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    Allenarsi con Platone

    Massimo Recalcati

    I filosofi si sono limitati a interpretare il mondo, si tratta invece di trasformarlo, affermava Marx nella celebre XI tesi su Feuerbach. Con questo suo ultimo libro (La palestra di Platone. Filosofia come allenamento, Ponte alle Grazie, 2020) Simone Regazzoni, allievo originale di Derrida alla cui opera ha dedicato i suoi studi più notevoli, poliedrico autore di saggi e romanzi e praticante di arti marziali, ritorna a suo modo sulla critica alla filosofia come pura pratica teoretica di contemplazione separata dalla vita.
    La sua tesi maggiore è forte e chiara: sinora i filosofi hanno pensato il corpo, si tratta ora di allenarlo. Per questa ragione l’oggetto della sua critica serrata è a quello che Mishima definiva “il filosofo da tavolino” che pensa dimenticando il proprio corpo. Errore capitale secondo Regazzoni che comporta una scissione sintomatica tra l’anima e il corpo, tra il pensiero e l’esistenza.
    Erroneamente l’Occidente ha creduto di fare risalire questa diabolica separazione a Platone. Il filosofo che nel Fedone descrive effettivamente il corpo come un “carcere dell’anima”, come una “follia” dalla quale bisognerebbe emanciparsi. Nel suo lavoro però Regazzoni mostra l’esistenza di un altro Platone rispetto al più conosciuto filosofo della teoria delle idee.
    Il suo vero nome Aristocle venne sostituito dal suo maestro di lotta col soprannome di Platone che significa uomo dalle spalle robuste. Il Platone di Regazzoni nasce dunque non nell’Accademia rappresentata spiritualisticamente da Raffaello nella sua celebre Scuola di Atene, ma in una palestra. Egli è stato, come le fonti attestano indubitabilmente, un lottatore, praticante del pancrazio.
    Per questo “altro Platone” il corpo non è il supporto passivo del pensiero ma la sua condizione imprescindibile. Non la mano (Heidegger), il volto o la carezza (Levinas), ma il pugno, la lotta, il corpo preso nella sua dimensione carnale, ma anche agonistica, il corpo impegnato nel suo allenamento, il corpo vivente. «All’origine della filosofia, in Grecia, c’è un filosofo-lottatore che si allena in palestra», scrive Regazzoni. Ma cosa è in gioco nella palestra di Platone, nel corpo impegnato nell’esperienza dell’allenamento?
    Non semplicemente, come una cattiva retorica vorrebbe, l’esercizio selvaggio della violenza, il potenziamento superomistico dell’Io, l’esaltazione del corpo come arma da combattimento. La lotta nella quale il corpo è impegnato nell’allentamento come lo pensa Regazzoni è un corpo alle prese con i propri limiti, i propri fantasmi, la propria capacità di resistenza. È un corpo che diventa filosofia, esperienza in atto di trasformazione della vita.
    Allenarsi non significa infatti inseguire un ideale narcisistico di sé, ma impegnarsi in una lotta con le proprie paure e il proprio buio. È un insegnamento che viene da Platone il lottatore: il corpo dell’atleta è askesis, esercizio, cura di sé nel senso foucaultiano del termine, ovvero arte della vita. Il pensiero non sorge, dunque, dal tavolino ma laddove qualcosa è in lotta. «La superficie bidimensionale della pagina non può più esaurire lo spazio della filosofia». Si tratta piuttosto di imparare «a pensare con i piedi nell’erba».
    Allenarsi significa allora afferrare la verità non come astrazione ma come evento attraverso il proprio corpo. La fatica non è solo nel concetto, come riteneva Hegel, ma nel corpo che suda, salta, colpisce, fatica. In questo senso «il logos non è figlio del logos ma a tutti gli effetti dei propri piedi». Per questa ragione, come spiega Regazzoni in pagine ricche di grande intensità e di riferimenti autobiografici «è solo nell’esaurimento del me stesso, della mia ipseità, nell’essere esausto, che tocco il mio limite e accedo al superamento di me stesso».
    Nessun culto dell’accrescimento dell’Io, dunque, ma incontro con il proprio sfinimento, con l’esperire una intensità vitale nella prova della lotta innanzitutto con me stesso. La fatica, lo sforzo, la prova dell’allenamento esige resistenza. Non conta la sopraffazione dell’avversario (sempre l’avversario nella lotta viene definito in questo libro “compagno”) ma una “elevazione” a cui possiamo dare il nome della “gioia”.
    Quella di spostare i propri limiti in avanti, di non lasciarsi prendere dalla tentazione di separare il pensiero dalla vita, di non lasciare vincere la paura. In gioco è quella forma di intelligenza che i greci chiamavano metis e che troviamo attiva in tutti i processi creativi. Una intelligenza che ci libera dall’ombra della filosofia da tavolino e ci immerge nella prassi, nel movimento, in un saper fare che non può esistere senza corpo. Perché, come scrive Feuerbach, citato da Regazzoni, «solo la verità diventata carne e sangue è verità».

    (La Repubblica – Robinson - 3 ottobre 2020)


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