Attesi dal suo amore
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    Amore implicito

    e amore esplicito

    Simone Weil


    P
    ersino il cattolico di osservanza più stretta non oserebbe affermare che la compassione, la gratitudine, l'amore della bellezza del mondo, l'amore delle pratiche religiose, l'amicizia siano monopolio dei secoli e dei Paesi in cui è stata presente la Chiesa cattolica. Questi amori, nella loro purezza, sono rari ma è anche difficile affermare che siano stati più frequenti in questi secoli e in questi Paesi, rispetto ad altri. Credere poi che possano prodursi là dove il Cristo è assente, significa diminuire il Cristo fino al punto da oltraggiarlo; è un'empietà, quasi un sacrilegio.

    Questi amori sono soprannaturali; in un certo senso sono assurdi. Sono folli. Per tutto il tempo in cui l'anima non ha avuto contatto diretto con la persona stessa di Dio, essi non possono poggiare su alcuna conoscenza, sia essa fondata sull'esperienza o sul ragionamento. Non possono dunque poggiare su alcuna certezza, a meno di impiegare questa parola in senso metaforico, per designare il contrario dell'esitazione. Di conseguenza è preferibile che non siano accompagnati da alcuna credenza. Ciò è intellettualmente più onesto e preserva meglio la purezza dell'amore. È, in ogni caso, più conveniente. La credenza non conviene a tutto ciò che riguarda le cose divine. Solo la certezza conviene. Tutto ciò che è meno della certezza, è indegno di Dio.
    Durante il periodo preparatorio, questi amori indiretti costituiscono un movimento ascendente dell'anima, uno sguardo rivolto – con qualche sforzo – verso l'alto. Dopo che Dio è venuto di persona, non soltanto a visitare l'anima, come fa da sempre, ma a impadronirsi di essa, a trasportarne il centro presso di sé, accade qualcosa di diverso. Il pulcino ha forato il guscio, è fuori dall'uovo del mondo. I primi amori resistono, sono più intensi di prima, ma sono diventati altri. Chi ha subìto questa avventura, ama più di prima sia gli sventurati che coloro che lo soccorrono nella sventura, gli amici, le pratiche religiose, la bellezza del mondo. Ma questi amori sono diventati un movimento discendente, come l'amore stesso di Dio, un raggio confuso nella luce di Dio. O almeno, questo possiamo supporre.
    Gli amori indiretti sono soltanto l'atteggiamento verso gli esseri e le cose di quaggiù vissuto da un'anima orientata verso il bene. Non hanno, a loro volta, un bene quale oggetto. Non vi sono beni quaggiù. Di conseguenza non si dovrebbe parlare propriamente di amori. Si tratta di atteggiamenti amorosi.

    L'amore di quaggiù

    Nel periodo preparatorio, l'anima ama a vuoto. Ella non sa se qualcosa di reale risponde al suo amore. Può credere di saperlo. Ma credere non è sapere. Tale credenza non aiuta. L'anima sa soltanto, e in maniera certa, di avere fame. L'importante è che essa urli la sua fame. Un bambino non smette di gridare, anche se gli si fa supporre che forse non c'è più pane. Grida comunque.
    Il pericolo non è che l'anima dubiti se vi sia o non vi sia del pane, ma che si lasci persuadere di non avere più fame, grazie a una menzogna. Solo una menzogna può persuaderla, poiché la realtà della sua fame non è una credenza, ma una certezza.
    Sappiamo tutti che, quaggiù, non ci sono beni; che tutto quel che qui appare come un bene è finito, limitato, si conclude e, una volta concluso, lascia apparire la nuda necessità. Ogni essere umano ha verosimilmente avuto, nella sua vita, molti istanti in cui ha confessato a se stesso con chiarezza che quaggiù non vi è alcun bene. Ma dal momento in cui si è veduta questa verità, la si copre di menzogna. Molti, poi, si compiacciono nel conclamarla, cercando nella tristezza una gioia morbosa, che non possono sopportare di guardare in faccia per più di un istante. Gli uomini sentono che vi è un pericolo mortale nel guardare in faccia questa verità a lungo. Ed è vero. Questa conoscenza è più mortifera di una spada; infligge una morte che fa più paura della morte fisica. Con il tempo, essa uccide in noi tutto ciò che chiamiamo 'io'. Per sostenerla, occorre amare la verità più della vita. Coloro che sono così, secondo l'espressione di Platone, si distaccano con tutta l'anima da ciò che è transitorio.
    Non si volgono verso Dio. Come potrebbero, quando si trovano in totale tenebra? Dio stesso imprime loro il conveniente orientamento. Ma non si mostra a essi prima che passi molto tempo. Tocca a loro restare immobili, senza distogliere lo sguardo, senza smettere di ascoltare; tocca a loro attendere non si sa cosa, sordi alle sollecitazioni e alle minacce, granitici di fronte aglichoc. Se Dio, dopo una lunga attesa, lascia vagamente presentire la sua luce o, persino, si rivela di persona, non è che per un istante. Di nuovo si tratta di rimanere immobili, attenti, e attendere senza tentennare, chiamando solamente quando troppo forte è il desiderio.

