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    Il senso della vita

    Emerich Coreth

     

    Una via a quello che significa Dio può offrirlo la domanda sul senso della vita, una domanda oggi assai attuale: questa vita ha un senso? La vita può essere determinata dalla libertà, certo una libertà condizionata e limitata, ma pur sempre in grado di prendere decisioni e di essere responsabile. Ma la libertà ha un senso? Siamo "liberati" alla libertà o "condannati" (Jean-Paul Sartre) ad essa, condannati a quella "esistenza assurda" votata al naufragio e alla morte e in ultimo alla mancanza di senso?

    SENSO E FINE

    Si dice che la domanda sul senso della vita sia un'«eterna domanda dell'uomo». Ciò è giusto nella misura in cui questa domanda sta alla base di altre. Espressamente essa è stata posta, però, soltanto in tempi recenti. Nella tradizione filosofica non si trova mai questa domanda e nemmeno una volta troviamo il concetto equivalente a ciò che comprendiamo sotto il termine "senso".
    Chi si è avvicinato di più ad essa è Aristotele. L'espressione hu héneka, "per quale ragione" o "per quale motivo", indica in lui il télos, inteso come il fine di un'azione o di un movimento. Il fine dell'agire etico dell'uomo è, per l'intero pensiero greco, la felicità o la vita buona (eudaimonía), intesa come il compimento o la riuscita nell'agire del bene, dunque una felicità immanente. Considerate però le manchevolezze e le debolezze dell'uomo, questa condizione è pienamente raggiungibile? L'idea della felicità e della beatitudine (beatitudo) entra nel pensiero cristiano, ma con la consapevolezza che in questa vita non potremo mai raggiungere una piena felicità. Nella fede essa viene superata da un appagamento trascendente nella vita eterna che si realizza non soltanto con le proprie azioni, ma implica l'agire di Dio.
    Anche nelle fonti della fede cristiana la domanda sul senso non è espressamente posta. Alcune affermazioni della Scrittura danno però certamente una risposta ad essa, come le parole di Gesù: «Io sono la luce del mondo», «la luce della vita» (Gv 8,12), oppure «Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 14,6). L'intero annunzio di salvezza e di vita eterna è una risposta alla nostra domanda sul senso e ciò che noi intendiamo con "senso" corrisponde profondamente alla parola biblica "salvezza". La questione del senso diviene così quella della salvezza eterna nel compimento realizzato da Dio.
    Nella riflessione teologica la questione del senso appare, o si nasconde, ancora una volta nella questione del fine – il télos aristotelico (in latino finis) – della creazione, così come della nostra vita e delle nostre azioni individuali. In siffatta maniera, essa si ritrova in Tommaso d'Aquino come dottrina del finis ultimus in Dio, del summum bonum, cioè del fine ultimo o, come noi oggi diremmo, dell'adempimento ultimo di senso.
    Anche grandi pensatori moderni stanno interamente all'interno di questa tradizione. Kant non s'interroga sul senso della vita, ma sul «fine ultimo della creazione» che può consistere soltanto nell'uomo, il quale in quanto persona è «fine a se stesso» e non può essere «considerato soltanto come mezzo». Il "sommo bene" (summum bonum) è la perfezione e la felicità della libera personalità morale. In modo simile per Hegel il "fine ultimo" della storia è il dispiegamento e la realizzazione della libertà, cioè della vera libertà che coincide con l'eticità.
    Se nella tradizione la questione del senso coincide per lo più con il fine del mondo e della vita umana, è anche vero che senso e fine non sono identici. Il termine "senso" ha nel nostro linguaggio, ma anche in altri linguaggi, diversi significati. Il significato fondamentale sembra essere quello della direzione di un movimento. Noi diciamo "in senso orario"; in italiano si chiama "senso unico" (in italiano nel testo, ndr) la strada con una sola direzione. Il senso di un movimento o di un'azione è dunque la sua direzione, il "verso dove", il fine, ma il senso di un'azione non è il fine in se stesso (finis qui): esso, in quanto immanente all'azione stessa (finis quo), è ciò che orienta quest'ultima al fine a cui si aspira o che si vuole raggiungere; è questo che la rende un'azione sensata. Il fine ultimo diviene così il senso della vita, se questa è orientata al fine e in esso trova il suo "senso".

