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    La radice dell'amore

    Giovanni Reale



    Eros platonico e Amore cristiano

    Eros, in Platone, non è un tema marginale, seppure di qualche importanza, come molti hanno spesso ritenuto: coincide con l'essenza stessa della sua filosofia. L'Eros è il più grande filosofo e l'erotica è la filosofia più grande.
    Due tra i dialoghi platonici più letti, il Simposio e il Fedro, che trattano in modo specifico la tematica dell'Eros, sono veri capolavori e il Simposio, nell'opinione di molti, è addirittura l'opera più perfetta di Platone.
    Werner Jaeger scriveva: "Nel Simposio si rivela la'perfezione somma dell'arte platonica, tale che nessuna parola umana può pretendere di renderle giustizia coi mezzi dell'analisi critica e di una parafrasi, per quanto accurata e aderente."
    E in verità, il concetto di Eros in Platone è stato da sempre considerato il più elevato fra quelli espressi dalla pura ragione, prima del Cristianesimo.
    Per comprendere quale sia, nella filosofia platonica, la natura di Eros, ci viene in aiuto lo stesso filosofo. In un mito che egli ha creato, la raffigura in modo simbolico, e ne delinea un ritratto che, esprimendolo in tutti i suoi molteplici aspetti, ci porta a riconoscerlo nelle diverse manifestazioni.
    Da chi, dunque, e quando, dove e come è nato Eros?
    Nel giorno in cui gli dèi – ci narra Platone – banchettavano per festeggiare la nascita di Afrodite, Penìa, dea della Povertà e della Mancanza, venne alle porte a mendicare. Priva com'era di quello che al contrario possedeva Poros, dio di tutti gli espedienti, sempre in grado di procacciarsi quello che cerca, e desiderando esserne partecipe, Penìa riuscì a giacere con Poros, ubriaco di nettare, nei giardini di Zeus, e ad avere un figlio da lui.
    Quel figlio fu appunto Eros, che riunisce dunque in sé la natura della madre e quella del padre. Come figlio di Penìa, Eros è sempre accompagnato da indigenza e da bisogno. Ma, poiché suo padre è Poros, da lui trae energie inesauribili e risorse molteplici, che lo spingono continuamente a tramare, cercare, acquisire. Essendo poi stato concepito nel giorno in cui si festeggiava la nascita di Afrodite, dea della Bellezza, è amante del Bello e nel Bello esprime la sua creatività.
    Ma lasciamo che sia Platone stesso a descrivere splendidamente la duplice natura che Eros derivò dal padre e dalla madre:
    '"In quanto Eros è figlio di Penìa e Poros, gli è toccato in destino di essere di questo tipo. In primo luogo, è povero sempre, ed è tutt'altro che bello e delicato, come credono i più. Invece è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra e senza coperta, e dorme all'aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada, e, poiché ha la natura della madre, è sempre accompagnato da povertà. Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei) belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato dí saggezza, pieno di risorse; ricercatore di sapienza per tutta la vita (filosofo), straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista."
    Proprio perché la sua essenza è la mediazione sintetica degli opposti; Eros non è immortale come gli dèi, né mortale; "ma, in uno stesso giorno, talora fiorisce e vive, quando riesce nei suoi espedienti, e talora, invece, muore, ma poi ritorna in vita, a causa della natura del padre."
    Eros è colui che rinasce sempre.
    È desiderio di quello di cui è privo, ma di cui, in qualche modo, ha tracce in sé: è desiderio delle cose belle e buone. Come tale, non può essere di per sé bello e buono, perché, se così fosse, non avrebbe desiderio di quello che già possiede. Meno ancora, tuttavia, può essere brutto e cattivo, poiché, essendo tale, non potrebbe avere desiderio del bello e del buono.
    Eros è "intermedio" (metaxù) fra gli opposti, tra bello e brutto, buono e cattivo.
    Tale caratteristica si esplica in due direzioni: una in senso "verticale", l'altra in senso "orizzontale".
    Eros è intermedio in senso verticale, poiché, non essendo un dio immortale, ma neppure un essere mortale, è un dèmone intermedio, mediatore fra il divino e l'umano, il sensibile e il soprasensibile.
