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    Pensare la comunità

    nel tempo

    della postmodernità

    Giandomenico Mucci


    Il tema della comunità costituisce una delle sfide aperte per il pensiero contemporaneo, all'interno di uno scenario politico, economico e sociale che vede, da un lato, il tramonto dei vari comunismi e socialismi reali e, dall'altro, percepisce, anche come conseguenza della crisi economica globale iniziata nel 2008, i limiti sempre più evidenti dell'individualismo neoliberista che fa da sfondo al capitalismo globalizzato.
    Che le democrazie moderne si fondino su un paradigma antropologico individualista, che minaccia costantemente la coesione e la tenuta del legame sociale, lo aveva già notato Tocqueville quando osservava che la democrazia offre, sì, maggiori opportunità e possibilità per tutti rispetto all'età precedente, ma produce un indebolimento del legame sociale e della coesione comunitaria, che si manifesta non soltanto nei rapporti con il passato (rottura della tradizione), ma anche nei con-fronti del presente, minacciando di rinchiudere l'uomo «nella solitudine del suo stesso cuore».
    Il ricordo ancora vivo delle tragiche esperienze totalitarie di destra e di sinistra, che hanno caratterizzato il Novecento, ha reso la coscienza attuale particolarmente vigile e attenta nei confronti di qualsiasi gruppo o compagine sociale che assuma tratti organicistici, esclusivistici e regressivi. Di qui l'esigenza di pensare un modello alternativo, una sorta di «terza via», che superi l'impasse tra individualismo e organicismo su cui sembra essersi incagliata la riflessione della modernità filosofica e politica.
    Daniele Aucone ha analizzato una serie di autori che hanno posto al centro della propria riflessione il tema della comunità, sia sul piano filosofico (in special modo nel quadro della filosofia continentale contemporanea) sia su quello teologico (particolarmente nell'ambito dell'antropologia teologica fondamentale), alla ricerca di un dialogo tra approcci e provenienze diversi [1].
    L'A. convoca alcune delle voci più significative del versante («radicale») del panorama filosofico europeo contemporaneo che, proseguendo nel solco dell'ontologia evenemenziale e processuale avviata da Nietzsche e Heidegger, hanno tentato un superamento della dicotomia individualismo-collettivismo che ha caratterizzato la parabola moderna e si sono messe a ricercare nuovi modelli. Ne è emersa la proposta di pensare la comunità come qualcosa che non inizia né prima (organicismo) né dopo (contrattualismo) l'individuo, ma «dentro» il soggetto stesso, venendo a coincidere con quella dimensione di finitezza e limitatezza (qui è evidente l'eco di Heidegger) che caratterizza la sua esistenza e, precisamente per questo, lo apre continuamente al rapporto con l'altro. Non, quindi, un Tutto pre-esistente né un fatto accidentale e posteriore rispetto all'esistenza di soggetti inizialmente isolati, ma un processo interminabile di comunicazione e scambio con l'altro che non può mai chiudersi in una Totalità o presenza definitiva.
    Nella prima parte, il saggio si pone in ascolto di queste voci, cogliendone gli stimoli per un pensiero rinnovato - anche teologico - sull'argomento, particolarmente per quanto riguarda l'invito a una visione più dinamica ed evenemenziale del legame interpersonale e più incentrata sulla dimensione di unicità e singolarità di ogni individuo, ma anche sottolineandone alcune aporie o punti problematici, specialmente sulla teoria della soggettività.
    Nella seconda parte, l'ontologia contemporanea della comunità viene messa in dialogo con recenti contributi teologici che tentano di rinnovare la riflessione dell'antropologia cristiana su questo tema, accogliendo alcune istanze del pensiero contemporaneo, ma essendo attenta a salvaguardare la dimensione dell'ulteriorità e della trascendenza della persona umana. Un dialogo che avviene sulla base dell'esperienza del dono, capace di costituire un «terzo paradigma» (tra individualismo e olismo) nella comprensione della genesi del fatto sociale e dell'essere-in-comune.