    LA QUESTIONE DEL SENSO OGGI

    La questione del senso nel nostro tempo è divenuta, soprattutto in questi ultimi anni, oggetto di riflessione filosofica. Ci si interroga però, nella maggior parte dei casi, non su ciò che è chiaro e univoco, ma su ciò che è insicuro e quindi dubbio. Fin tanto che l'uomo si sa al sicuro nel proprio mondo, nelle norme e nei valori della vita che sono chiari, guidato dalla fede religiosa, egli non si interroga sul senso della vita. Nel momento in cui questa sicurezza viene meno e la fede comune perde la sua capacità di dare senso, si pone al singolo la questione di dove egli stia e di dove vada, di quale sia il senso della sua vita.
    Questo interrogativo si pone in modo urgente soprattutto nel nostro tempo dove sono venute meno alcune ideologie che volevano dare un senso alla vita. A partire dall'illuminismo è stata dominante la fede nel progresso della scienza e della tecnica, il solo capace dí risolvere tutti i problemi, di rendere felice l'umanità e di creare un paradiso in terra. Certamente questo progresso procede sempre in avanti, in modo assai più veloce e impetuoso, ma anche assai più pericoloso. Bisogna riconoscere che il solo progresso materiale urta oramai contro dei limiti, che esso non risolve i problemi autenticamente umani e che anzi, come si è già detto, provoca un'infinità di nuovi problemi su scala mondiale.
    Tutto questo ha come conseguenza che l'ottimismo ingenuo della fede nel progresso cede sempre più il posto ad un pessimismo critico che dà luogo ad una grave crisi di senso: perché tutto questo? Dove porta? Tutto quello che accade nel nostro tempo, con le sue conquiste, ha in assoluto un senso? Gli uomini divengono con ciò migliori, più felici, più umani? Oppure non ha luogo una caduta di quei valori che permettono alla vita individuale e collettiva di sostenersi e di essere sensata? E la mia vita personale ha un senso? La progressiva perdita del senso porta alla fuga nella mancanza di senso. La seduzione dei beni materiali e degli stimoli esteriori soffoca qualsiasi domanda di senso, e addirittura la sopprime con la fuga nelle droghe, nel terrorismo, nel suicidio...
    Sull'altro versante anche l'utopia del marxismo è crollata. Karl Marx ha rifiutato la domanda sul senso come un pregiudizio borghese, almeno quella sul senso della vita personale. Egli, invece, voleva conferire senso alla vita collettiva con la fede nella futura società perfetta, senza classi, in cui tutte le ingiustizie sarebbero state superate, tutte le alienazioni sanate, assicurate a tutti gli uomini pace e felicità. Questa promessa ha portato con il comunismo alla dittatura del terrore, contraddicendo se stessa. Essa è così naufragata con quest'utopia.
    Anche il neomarxismo, che esercitò un forte influsso in forme apparentemente più umane nell'Occidente "libero", si è tramutato in una forma di terrore; il 1968, con le sue conseguenze, lo testimonia. Anch'esso è da lungo tempo tramontato e la Scuola di Francoforte, per esempio, è oramai scomparsa. Tutto questo ha lasciato dietro di sé un vuoto in cui la domanda sul senso della vita viene di nuovo risvegliata.