    È intermedio in senso orizzontale, poiché unisce, sintetizzandoli, caratteri contrari: privazione e acquisizione, povertà e ricchezza.
    In questo senso, Eros è filosofo per eccellenza, mai del tutto ignorante e mai del tutto sapiente (solo un dio è del tutto sapiente), sempre in cerca di ulteriori acquisizioni e di maggior ricchezza di sapere.
    Per questa sua struttura bipolare, che media e lega gli opposti, come forza che collega in tutti i sensi il tutto con se stesso, Eros ha una dimensione cosmica: è il legame che tiene unito l'essere con se stesso. E se questo è vero per l'intera realtà, lo è anche per l'uomo.
    Per un'indebita restrizione linguistica, dice Platone, comunemente viene definita "Eros" soltanto la specifica tendenza dell'uomo al Bene nella dimensione del Bello. In realtà, ogni forma di tendenza dell'uomo al Bene è Eros, e la limitazione linguistica a una sola parte del tutto di un termine che in sé dovrebbe valere per il tutto, non può modificare la verità effettiva della cosa.
    Sulla base di quanto abbiamo detto, appare chiara la definizione platonica della natura dell'amore: "L'Amore è tendenza a essere in possesso del bene per sempre".
    In particolare, poi, Eros realizza in larga misura la sua tendenza al Bene mediante la procreazione nel Bello (il quale non è se non un particolare aspetto del Bene), che per la sua stessa natura egli attrae. La Bellezza stimola il desiderio e la forza di procreare. In questo modo: la natura mortale cerca di farsi immortale, nella dimensione del corporeo (la generazione è ricerca di perennità anche nelle creature mortali), ma non meno in quella dello spirito. È infatti il Bello che spinge l'anima a generare le sue virtù e le sue opere più grandi, al cui vertice si trova la suprema conoscenza.
    Si colloca qui il punto più alto della dottrina platonica dell'Eros, quella descrizione della "scala d'amore", diventata, a giusta ragione, celeberrima.
    Eros, muovendo dalla Bellezza che vede in un corpo, passa alla Bellezza che vede negli altri corpi, per giungere a comprendere che è una sola, è unica la Bellezza che traluce in tutti í corpi.
    Dalla Bellezza corporea, Eros aiuta a salire alla comprensione e alla fruizione della più alta Bellezza dell'anima, e insegna ad amare questa più dei corpi. Amare veramente una persona non consiste nell'amarne il corpo e la Bellezza fisica, ma nell'amarne l'anima, vale a dire la Bellezza interiore, il suo vero essere.
    Dalla Bellezza delle anime Eros conduce poi alla Bellezza di quel che l'anima produce: le sue attività spirituali, le leggi che crea e che uniscono insieme gli uomini.
    Ma la scala d'amore non si ferma qui: Eros guida a un quarto grado, alla Bellezza delle scienze, a quella della sapienza.
    E, da ultimo, Eros ci innalza al quinto grado, alla visione del Bello in sé e per sé, come forma unica e assoluta:
    "La maniera di procedere da sé o di essere condotto da un altro nelle cose d'amore è questa: cominciando dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere quel Bello, salire sempre di più come salendo per gradini, da un solo corpo a due, da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli all'anima e alle belle attività; e da queste alle conoscenze, fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è la conoscenza del Bello stesso, e così, a conclusione, si conosca ciò che è la Bellezza in sé. Questo è il momento della vita, se mai ce n'è altro, che va vissuto da un uomo, ossia il momento ín cui contempla il Bello in sé."
    E in questa unione con il divino l'uomo raggiunge l'immortalità.
    Nel Fedro, Platone approfondisce ulteriormente il concetto della natura sintetica e mediatrice di Eros esposto nel Simposio, ricollegandolo con la dottrina della "reminiscenza".
    L'anima dell'uomo (simbolicamente rappresentata con l'emblematica metafora del carro alato trainato da due cavalli e guidato dall'auriga), nella sua originaria vita al seguito degli dèi, vede nell'Iperuranio le Ide•e la Verità. Poi, perdendo le ali, precipita nei corpi e dimentica tutto quello che ha veduto nell'aldilà.
