesso tempo di Gesù. Si crea così un'altra contemporaneità, non più nel tempo, ma nell'eternità.

    Ancora un punto importante: nell'opera intitolata Postilla conclusiva non scientifica, Kierkegaard paragona il ruolo avuto da Socrate per i suoi allievi con quello di Cristo per i suoi discepoli. Secondo Kierkegaard, Socrate, in quanto maestro, fu per i suoi allievi l'occasione di scoprire la verità; Cristo invece, per i suoi discepoli, fu il dio che costituiva l'essenza stessa di quella scoperta. Cerchiamo anche qui di capirlo.
    Prima di tutto bisogna sottolineare che, con questo paragone, Kierkegaard non intende affatto sminuire Socrate, per il quale nutriva la più viva ammirazione e di cui seppe parlare in modo meraviglioso. Socrate è il maestro che vuole non istruire i suoi allievi, ma mostrare il metodo che permetterà loro di trovare la verità da soli. La sua grandezza è nel fatto che con le sue domande egli aiuta gli allievi a cercare la verità e a trovarla in se stessi, una verità che era presente già da prima, ma che essi non sapevano decifrare e restava quindi indipendente dalla loro vita: portandoli a scoprire la verità interiore, Socrate rappresenta quindi l'occasione, l'incitamento a una tale scoperta. Non appena gli allievi sono in grado di trovare da soli ciò che è vero, Socrate può ritirarsi, ed è quello che effettivamente fece. Questa è la sua grandezza: Socrate non trasmette una dottrina, non domina la mente dell'allievo, ma si adopera a renderlo capace di fare a meno del maestro. Kierkegaard mostra così ciò che costituisce l'essenza più profonda della pedagogia.
    La differenza tra Socrate e Cristo, secondo Kierkegaard, è che Cristo non si limita a insegnare la verità, ma è la verità. Entra così in gioco una nuova dimensione, quella della fede. Cristo è la verità che insegna, è, come dice Kierkegaard, il Dio. Per questo non può ritirarsi e scomparire: Cristo non è come Socrate, l'occasione, Cristo è il Dio, quel Dio che bisogna trovare per viverci insieme.
    Qui si vede come l'idea di verità, così spesso banalizzata, se non trattata con leggerezza, abbia una complessità infinita. Tutti credono di sapere di che cosa si tratti: da quando esiste la filosofia, sulla verità sono stati scritti grossi libri, lo si fa ancora oggi e lo si farà anche domani, ma senza mai esaurire il problema. La verità è un concetto che designa un'unità, e che nello stesso tempo "si demoltiplica" perché la verità si attua in modo diverso ai diversi livelli del nostro essere e del nostro pensiero. Tutti questi livelli sono collegati insieme, il che permette di mantenere l'unità, e tuttavia, a causa dell'eterogeneità dei livelli, all'interno della verità si produce una discontinuità, legata alla natura del livello considerato: ciò che a un livello è verità diventa falsità a un altro, o anche menzogna, perché non si tiene abbastanza conto del modo di essere in questione. Questa è una cosa fondamentale da capire.
    Kierkegaard afferma che è indispensabile essere cristiani, ma nello stesso tempo ricorre alla categoria dell'impossibile: per Kierkegaard, essere cristiani è indispensabile e impossibile. Nessuno può essere veramente cristiano, e ai suoi occhi sono proprio i rappresentanti ufficiali della Chiesa i maggiori profanatori in quanto sono convinti di essere un'adeguata incarnazione del cristianesimo.
    Il cristianesimo è quindi insieme necessario e impossibile. Questo modo di procedere della teologia negativa, Kierkegaard lo deve probabilmente alla dialettica di Hegel, a quel gioco di enunciati contradditori (tesi e antitesi) che in Hegel porta alla sintesi. Quella di Kierkegaard, invece, è una dialettica negativa, che non può rivelare l'essenza del cristianesimo attraverso una sintesi o una riconciliazione, ma attraverso uno scacco, un'impossibilità a cui si trova costretto l'essere umano.