    IL SINGOLO NEL TUTTO

    Il senso significa originariamente la direzione di un'azione o il movimento verso un fine. Da qui si evincono molti significati della parola "senso". In particolare è fondamentale per il senso sia teoretico che pratico la direzionalità, il "verso dove".
    Il significato teoretico o semantico consiste nel fatto che qualcosa (un segno, una parola, una proposizione) rimanda a qualcos'altro: questo è il senso. Esso sta alla base anche del significato pratico: un movimento, un'azione o un'istituzione hanno un senso se sono conformi al loro fine e mirano ad esso, dunque se corrispondono alla direzione e al motivo che li ispira, cioè se corrispondono ad un fine.
    Per la comprensione del senso è importante la relazione reciproca fra singolo e Tutto. Essa venne riconosciuta per prima nel caso della comprensione storica. Il principio per il quale «ciò che è singolo è da comprendere nel Tutto e il Tutto è da comprendere a partire da ciò che è singolo» (Johann Gustav Droysen, 1868), entrò nella teoria delle scienze dello spirito (Wilhelm Dilthey), nel "circolo ermeneutico" del comprendere (Martin Heidegger) e nell'ermeneutica recente (Hans Georg Gadamer e altri).
    Esso mostra che non possiamo concepire un senso isolatamente, ma soltanto in una totalità, in un contesto a partire dal quale il senso di ciò che è singolare si rivela pienamente. Il senso della singola parola viene rettamente compreso soltanto all'interno della proposizione. La singola proposizione manifesta il suo senso pieno soltanto nel contesto del discorso, sia orale che scritto. Conosciamo il pericolo dei fraintendimenti quando qualcosa viene "estrapolato dal contesto".
    La totalità di senso può essere anche la totalità pratica di un'azione, quel «complesso di circostanze» (Heidegger) a partire dal quale comprendiamo le singole azioni, gli oggetti manipolabili e gli strumenti come sensati, cioè conformi ad un fine. Il contesto immediato, sia esso teoretico o pratico, rimanda oltre sé ad una totalità più grande di fini ulteriori, un po' come nella nostra professione, e infine alla totalità della nostra vita. Ciò che è singolo trova nel Tutto il suo senso soltanto se il Tutto che lo abbraccia corrisponde a ciò che è singolo. A partire da qui arriviamo alla questione del senso della totalità della nostra vita, nella quale le singole azioni acquistano il loro pieno significato.
    Nonostante questo anche ciò che è singolo ha un senso che s'inserisce nel progetto complessivo della vita e che ha da essere concretamente realizzato. Così, certe singole azioni possono ben contribuire a dare senso: ha senso aspirare alla conoscenza della verità, ha senso fare qualcosa di utile e adempiere a doveri e compiti. Tanto più ha senso essere vicino ad altri uomini, aiutarli e servirli, essere buoni e fare il bene. L'autentica autorealizzazione non avviene mai in modo puramente immanente, rapportandomi solo a me stesso, ma sempre in modo trascendente oppure (formulato in modo neutro) transitivo nell'altro e attraverso l'altro. Ma l'altro è in primo luogo "I'"Altro, cioè l'altro uomo. Se io sono presente all'altro "per suo volere», per servirlo, per preoccuparmi di sostenerlo, allora qui ha luogo un'autentica realizzazione di me stesso e questo è qualcosa di sensato. Tutto quello che noi facciamo di buono aspirando alla realizzazione di valori autentici ha un senso e dà alla vita, in ogni dimensione particolare, un senso.

    IL SENSO DEL TUTTO

    Nonostante questo rimane la questione se il Tutto abbia un senso. Secondo il principio per il quale ciò che è singolare è contenuto nel tutto, una simile questione non soltanto oltrepassa il senso delle singole azioni, ma anche il nesso fra le particolari unità di senso. Essa investe l'universale totalità di senso della vita. Il Tutto ha un senso che sostiene e abbraccia il senso delle singole azioni?
    Qui ci troviamo di fronte allo strano fenomeno per il quale l'uomo ha evidentemente bisogno di un senso che dia fondamento e direzione alla sua vita, di un'origine e di una mèta a partire dai quali tutto ciò che è singolare acquisti il suo senso. Detto in termini più concreti: se l'uomo non conosce o non riconosce Dio come fondamento di senso ultimo della sua esistenza, egli rende assoluto qualcos'altro. Si arriva, così, al fenomeno dei "surrogati della religione" e delle "religioni-surrogato" che si spinge fino all'adorazione cultuale, per esemplo, di un idolo politico, ideologico o puramente pratico. Può essere un qualsiasi valore puramente immanente che s'impone come veicolo assoluto di senso della vita: il successo personale, il possesso di beni materiali e il guadagno, l'onore e il potere oppure il semplice godimento della vita. A questo fine tutto il resto viene subordinato e sacrificato. Tutto questo sembra dunque corrispondere ad un bisogno originario dell'uomo, appunto il bisogno di un veicolo di senso della vita. Se non lo si trova in Dio o negli dèi, allora si sta in quel «vuoto esistenziale» (Victor Frankl) che è così caratteristico per gli uomini del nostro tempo e che porta alla disperazione e in alcuni casi al suicidio.
    Questo fenomeno mostra che l'uomo non può fare a meno di qualcosa di assolutamente valido, di un assoluto. Lo mostra il fatto che se qualcosa di relativo è posto come assoluto, un valore condizionato e limitato è posto come incondizionato e illimitato, allora esso diviene il veicolo di senso assoluto. Si pone però la questione, in questo modo, se il senso della vita sia assicurato anche nell'insuccesso, nel naufragio, nella sofferenza e nella morte.