    Tuttavia, sia pure con molta fatica é soltanto in parte, l'anima torna a vedere quelle cose che un tempo contemplò nell'Iperuranio, mediante l'anamnesi, ossia il metafisico "ricordo". Nel caso specifico della Bellezza l'anamnesi avviene in modo affatto particolare.
    Di tutte le Idee, la Bellezza ha avuto come sorte di essere "ciò che è più manifesto e più amabile". La Bellezza è il tralucere luminoso del Bene che ci attrae mediante Eros. L'Amore platonico è, dunque, nostalgia dell'Assoluto, trascendente tensione a quanto supera l'esperienza diretta, forza che ci spinge all'originario essere-presso-gli-dèi.
    Giudicata una sublimazione pressoché assoluta dell'Eros, e uno dei vertici insuperabili raggiunti dal pensiero umano, in quale rapporto si trova la dottrina platonica con il messaggio cristiano sull'Amore (agape, charitas)?
    Si sono sviluppate in merito teorie differenti. Alcuni studiosi di fede luterana sono giunti a sostenere che tra le due posizioni c'è un'antitesi totale. In verità, assai più che di "antitesi", a nostro giudizio, è giusto parlare di "rivoluzione", con tutte le implicazioni che essa comporta.
    Vediamone i punti chiave.
    Come abbiamo osservato, Platone, nel Simposio, nega che Eros sia un dio, e afferma che è un dèmone, poiché è desiderio di quel Bene e di quel Bello di cui è privo e di cui non potrebbe essere privo se fosse un dio. Dunque, il dio non ama e non può amare, poiché possiede già nella sua pienezza quello a cui l'amore tende.
    Ora, nel messaggio cristiano, al contrario, Dio è amore: l'essenza stessa di Dio è e si rivela nell'amore, nel senso più pieno e píù radicale.
    Inoltre, sempre nel Simposio, Platone afferma che "un dio non si mescola all'uomo". Egli negherebbe dunque non soltanto che un dio possa farsi uomo, ma che possa anche solo avere un rapporto diretto e immediato con l'uomo. Proprio in questo senso, Eros è un dèmone intermedio e mediatore: "Ha il potere di interpretare e di portare agli dèi le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli dèi ... E, stando in mezzo fra gli uni e gli altri, opera un completamento, in modo che il tutto sia ben collegato con se medesimo".
    Nel messaggio cristiano, al contrario, è proprio Dío stesso che "si mescola all'uomo", facendosi uomo per amore.
    Nel prologo al Vangelo di Giovanni vi è il rovesciamento più totale delle dottrine dei Greci. Il Logos o Verbo non solo era in Dio, ma era Dio. E "il Verbo si fece carne e abitò fra noi". Infine, quel Verbo, mediante il quale ií mondo stesso fu creato, non solo venne in questo mondo, ma "a coloro che lo ricevettero diede il potere di diventare figli di Dio".
    Nella Lettera agli Efesini Paolo ribadisce: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo, cospetto nell'amore, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo.".
    Non sarà dunque difficile comprendere in quale misura nel messaggio cristiano la platonica dimensione cosmica dell'Amore si dilati oltre i limiti estremi e supremi. Mediante il Logos che era in Dio ed era Dio, non solo fu creato il mondo e l'uomo, ma fu data all'uomo la possibilità dí diventare figliò adottivo di Dio. E questo avvenne non solo mediante l'atto d'amore della creazione, ma mediante un atto d'amore ancora più grande, il farsi uomo da parte di Dio assumendo su di sé tutte le sofferenze dell'uomo per salvarlo.
    Per concludere, se in Platone l'Amore opera quel completamento che collega il tutto con se medesimo, agendo come una realtà che sta in mezzo (metaxù) tra divino e umano, immortale e mortale, nel Cristianesimo l'Amore realizza l'unità del cosmo e la congiunzione del divino con l'umano, agendo come il vertice stesso della realtà che si piega fino all'uomo per elevarlo a sé.
    Si comprenderà allora il rovesciamento radicale della struttura ontologica dell'amore che questo implica: l'Eros platonico si eleva ai vertici più alti in dimensione acquisitiva; l'Amore cristiano trascende questa dimensione, capovolgendola in quella donativa. L'amore non è un tendere al Bene per conquistarlo, ma è un tendere al Bene per donarlo. L'amore più alto è il dono della propria vita all'altro.