    Per cogliere il senso e la portata di questa "teologia negativa", bisogna leggere il trattato sulla disperazione, intitolato La malattia mortale, in cui Kierkegaard mostra come l'anima possa smarrirsi completamente nella disperazione. Ma, d'altra parte, un'anima che non sia più capace di disperare, che si sia adagiata nella soddisfazione al punto che la disperazione non ha più su di lei alcuna presa, corre il pericolo di smarrirsi per mancanza di disperazione. Sopportare queste contraddizioni costituisce un tragico esercizio dello spirito: Kierkegaard incita il lettore a farlo, non una sola volta, ma ogni giorno di nuovo. Non per niente uno dei suoi libri si intitola La ripetizione. [2]
    Per Kierkegaard, l'eternità non è un tempo che scorre senza fine, ma piuttosto la ripetizione immobile dell'istante in cui l'atto di fede continua a creare la sostanza della fede attraverso l'esercizio tragico dello spirito. L'eternità è la ripetizione di un atto propriamente impossibile, che costringe alla disperazione. La disperazione è una malattia mortale dell'anima, ma una malattia inevitabile in quanto possibilità di salvezza, unico rapporto possibile con il cristianesimo.
    Kierkegaard distingue tre stadi dell'esistenza: lo stadio estetico, lo stadio etico e lo stadio religioso.
    Lo stadio estetico, in cui regna Don Giovanni, è quello della massima intensità momentanea, della vita concentrata in momenti discontinui, senza alcun legame tra loro. Ciò che qui conta è il parossismo, non la fedeltà. Parossismo della novità e del cambiamento.
    Qui stiamo semplificando, certo, tanto più che Kierkegaard analizza a lungo lo stadio estetico, di cui conosceva bene le tentazioni ma che giudicava ricco di elementi preziosi. In quanto scrittore e poeta, si sentiva particolarmente sensibile a tutto ciò che apparteneva all'estetica. Ora lo stadio estetico si distingue da quello etico essenzialmente per il fatto che non comporta nessun tipo di impegno, ma è uno stadio meraviglioso in cui la libertà può manifestarsi in singoli istanti, senza che tali istanti arrivino mai a collegarsi, per un movimento trascendente, alla loro origine comune, come accade –lo vedremo più avanti – nello stadio religioso.
    Lo stadio etico forma un grande contrasto con quello estetico. Tra i due stadi esiste quasi un'opposizione dialettica di tipo hegeliano, e si vede chiaramente come Kierkegaard abbia saputo trarre profitto dalla dottrina del filosofo tedesco. Lo stadio etico è quello dell'impegno e della fedeltà, quello, per esempio, del matrimonio, in contrapposizione a quello di Don Giovanni. Ma chiunque arrivi a confondere lo stadio etico con lo stadio religioso si espone, per mancanza di disperazione, alla disperazione più profonda che è "la malattia mortale".
    Il terzo stadio, lo stadio religioso, conserva certi elementi del primo e del secondo, ma in modo tale che si distruggono reciprocamente. Lo stadio religioso è quello in cui l'istante raggiunge la massima intensità abbracciando tutto il tempo nella sua unità totale e assoluta. Tale istante è l'assoluto che attraversa il tempo (Jaspers dirà: «Quer zur Zeit») e lo trascende grazie alla ripetizione, per raggiungere ciò che a noi è precluso: l'eternità. L'unità del tempo è l'eternità, e attraverso la ripetizione, tra l'istante e l'eternità, si stabilisce una relazione dialettica. Per noi che viviamo nel tempo, lo stadio religioso è insieme preteso e precluso.
    Secondo Kierkegaard, gli uomini che rifiutano tutto ciò che non è l'assoluto per dedicarsi esclusivamente alla religiosità, in genere non hanno a che fare davvero con l'assoluto, ma con i suoi surrogati, con imitazioni che li ingannano sullo stadio in cui vivono, per cui si trovano pietosamente invischiati in certi aspetti che appartengono allo stadio estetico.