    L'attesa e la notte

    Non dipende da un'anima credere alla realtà di Dio, se Dio non rivela questa realtà. O essa mette il nome di Dio come un'etichetta su qualche altra cosa – e si tratta di idolatria; o la credenza in Dio rimane astratta e verbale. È così nei Paesi e nelle epoche in cui mettere in dubbio il dogma religioso non viene neppure in mente. Lo stato di non-credenza è allora ciò che san Giovanni della Croce chiama 'notte'. La credenza è verbale e non penetra nell'anima. In un'epoca come la nostra, l'incredulità può essere l'equivalente della notte oscura di san Giovanni della Croce, se l'incredulo ama Dio, se è come il bambino che non sa che da qualche parte vi è del pane, e che pure grida la sua fame.
    Quando si mangia del pane e anche quando se ne è mangiato, si sa che il pane è reale. Si può tuttavia mettere in dubbio la realtà del pane. I filosofi mettono in dubbio la realtà del mondo sensibile. Ma è un dubbio puramente verbale, che non intacca la certezza, che la rende anzi più manifesta per uno spirito ben orientato. Allo stesso modo, colui al quale Dio ha rivelato la sua realtà, può metterla in dubbio, senza alcun inconveniente. È un dubbio puramente verbale, un esercizio utile alla salute dell'intelligenza. Ciò che invece è davvero un crimine di tradimento, anche prima di tale rivelazione, ma molto di più dopo, è mettere in dubbio che Dio sia la sola cosa che merita di essere amata. Significa distogliere lo sguardo. L'amore è lo sguardo dell'anima. Significa smettere per un istante di attendere e ascoltare.
    Elettra non cerca Oreste, lo attende. Quando crede che egli non esista più, che in nessuna parte del mondo esista alcuna cosa che sia ancora Oreste, ella non si avvicina ai suoi compagni. Anzi, se ne allontana con maggior repulsione. Ama più l'assenza di Oreste che la presenza di chi è altro da lui. Oreste doveva liberarla dalla sua schiavitù, dagli abiti e dal lavoro servili, dalla miseria, dalla fame, dai colpi e da innumerevoli umiliazioni. Ora ella non spera più tutto questo. Ma non pensa nemmeno per un istante a utilizzare altri procedimenti per ottenere una vita lussuosa e onorata, procedimenti di riconciliazione con i più forti. Non vuole ottenere abbondanza e considerazione se non attraverso Oreste. Non accordaa queste cose neppure un pensiero. Tutto ciò che desidera è non esistere, dal momento che Oreste non esiste.
    A questo punto Oreste non si trattiene più. Non può impedirsi di dire il proprio nome. Offre la prova certa di essere Oreste. Elettra lo vede, lo sente, lo tocca. Non si chiederà più se il suo salvatore esiste.

    La pura e insensibile bellezza di Dio

    Colui al quale è accaduta la medesima avventura di Elettra, colui che ha visto, sentito, toccato con la sua stessa anima, questi riconosce in Dio la realtà di quegli amori indiretti che erano come dei riflessi. Dio è la pura bellezza. Questo è incomprensibile, poiché la bellezza è sensibile per essenza. Parlare di una bellezza non sensibile sembra un abuso di linguaggio per chiunque abbia nel proprio spirito un'esigenza di rigore. La bellezza è sempre un miracolo. Ma vi è un miracolo al quadrato quando un'anima riceve un'impressione di bellezza non sensibile, quando non si tratti di un'astrazione, ma di un'impressione reale e diretta quale quella prodotta da un canto nel momento in cui si fa sentire. Tutto accade come se, per effetto di un favore miracoloso, si fosse reso manifesto alla sensibilità stessa il fatto che il silenzio non è assenza di suoni, ma qualcosa di infinitamente più reale degli stessi suoni, sede di un'armonia più perfetta della più bella che i suoni possano, nella loro combinazione, produrre. E, ancora: vi sono dei gradi nel silenzio. Vi è un silenzio nella bellezza dell'universo che è come un fruscìo, in rapporto al silenzio di Dio.
    Dio è anche il vero prossimo. Il termine di persona non si applica propriamente se non a Dio, e anche il termine impersonale. Dio è colui che si china su di noi, sventurati ridotti a non essere altro che un poco di carne inerte e sanguinante. Ma nello stesso tempo egli è anche quello sventurato che ci appare solo sotto l'aspetto di un corpo inanimato, dal quale sembra assente ogni pensiero; quello sventurato di cui nulla si conosce: né il rango, né il nome. Il corpo inanimato è questo universo creato. L'amore che dobbiamo a Dio, che sarebbe la nostra perfezione suprema se potessimo raggiungerlo, è il modello divino sia della gratitudine che della compassione.
    Dio è anche l'amico per eccellenza. Purché vi sia, tra lui e noi, attraverso la distanza infinita, qualche cosa come un'eguaglianza, egli ha voluto porre nelle creature un assoluto, la libertà assoluta di consentire o no all'orientamento che egli stesso ci imprime verso di lui. Ha anche esteso le nostre possibilità di errore e di menzogna fino a lasciarci la facoltà di dominare falsamente
    con l'immaginazione non solo l'universo e gli uomini, ma anche Dio stesso, al punto che non sappiamo fare buon uso di questo nome. Ci ha dato questa facoltà d'illusione infinita affinché abbiamo il potere di rinunciarvi per amore.
    Infine, il contatto con Dio è il vero sacramento.
    Ma si può essere quasi sicuri che coloro presso i quali l'amore di Dio ha fatto scomparire gli amori puri di quaggiù sono falsi amici di Dio.
    Il prossimo, gli amici, le cerimonie religiose, la bellezza del mondo non cadono al rango delle cose irreali dopo il contatto diretto tra l'anima e Dio. Al contrario, è solo allora che queste cose diventano reali. Prima, erano mezzi sogni. Prima, non avevano alcuna realtà.


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