    G. Bataille, J-L. Nancy, R. Esposito

    L'opera di Georges Bataille, interessante per i motivi estetici, antropologici e letterari che in essa convergono, si inserisce in un quadro storico che presenta non deboli analogie con il nostro presente. Lo scenario è quello della grande crisi del 1929, una fase di recessione economica che chiamava in causa i paradigmi antropologici e politici sui quali poggiano le democrazie occidentali di impianto individualistico-liberale. Dopo la lettura del Saggio sul dono di Marcel Mauss, pubblicato nel 1924, Bataille scopre, attraverso lo studio dell'antropologo francese sulla forma dello scambio nelle società arcaiche, un modello di comprensione del rapporto sociale e della soggettività che è irriducibile alla sola sfera del contratto e del mercato, che invece è al centro delle società moderne.
    L'uomo, infatti, non è solo passione acquisitiva o ragione strumentale, ma anche propensione al dono di sé all'altro, inclinazione che lo spinge a uscire dall'isolamento e lo «espone» a un processo interminabile di comunicazione con l'altro. È quella che Bataille chiama dépense, ossia dispendio o spesa improduttiva, con un termine che riecheggia l'analisi maussiana, ma che nel suo pensiero si carica di altre matrici culturali, come quelle della psicanalisi e della letteratura surrealista. In altri termini, il dono è un paradigma di comprensionedel rapporto sociale altri nativo a quello contrattualistico-liberale.
    Se, in un primo tempo, Bataille non sottolinea la distanza tra l'esperienza del dono e la concezione organicistica di impronta comunista (che, anzi, le sue ricerche si muovono nel campo delle attività del Cercle communiste démocratique e della sua rivista Critique sociale), già nella seconda metà degli anni Trenta, di fronte all'ascesa dei movimenti nazionalistici e all'incapacità delle aggregazioni della sinistra di tamponarne il successo, egli tenta dapprima la realizzazione di una comunità «impolitica» (Acéphale), interamente incentrata sulla dépense estrema della morte e del sacrificio di sé, poi, nel dopoguerra, sull'idea di una «comunità negativa», che si dà come assenza o mancanza e, quindi, come processo di comunicazione ed esposizione all'altro.
    Sulle orme di Bataille si muove il filosofo Jean-Luc Nancy, già allievo di Paul Ricceur. Per Nancy, Acéphale è fallita perché esprimeva l'idea di comunità come progetto da realizzare. Egli propone invece la «comunità inoperosa», che coincide con l'esposizione stessa del soggetto alla propria finitezza e al proprio limite, che crea il contatto delle esistenze le une con le altre. Al concetto di soggettività, che indica un essere autosufficiente e completo, Nancy preferisce quello di esistenza singolare, che implica un'apertura all'alterità e contiene il limite della propria finitezza. Come il singolo è pensato non nell'ottica di essenza chiusa in se stessa e completa, ma come evento che differisce costantemente la questione della sua identità, così la comunità è teorizzata da Nancy come evento da rinnovare e riattualizzare continuamente attraverso il partage e la comunicazione delle singolarità, senza alcuna chiusura o cristallizzazione in una totalità o presenza interamente realizzata.
    Su una linea analoga a quella di Bataille e di Nancy si colloca il filosofo napoletano Roberto Esposito. Questi condivide l'idea di «comunità negativa», di comunità che è dis-appropriazione, perdita ed espropriazione dell'appartenenza a sé. Comunità è allora condivisione del munus, di un debito o pegno verso l'altro, con un carattere espropriante, e inscrive l'alterità nel cuore del soggetto stesso. Ma, per Esposito, questo munus originario è stato di fatto neutralizzato dalla modernità con il dispositivo del contratto sociale che, trasferendo verticalmente allo Stato i compiti di sicurezza e protezione dei consociati, ha escluso ogni forma di rapporto diretto tra loro, producendo un effetto di inflazione e atomizzazione generalizzate; oggi sarebbe necessario recuperare quel «contagio» della relazione con l'altro espresso dal munus.
    L'A. del saggio si sofferma su alcuni punti problematici. L'approccio evenemenziale che fa da sfondo alle analisi dei tre pensatori sembra a tratti dissolvere qualsiasi dimensione diacronica e di durata della comunità, dando luogo a un esito attualistico, puntuale, che escluderebbe quella perseveranza nel tempo assicurata attraverso delle strutture. L'approccio radicalmente evenemenziale rischia di essere poco compatibile con l'idea di persona umana e dà piuttosto adito all'idea di un soggetto al quale «accade» talvolta di essere persona.
    Non a caso l'A. cita la decostruzione della nozione di persona e la proposta di una «filosofia dell'impersonale», già presenti nel pensiero di Esposito. Secondo l'A., tale decostruzione riguarda forse soltanto il modo di intendere la persona in senso dualistico, ossia in opposizione alla sua dimensione biologica. Ma resta non chiara la posizione di Esposito sulla trascendenza della persona umana rispetto al mondo organico e animale, cioè sulla libertà e sulla coscienza dell'uomo.