    Questo permette di capire meglio il concetto di ironia, così importante in Kierkegaard: è l'ironia che gli permette di parlare senza mentire quando parla di ciò di cui è impossibile parlare. Chi infatti parla quando è impossibile parlare non può evitare di mentire.
    Gabriel Marcel era solito dire che quando si parla di Dio, non è quasi mai di Dio che si parla. Anche Kierkegaard lo pensava, soprattutto quando la voce si innalza fino agli accenti della convinzione. Per questo, quando si arrischia a dire qualcosa di Dio, Kierkegaard parla "del dio", e scrive "dio" con la minuscola. Così, quando a Socrate contrappone Dio fattosi carne in Cristo, egli parla "del dio", per non avvicinarsi troppo, per mantenere una certa distanza.
    Nel linguaggio di Kierkegaard, l'ironia è al servizio della verità, o almeno gli serve a diminuire la sua partecipazione alla menzogna. Anche per questo Kierkegaard ha assunto tanti ruoli diversi, tanti pseudonimi, talvolta comici: ha voluto nascondersi per poter successivamente adottare diversi punti di vista, perché ci si rendesse ben conto che non si appropriava mai dell'essenziale, della religiosità. Questa funzione fondamentale dell'ironia, questo mantenersi a distanza, testimonia della sua autenticità.
    L'umorismo, d'altra parte, gli serve a preservare ciò che egli chiama l'incognito della religiosità. L'incognito della religiosità significa che noi non possiamo mai abbassare la religiosità al livello di una persona qualsiasi che, con la sua psicologia e le sue qualità particolari, ci parli della religiosità. La religiosità ci parla attraverso l'incognito. Kierkegaard si dimostra particolarmente severo nei confronti di quelle professioni di fede che gli sembrano confondersi con troppa facilità con un certo compiacimento nell'autoritratto, o mancare di pudore. Nei riguardi del discorso religioso, Kierkegaard manifesta la diffidenza di un serpente: non si fida di quello che dice, di quello che dicono gli altri, teme sempre il sacrilegio, la riduzione dell'assoluto al relativo del linguaggio umano. Per questo ha bisogno dell'umorismo, per preservare l'incognito della religiosità. Kierkegaard dice che vorrebbe essere «il poeta della religiosità», qualcuno che dice quello che ha da dire, non in senso letterale, ma in modo indiretto. Chi vuole capirlo deve compiere con lui, nello stesso tempo, l'atto religioso, altrimenti la lingua religiosa resta muta o diventa addirittura perversa.
    Ognuno di noi, pensa Kierkegaard, deve sforzarsi continuamente di diventare sempre più soggettivo. Ciò non significa certo che dobbiamo sacrificare l'oggettività scientifica a qualche visione sentimentale o comunque priva di chiarezza: qui non si tratta né di psicologia né di propaganda né di polemica. Diventare soggettivo significa avvicinarsi di più all'origine attraverso la quale Dio ci ha dato la condizione umana, avvicinarsi cioè alla nostra libertà: è alla libertà che dobbiamo la possibilità, in quanto soggetti soggettivi, di dire "io" . Nella misura in cui siamo in grado di diventare soggettivi, si verifica una completa trasformazione dell'esistenza che, invece di chiudersi su se stessa, si riconosce come dono di Dio, rapporto con Cristo, ripetizione religiosa.


    NOTE

    1 Quest'opera è conosciuta anche con il titolo Sul concetto dell'ironia con particolare riguardo a Socrate [n.d.t.].
    2 Quest'opera è conosciuta anche con il titolo La ripresa [n.d.t.].


    (da: Storia della filosofia come stupore, Bruno Mondadori 2002, pp. 262-275)


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