    ESPERIENZE-LIMITE

    Noi abbiamo una notevole esperienza di ciò che mette in discussione il senso della vita. Possiamo parlare a tal proposito di esperienze-limite (Karl Jaspers). Ognuno di noi le conosce dal momento che fanno parte della vita umana. Tutto ciò che facciamo anche di buono e di sensato resta limitato, minacciato e caduco. La pretesa incondizionata del senso non basta.
    Quanto più aspiriamo alla conoscenza della verità, tanto più sperimentiamo la nostra ignoranza: «So di non sapere» (Socrate), un'esperienza che appartiene alla più profonda saggezza umana. Quanto più pretendiamo di fare il bene, tanto più facciamo esperienza della nostra inadeguatezza. Ad una pretesa infinita non possiamo mai corrispondere pienamente e anche l'«esistenza etica» (Kierkegaard) che si volge al dovere morale è destinata a naufragare di fronte all'infinità del compito. Di fronte a ciò che potremmo e dovremmo fare, pecchiamo sempre di omissione o per debolezza o per colpa. Tutto questo ha un senso all'interno del senso fondamentale della mia vita? E quando arriviamo alla fine della vita con le mani vuote, tutto questo era ciò che conferiva senso alla mia vita?
    La pretesa incondizionata e infinita di senso va oltre tutto ciò che noi possiamo fare per dare senso alla vita. Essa rimanda – a partire dalla trascendenza costitutiva dell'uomo – ad un'assoluta donazione di senso, all'attesa e alla speranza di un adempimento finale del senso di natura diversa.
    Centrale per il senso della vita è il problema della propria morte e della coscienza della morte che sta per venire. Essa appartiene alla vita. Noi, infatti, sappiamo di sicuro che moriremo, ma non sappiamo come e quando. Nella morte il senso della vita è annientato, cioè è annientato non soltanto il senso delle singole azioni, ma anche quello complessivo della mia vita? Oppure anche la morte ha a che fare positivamente con il senso della vita?
    Alla vita è posto un termine e noi andiamo incontro alla morte. Sappiamo, infatti, che la morte non è soltanto qualcosa che avverrà una volta nel futuro, ma qualcosa che segna tutta la nostra vita come «essere-per-la-morte», secondo l'interpretazione dell'esistenza umana data da Heidegger. La vita intera sarebbe inimmaginabile se non fosse segnata dalla morte futura. In quanto «essere-per-la-morte», la vita intera e tutto ciò che noi facciamo e soffriamo è contrassegnata dalla "provvisorietà", cioè dal fatto che "andiamo incontro" ad una fine. Niente rimane di definitivo, tutto è fugace e caduco, destinato a corrompersi.
    Nella morte la vita trova la propria fine. Una tale fine appare come il nulla, il nulla dell'esistenza in questo mondo. Tutto ciò a cui ho aspirato in questa vita, che ho sperimentato, fatto o sofferto cade nel nulla. E tutto ciò che sono divenuto con questo sembra sprofondare nell'abisso del nulla. Non lo posso trasmettere conservandolo e assicurandolo al futuro. Anche se io continuo a vivere nelle opere e nel ricordo degli altri – così alcuni si consolano – non sono "io" a vivere ancora, come quell'io di cui ho avuto esperienza cosciente. Così, con la morte il senso della vita intera sembra essere annientato e cadere nella mancanza di senso definitiva.
    Ma dobbiamo porre una contro-domanda: nella morte il senso della vita viene eliminato e distrutto o forse viene preservato e assicurato? Se non dovessimo morire, questa vita si svilupperebbe senza fine. Una cosa poco immaginabile, ma sicuramente inquietante, orribile. Non sarebbe proprio allora, infatti, che la vita sprofonderebbe nella vuota mancanza di senso, nel nulla? Tutto sarebbe indifferente, ripetibile e annullabile senza fine, non avrebbe né un fine, né un senso. Soltanto con la morte è posto al tutto una fine e così è affermata la sua insuperabile definitività.