    R. Mancini, A. Rizzi, P. Coda

    La tematica del dono fa emergere l'immagine di un soggetto aperto all'alterità e alla differenza, capace di dialogo con certe istanze del pensiero contemporaneo senza dover rinunciare agli aspetti propri della concezione teologica cristiana. Perciò l'A. prende in esame la riflessione sul tema della comunità, nel campo dell'antropologia teologica, di tre autori italiani che si muovono, per così dire, sul confine di una costante interazione tra filosofia e teologia.
    Roberto Mancini, già noto per i suoi studi sulle filosofie postmoderne e decostruttive ispirate a Nietzsche e Heidegger, assume il paradigma del dono per ripensare sia la nozione di origine o fondamento dell'esistenza umana sia la sfera dei rapporti interpersonali e comunitari. Se la preoccupazione delle filosofie della «demitizzazione» intende scongiurare il pericolo di comunità totalitarie e regressive, mostrando come il rapporto con un'origine non possa mai darsi in termini di proprietà o appartenenza, per Mancini questa analisi decostruttiva conduce non all'abbandono dalla nozione di origine, bensì al suo ripensamento in termini di gratuità e libertà, in quanto l'origine stessa è l'evento gratuito e libero che fonda la relazione o on gli originati. Alle filosofie della finitezza, incentrate sulla mortalità e sul limite, Mancini oppone un'antropologia della creaturalità, che include l'aspetto di non-sovranità e di limitatezza della condizione dell'uomo, ma non si preclude un orizzonte di ulteriorità e di trascendenza, perché è la relazione fondante con l'origine a permettere di pensare «oltre» l'aspetto della finitezza pura. Da tale relazione fondante proviene il processo di comunicazione interpersonale nella pratica del dono, la libera reciprocità comunionale che esige di essere sempre rinnovata.
    Per Armido Rizzi, l'alternativa tra il modello individualista - che considera il fatto sociale come posteriore e accidentale rispetto alla vita degli individui - e il modello organicista - che considera la comunità come un Tutto preesistente e spersonalizzante - può essere superata attingendo direttamente alla rivelazione biblica, che offre come modello l'elezione e l'alleanza, da cui procedono gratuità e benevolenza. Il paradigma individualistico mette in rilievo la logica utilitaria e acquisitiva, quello olistico si fonda su una prospettiva sacrificale, quello dell'alleanza sulla dedizione all'altro in quanto altro.
    Piero Coda parte dalla prospettiva antropologica e trinitaria.
    Esiste una pericoresi o unità circolare tra l'essere-sé e il dono-di-sé. La persona, cioè, trova tanto più se stessa quanto più si dona all'altro. La analogia Trinitatis conduce a pensare che, come le Persone divine esistono ciascuna in relazione con l'altra, così tra gli uomini può esistere una mutua inerenza tra l'identità e l'apertura all'altro, sicché l'ipseità non precede la relazione all'altro, ma si dà con e parallelamente ad essa.

    Una modernità «allargata»?

    Il saggio che abbiamo presentato si inserisce tra quei lavori teologici che oggi tentano un confronto con il pensiero postmoderno, dal quale raccolgono suggestioni e spunti significativi per un rinnovamento della teologia cattolica e dell'azione pastorale della Chiesa. Questo confronto avviene alla luce di un dialogo critico, accettato come lo strumento più valido nelle ricerche interdisciplinari, perché consente un cammino comune e un arricchimento reciproco per coloro che di tale strumento sanno usare saggiamente. Qualche esempio.
    Una maggiore attenzione al carattere dinamico, aperto e processuale dei rapporti interpersonali e comunitari, proposta dal pensiero contemporaneo, può fecondare anche la riflessione teologica sull'argomento.
    L'invito a pensare alla circolarità e alla mutua inerenza tra la ipseità della persona e la relazione all'altro costituisce una suggestione per l'autocomprensione antropologica e la riflessione trinitaria, sebbene si tratti di un invito che non proviene propriamente dall'ambito filosofico, nel quale piuttosto sembra importato dalla teologia. Questa ovvia considerazione mostra quanto la teologia possa dare al pensiero filosofico, sia agendo come pungolo sia rilevandone i nodi irrisolti sia suggerendo nuove piste di ricerca.
    Per quanto riguarda la finitezza umana, da sempre tenuta presente dalla teologia, è lecito far notare che è stato il pensiero cristiano a riproporre questa essenziale dimensione dell'uomo, che va costantemente ricordata insieme a quella dell'orientamento alla trascendenza; ed entrambe le dimensioni si illuminano a vicenda. In questa prospettiva, c'è spazio per un lavoro comune della filosofia e della teologia, che, deposte le vecchie incomprensioni e acrimonie, possono concordemente servire i problemi dell'uomo contemporaneo. Una modernità allargata è una chance praticabile.

    NOTE

    1. D. AUCONE, La questione della comunità tra filosofia e teologia. Percorsi per un dialogo nel post-moderno, Firenze, Nerbini 2014, 183

    (da Civiltà Cattolica n. 3956 / 2015, pp. 182-187)


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