    Il Cristo, figlio di Dio che nasce e muore come uomo per salvare l'uomo, costituisce il dono d'Amore di grandezza assoluta.
    E la nostra spirituale "anamnesi" possiamo e dobbiamo trovarla nel Natale, ricordo di quelle verità ultimative legate all'amore assoluto, che hanno totalmente cambiato, sia per chi crede sia per chi non crede, il senso stesso della vita dell'uomo.e della sua storia.

    La radice dell'Amore

    Più volte abbiamo toccato qui il tema di un raffronto tra il messaggio religioso dell'antichità greca, l'immagine della divinità quale è presente nella letteratura e nella filosofia, e la novità assoluta, rivoluzionaria, del Cristianesimo e dell'Amore divino che esprime. Ora, varrà forse la pena di riprendere l'argomento per tentare di dire qualcosa di conclusivo, nei limiti in cui si possa pensare (e desiderare) di "concludere" argomenti come questi.
    Da tempo ormai si è compreso che uno dei mali più gravi dell'uomo d'oggi è quello della violenza e della guerra, che assume forme e aspetti sempre differenti. Si sente ripetere inoltre che alla radice di questo fenomeno sta lo smarrimento del senso del valore dell'uomo e delle cose, vale a dire il nichilismo.
    Questo è indubbiamente vero, e Nietzsche, il teorico del nichilismo, lo aveva precisato con un'acutezza, con un senso di premonizione allucinante.
    "Il nichilismo" scrive "non è solo una contemplazione della vanità delle cose, né solo la convinzione che ogni cosa meriti di andare in rovina: si pone mano all'opera, si manda in rovina...". Il nichilismo compiuto, a suo avviso, "insegna il piacere della distruzione". ,
    L'atto di ridurre al nulla concretamente, mettendo "mano all'opera", è in stretta connessione con "la convinzione che ogni cosa meriti di andare in rovina", e viceversa. Gli esempi di giovani che lanciano massi dai cavalcavia, di ragazzi, a volte addirittura bambini, che uccidono, sono la prova significativa del nesso strutturale esistente tra l'annichilimento mediante un'azione concreta e l'annichilimento mediante una convinzione, un giudizio. Esempi che continuamente si vedono ingranditi e dilatati a dimensioni estreme nei fenomeni di guerra.
    Tuttavia, questo terribile flagello che ai nostri tempi sembra farsi sempre più dilagante, l'uomo lo conosce fin dalle sue origini, seppure in forme più semplici e rudimentali. L'archetipo dell'uomo che incarna la violenza – e quindi la guerra – è Caino, uccisore del fratello Abele.
    Filone di Alessandria – il primo pensatore che ha cercato di mediare la filosofia dei Greci con il messaggio biblico – interpreta assai significativamente in chiave metaforica il personaggio di Caino. Vede in lui una figura eterna che continuamente si rigenera, simbolo di una malattia che non muore mai: "Forse è proprio questo il segno indicante che Caino non doveva essere ucciso: il fatto che egli non risulta essere stato mai eliminato. In tutto il libro della Legge, infatti, Mosè non dà notizia della morte di Caino, alludendo allegoricamente al fatto che [...] la stoltezza è un male immortale, che non sperimenta quella fine completa che consiste nell'essere morti, ma subisce per l'eternità la fine nel senso del continuare a morire." Quello che non ha nessun valore (il senso del nulla potremmo dire noi) continua Filone, e che sarebbe di grande giovamento per l'uomo se fosse eliminato, al contrario imperversa, e in coloro che ne sono catturati fa scoppiare quella malattia, che fa continuare a morire, ma non muore mai.
    Non tutti i filosofi però vedono nella guerra un flagello. Eraclito la interpreta come una legge della realtà, condizione essenziale alla sussistenza: "La guerra è madre di tutte le cose e di tutte le cose regina; e gli uni rivela dèi, gli altri uomini, gli uni schiavi, gli altri liberi [...]. Occorre sapere che Guerra è comune a tutte le cose, e che giustizia è contesa e che tutto nasce secondo contesa e necessità." La stessa giustizia, afferma, esiste perché esiste la contesa, ossia la guerra, e giunge a identificare con il dio stesso la legge dell'opposizione: "Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame."