    Finché viviamo ci è concesso tempo e il tempo esiste soltanto dove qualcosa accade, si muove e si trasforma. Finché viviamo ci trasformiamo, possiamo imparare dall'esperienza a migliorarci e ad affinarci, a crescere e maturare dal punto di vista umano. Per questo ci è concesso tempo, e finché viviamo nulla è definitivo e tutte le possibilità sono aperte.
    Ma con la morte la vita è giunta alla fine. Ogni trasformazione e mutamento finisce e la vita intera ha raggiunto la sua forma definitiva. Come sono arrivato a questo, perché l'ho fatto, questo è ormai – o era – la mia vita, singolare e irripetibile. Con ciò l'intera vita ha ricevuto il suggello per mezzo della morte, il suo senso definitivo, oppure non ha ricevuto alcun senso? Sta a noi stessi deciderlo.
    Da qui ne risulta per il senso della vita una singolare tensione o una dialettica fra la vita e la morte. La morte futura pone una fine alla vita e la mostra come un'esistenza provvisoria di cui sembra annientare il senso. Proprio con ciò, tuttavia, essa concede all'esistenza provvisoria il suo senso definitivo. L'esistenza diviene definitiva soltanto come provvisoria. Viene stabilita in modo incondizionato, considerata come qualcosa di autentico e di definitivo e in questo modo perde nella morte il suo senso e cade nel niente. Ma se è accettata come esistenza provvisoria che ha una fine, allora proprio in questa essa realizza il proprio senso definitivo. Qui si mostra già la presenza dell'incondizionato nel condizionato come segno distintivo della trascendenza (torneremo più avanti su questo punto). Proprio in questa vita condizionata dalle stupidaggini di tutti i giorni, ma assunta in incondizionata responsabilità e limitata dalla morte, sí realizza un senso cha ha una validità incondizionata e dunque definitiva che sopravvive alla morte.
    La questione del senso rimanda così alla trascendenza costitutiva dell'uomo. La vita ha sicuramente in tutto quello che facciamo un senso immanente che la morte mostra nel suo complesso come provvisorio. Esso deve tramontare perché nel provvisorio risplenda il definitivo e sia realizzato il valore incondizionato come senso trascendente. Soltanto attraverso il nulla della morte la vita riceve il suggello del senso definitivo e insuperabile. Soltanto così la vita intera riceve un senso che permarrà valido, cioè precorrendo il suo compimento definitivo [1].
    Kant riconosce quest'aspetto nei postulati della ragione pratica: il libero agire morale esige l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio, in quanto questi è l'unico a poter assicurare il "sommo bene", la perfezione e la felicità. Libertà, immortalità ed esistenza di Dio, secondo Kant, non possono essere dimostrati teoreticamente, ma soltanto postulati praticamente, sebbene a partire da una conoscenza "razionale" per la quale la vita e l'aspirazione morale dell'uomo può raggiungere il suo fine ultimo soltanto grazie ad essi. Senza questa attesa la vita nel suo complesso, malgrado le sue singole prestazioni dotate di senso, sarebbe insensata; cadrebbe nella morte della mancanza di senso. Questa vita, però, non è quella autentica e definitiva dell'uomo, essendo provvisoria e limitata. Quella autentica e definitiva verrà soltanto grazie ad un pieno adempimento di senso di altra natura.
    Tutto questo presuppone una sopravvivenza dopo la morte. Non vogliamo qui trattare della "immortalità" o della indistruttibilità dell'anima spirituale umana. Essa presuppone la trascendenza dello spirito e questa consiste nella infinità virtuale dello spirito finito che per sua natura aspira all'assoluto, all'incondizionato e all'infinito. Questo si mostra nella realizzazione spirituale di sé ed esige un adempimento di senso definitivo che supera la vita in questo mondo e che può essere atteso soltanto da un Dio infinito. La questione del senso può trovare soltanto in Dio la sua risposta ultima. Soltanto Dio può dare un senso pieno alla nostra esistenza. Soltanto chi crede in Dio e nel compimento di cui egli è autore, possiede una risposta ultima alla questione sul senso della vita. Dio soltanto è questa risposta.