    Secoli dopo, Hegel, che riprende molti dei concetti di Eraclito, ripensandoli e riformulandoli su un altro piano e in un'altra ottica, considera la guerra come un asse portante della storia e afferma che, in un certo senso, nei momenti in cui non c'è guerra la storia ha pagine bianche. Si ispirano forse a lui i tanti libri che riducono la storia degli uomini a storia di guerre. Senza dubbio non si può negare che le guerre mondiali, con tutte le loro implicazioni e conseguenze, siano un denominatore comune che unisce l'umanità; ma la unisce, come giustamente sottolinea Edgar Morin, "nella morte".
    D'altro canto, ben prima di Morin o di Hegel, Socrate formulava con il suo pensiero e metteva in atto con l'esempio della sua vita quella che si può chiamare a buon diritto "rivoluzione della non-violenza".
    All'amico Critone, che lo invitava a fuggire dal carcere corrompendo il custode, Socrate risponde: "Non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano, oppure persuaderle in che consista la giustizia; invece fare uso di violenza non è cosa santa né nei confronti del padre, né nei confronti della madre, né tanto meno nei confronti della Patria."
    Non si deve infatti, spiegava, mai commettere ingiustizia, neppure restituendola quando la si subisce; e quindi non si deve mai fare del male in nessun modo: "Dunque, né bisogna restituire ingiustizia, né bisogna fare del male a nessuno degli uomini, neppure se, per opera loro, si subisca qualsiasi cosa."
    E che, alle parole di Socrate, corrispondesse la sua vita, ce lo conferma Senofonte: "Socrate preferì rimanere fedele alle leggi e morire, invece di vivere facendo violenza."
    Il vero vincere, per Socrate consisteva nel convincere. E va ricordato qui che la rivoluzione della non-violenza messa in atto da. Martin Luther King a favore dei neri in America si fondava soprattutto sui testi evangelici, ma si richiamava anche al Critone. Nei confronti di Socrate si può davvero dire con Kierkegaard: "I filosofi hanno molti pensieri, i quali valgono tutti fino a un certo punto. Socrate ne ha uno solo, ma assoluto."
    L'autore dei Dialoghi che si richiamano a Socrate, Platone, fa propria la tesi socratica, e in un certo senso la amplifica. Nel Gorgia scrive: "Bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia più che dal riceverla; l'uomo deve preoccuparsi non di appari. re, ma di essere buono, e in privato e in pubblico."
    E nei confronti di chi commette ingiustizia, come ci si deve comportare?
    "Il più grande dei mali è l'ingiustizia per colui che la commette; e male ancora più grande di questo che pure è grandissimo –se mai è possibile – è che chi ha commesso ingiustizia non sconti la pena I...] E se qualcuno commette qualche ingiustizia, lo si deve punire; questo è il bene che viene secondo dopo l'essere giusto: diventare giusto scontando la pena e subendo il castigo."
    La conclusione che Platone trae da questo suo discorso è veramente sconvolgente in bocca a un pagano: "E lascia pure che qualcuno ti disprezzi come un folle, e che ti offenda, se vuole. E sì, per Zeus, lascia pure, restando impavido, che ti colpisca con quello schiaffo ignominioso, perché, se sarai veramente onesto e buono ed eserciterai la virtù, non potrai patire nulla di terribile."
    Di fronte a queste parole si ha, di primo acchito, l'impressione che si sia raggiunto un vertice assoluto, oltre il quale non sembrerebbe plausibile possa essercene un altro.
    Noi, che conosciamo la rivoluzione dell'agape cristiana, dell'amore donativo, sappiamo che non è così. La rivoluzione socratico-platonica della non-violenza si basa sul puro Logos, deriva dalla pura ragione dell'uomo. Quella cristiana dell'amore donativo deriva da una divina rivelazione e si fonda sulla fede, che eleva il valore dell'uomo al grado supremo.
    Si può dire a buon diritto che questa è la rivoluzione di tutte le rivoluzioni, e quindi la più difficile da comprendere, da fare propria e applicare. Per i Greci l'amore era Eros, forza che, applicata nel giusto modo, può elevare l'uomo al grado più alto. Ma Eros può farlo soltanto in funzione dell'oggetto di cui è amore: quanto più grande è l'oggetto, tanto maggiore è l'amore. In altri termini, l'amore greco diventa sempre più grande in proporzione alla grandezza dell'oggetto di cui è amore, ma se l'oggetto è piccolo, piccolo resta anche l'amore.
    "È questo il momento della vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un uomo" scrive Platone, giunto al quinto e supremo gradino della sua celebre metafora della scala d'amore "quando egli contempla il Bello in sé. [...] Che cosa dunque noi dovremo pensare se a uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non mescolato, non contaminato da carni umane e da colori e da altre sciocchezze umane, ma potesse contemplare nella sua forma unica il Bello divino? Consideri una vita da poco quella di un uomo che guardasse là e che contemplasse quel Bello con ciò con cui'si deve contemplare e rimanesse unito a esso? Non pensi piuttosto che, lì solo, guardando la bellezza con ciò con cui è visibile, costui partorirà non già immagini di virtù, dal momento che non si acco. sta a un'immagine di bello, ma partorirà virtù vere, dal momento che si accosta al Bello vero? E non credi che, generan-' do e coltivando virtù vera, sarà caro agli dèi, e sarà, se mai un altro uomo lo fu, egli pure immortale?"
    Nella sua straordinaria efficacia poetica questo testo ci guida a comprendere il rapporto fra la grandezza dell'amore e il suo oggetto, qui rappresentato come la Bellezza assoluta, che in Platone coincide con il Bene, nella sua purezza e nella sua trascendenza.
    Ma l'agape cristiana ne costituisce un radicale capovolgimento, alla cui comprensione può introdurci un richiamo alla famosa domanda di Dostoevskij: "Quale bellezza salverà il mondo?". La risposta ci viene da Isaia: "Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima".
    Per salvare gli uomini e insegnare loro il vero amore, Dio si è abbassato fino a loro, e proprio in questo abbassamento ha offerto l'agape, l'amore assoluto, che anziché acquisitivo al più alto grado è donativo al più alto grado, instaurando un rapporto inversamente proporzionale, nei confronti del concetto platonico, fra chi ama e la cosa amata.
    L'amore assoluto coincide con l'abbassamento assoluto: Dio si è abbassato in Cristo al punto che anche il più misero degli uomini può essere certo dí essere amato da lui. È dunque questa la Bellezza nel fulgore massimo che sola può salvare in senso totale.
    Per chiudere compiutamente come in un circolo il nostro discorso, riassumiamone i punti fondamentali.
    La prima rivoluzione non solo non risolve i problemi degli uomini, ma li moltiplica.
    La seconda offre molti vantaggi, ma incontra innumerevoli ostacoli che non riesce a superare, soprattutto quegli ostacoli provenienti dalla malvagità che continuamente rinasce nei cuori degli uomini, mentre la forza in grado di vincere la malvagità può essere certamente la persuasione, ma solo in parte assai limitata.
    La forza veramente dirompente appartiene alla terza rivoluzione, la rivoluzione cristiana: è l'amore, e non quello acquisitivo, bensì quello donativo.
    Non sembra vi sia modo migliore per chiudere che citare questo messaggio di Agostino dal Commento alla prima Lettera di Giovanni, la lettera sull'amore:
    "Le azioni degli uomini non si distinguono se non dalla radice dell'amore. Infatti possono succedere molte cose che in apparenza sono buone, ma che non derivano dalla radice dell'amore. I fiori hanno anche delle spine. Alcune cose, in verità, sembrano aspre e crudeli, ma esse hanno come fine la disciplina e sono dettate dall'amore. Dunque, una volta per tutte ti viene proposto un breve precetto: ama e fa'quello che vuoi. Se tu taci, taci per amore; se tu parli, parla per amore; se tu correggi, correggi per amore; se tu perdoni, perdona per amore. Sia in te la radice dell'amore; da questa radice non può derivare se non il bene."

    (Da: Valori dimenticati dell'Occidente, Bompiani 2006, pp. 11-17; 59-64)


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