    IL SENSO DELLA STORIA

    Questo vale anche per la storia. Nel suo complesso, essa ha un senso? E dove si trova? Lo si può vedere nel progresso: nel progresso della ragione (illuminismo), nel progresso della libertà (Hegel), nel progresso verso una società senza classi e non violenta (Marx). Ma nella storia non c'è soltanto progresso; ci sono anche ricadute e declini e nella maggior parte dei casi il progresso in un certo àmbito è acquistato al prezzo di una perdita e di una decadenza in altri àmbiti. Così, oggi sperimentiamo nel gigantesco progresso della tecnica un'enorme decadenza della cultura in tutti i suoi àmbiti, come mai forse vi è stata finora nella storia. E anche se il progresso dovesse condurre ad un futuro migliore e addirittura, secondo un'immagine utopica, al futuro di un'umanità compiutamente realizzata, comunque non vi sarebbe alcun senso e alcuna giustificazione per tutte le assurdità del passato, per le ingiustizie, le violenze, le crudeltà, le sofferenze e le morti inutili. Tutto questo non viene sanato e rimosso in un secondo tempo da un futuro migliore.
    Allo storico Leopold von Ranke risale il famoso detto: «La storia universale è il giudizio universale». Sicuramente alcune ingiustizie ricevono la loro punizione con le conseguenze stesse a cui danno luogo, ma la storia universale non è il giudizio universale definitivo. Essa non apporta un pareggio della giustizia. In che cosa è di ausilio un futuro migliore alle vittime del passato? Forse che sana la sofferenza e la morte, riscatta il sangue e le lacrime inutilmente versate? No, il futuro non sana il passato. Lo stesso Max Horkheimer, il fondatore della Scuola di Francoforte (del neomarxismo), verso la fine della vita ha parlato di una «nostalgia del totalmente altro», cioè della «speranza che nell'ingiustizia presente che segna il mondo, una tale ingiustizia non abbia l'ultima parola, che l'assassino non trionfi alla fine sulla sua vittima». È appunto la speranza di un compimento «totalmente altro».
    Non soltanto la vita umana nella sua singolarità, ma anche l'intera storia universale trova dunque il suo senso autentico e definitivo non in se stessa, ma in un futuro realizzato pienamente soltanto da Dio. Ne risulta, certamente per la fede cristiana, ma anche per motivi filosofici, che la questione sul senso ultimo della vita e della storia non può trovare una risposta valida in altro modo. Tutte le altre risposte sono manchevoli e non riescono ad abbracciare la totalità del senso. Esse non conferiscono un senso definitivo a tutto quello che si svolge nella vita, nella sofferenza, nella morte e anche nella storia così terribile dell'umanità. No, la vita in fondo non ha alcun senso se fosse soltanto la vita che si svolge sulla terra e la storia non avrebbe in fondo alcun senso se fosse soltanto la storia dell'umanità in questo mondo. L'uomo è trascendente e soltanto nella trascendenza divina trova il senso autentico e definitivo della sua esistenza.
    In questo modo, a dispetto di quanto si obietta frequentemente, la vita non è svalutata, non è sminuita per mezzo della consolazione che viene da un al di là migliore. Al contrario: proprio la fede in un'altra vita, quella definitiva, conferisce a quest'esistenza provvisoria nel mondo il suo autentico valore, perfino il suo valore di eternità, il suo peso infinito, ma con ciò anche la sua responsabilità incondizionata e insopprimibile. Questa vita non è ancora la vita umana autentica e definitiva, è soltanto provvisoria, anche se è decisiva per quella a venire nella quale sarà "superata", cioè conservata e tolta. Questa soltanto sarà la vita autentica e definitiva, eternamente perfezionata da colui che ha promesso «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 21,1): «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
    La questione del senso della vita e della storia può così offrire un accesso a Dio. Non si tratta di una prova dell'esistenza di Dio, e nemmeno di una controprova, come se Dio fosse soltanto la proiezione di desideri umani. Perché l'uomo s'interroga su un senso ultimo da cui scaturisce il bisogno spontaneo di Dio, di credere in lui, di affidarsi a lui e di potersi aspettare da lui il compimento finale? La risposta sta nella trascendenza costitutiva dell'uomo, sul cui fondamento e sulla cui specificità dobbiamo ora interrogarci.

    NOTE

    1 L'Autore mette in relazione, con un gioco di parole intraducibile in italiano, i termini vor-laufen, correre avanti, precorrere, e end-gültig, finale, definitivo [ndt].

    (Fonte: Dio nel pensiero filosofico, Queriniana 2004, pp. 373-385)


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