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    La questione ecologica

    Giannino Piana

     

    Né contando esclusivamente sulle proprie forze, né soltanto sugli oggetti che lo circondano, l'uomo può fare esperienza del fatto che egli è ben più di una macchina, che è uno spirito, un dio nel mondo, ma in una relazione con le cose che lo circondano più vitale e superiore a quella motivata dai bisogni.
    (F. HÖLDERLIN, Über Religion, Werke IV, Stuttgart 1961, 278).

     

    Lo sviluppo economico non deve fare i conti soltanto con le risorse umane ma anche con quelle naturali, le quali forniscono la materia prima per il lavoro e per la produzione dei beni che concorrono alla promozione umana. L'ambiente è infatti parte integrante dell'essere dell'uomo in quanto essere-al-mondo. L'oblìo di questa verità è una delle cause dell'attuale dissesto ecologico, che verrà qui considerato soprattutto nei suoi risvolti economico-sociali con particolare attenzione al sistema dominante e al modello di sviluppo ad esso soggiacente [1].
    Le presenti riflessioni intendono illustrare la consistenza assunta dalla questione ecologica oggi e le ragioni di ordine tecnico e socioculturale che l'hanno determinata (I), per affrontare successivamente in chiave antropologica (II) e teologica (III), la questione del rapporto uomo-natura; e giungere a delineare, infine, la prospettiva etica che va privilegiata, se si intende provocare un effettivo cambiamento della situazione (IV).

    LA QUESTIONE ECOLOGICA OGGI

    La crisi ecologica è (forse) oggi la "cifra" più importante dello stato di disagio esistenziale in cui versa la condizione umana. La crescente preoccupazione che essa suscita costringe a interrogarsi sul significato dell'azione umana nei confronti dell'ambiente e a prendere seriamente in considerazione gli stili di vita soggettivi e collettivi adottati, nonché, più radicalmente, a riflettere sulle matrici culturali dei processi in corso e sulla necessità, per controllarli, di favorire un radicale cambio di mentalità.

    Le dimensioni reali del problema

    Lo squilibrio uomo-natura, dovuto tanto alla limitazione delle risorse (alcune delle quali non rinnovabili) quanto alla contaminazione dell'ambiente, solleva interrogativi inquietanti sul futuro e in particolare mette sotto processo il modello di sviluppo della società tecnologica sotto il profilo del lavoro, dei consumi, delle relazioni sociali e dei valori dominanti [2]. I dati scientifici sono contrassegnati da grande incertezza per la presenza di stime e di previsioni differenziate [3]; è tuttavia accertata la consistenza di alcuni fenomeni quali l'aumento della temperatura, l'innalzamento del livello dei mari e l'incremento demografico, che denunciano il rischio di una grave compromissione delle opportunità di crescita per le generazioni future [4]. La complessità dei fattori in gioco, i quali tendono a saldarsi mutuamente con effetto moltiplicatore, evidenzia l'insufficienza di interventi settoriali e la necessità di una strategia globale, che implica il coinvolgimento della politica e la sensibilizzazione delle coscienze.
    L'ambiente non include, d'altronde, solo la natura nella sua accezione originaria ma anche lo spazio plasmato dall'attività umana. Questo comporta che l'approccio corretto ad esso debba tener conto sia della struttura naturale, cioè della molteplicità dei sistemi che definiscono la biosfera e che sono la risultante dell'interdipendenza dinamica tra l'uomo, gli esseri viventi e il loro spazio vitale, sia della struttura storica, cioè dei numerosi "segni" del passato che sono la traccia dell'azione umana nel tempo [5].
    La stretta dipendenza dell'ambiente naturale dall'ambiente sociale rende urgente la riaffermazione di un'istanza etica che diriga e controlli i programmi tecnico-scientifici e mobiliti le coscienze ad assumere decisioni adeguate. Il vero problema non è infatti la difesa della natura dall'opera dell'uomo, ma la verifica della qualità di tale opera. Tale verifica suppone una precisa conoscenza dei delicati equilibri che si producono in natura, nel quadro di un ecosistema dinamico soggetto a continui adattamenti, e una seria valutazione delle iniziative dell'uomo, avendo come riferimento ideale il bene dell'umanità presente e futura.

    Alla ricerca delle cause del disagio attuale

    La ricerca delle cause che hanno prodotto la situazione attuale non può avvenire soltanto a livello tecnico; esige un'attenzione privilegiata ai fattori socioculturali, che hanno influenzato le opzioni private e pubbliche. L'intervento incondizionato nei confronti dell'ambiente è stato infatti favorito dallo sviluppo di una logica del dominio e dalla simultanea crescita della possibilità di esercitarlo. L'atteggiamento di prevaricazione nei confronti della natura, proprio della modernità, è conseguenza diretta della già denunciata dicotomia tra uomo e mondo che ha finito per far percepire la natura come realtà amorfa, priva di senso.
    Radicalmente reificata e ridotta a semplice dimensione quantitativa, destituita cioè di ogni legame di origine e di significato con la soggettività, la natura è considerata come oggetto di una forma di conoscenza finalizzata al controllo e allo sfruttamento. Questa visione meccanicista per la quale tutto viene dissezionato e ricostruito secondo sequenze lineari si intreccia, d'altronde, con l'enorme potere della tecnologia, la quale veicola una normatività fondata sull'equivalenza tra possibilità tecnica e sviluppo umano, avvallando la liceità etica di qualsiasi intervento manipolativo.
    Quest'ultimo dato si intreccia con una concezione economi-cistica dello sviluppo incentrata sulla ricerca della massimizzazione della produttività e del profitto. Sviluppo economico e promozione umana vengono del tutto identificati, al punto che quest'ultima è concepita come l'esito naturale del dominio che l'uomo esercita sul mondo. Lungi dall'essere percepito come l'habitat entro il quale la vita umana si dispiega arricchendosi di significati non solo materiali, l'ambiente è considerato mero contenitore di risorse che vanno sistematicamente sfruttate per asservirle alla soddisfazione dei bisogni umani.
    Questa visione della realtà è inoltre avvalorata dall'ideologia del progresso illimitato per la quale lo sviluppo umano viene identificato con il progresso tecnico. La convinzione che esista una quantità indefinita di risorse utilizzabili e che si possano facilmente assorbire i processi degenerativi derivanti dal loro utilizzo spinge l'uomo ad avanzare senza esitazione nel processo di espropriazione del cosmo. La natura cessa di essere riconosciuta come totalità dotata di significato e si trasforma in macchina, laboratorio, luogo di esperimento; essa è fatta oggetto di un approccio analitico secondo le procedure delle scienze che tendono alla reificazione e alla scomposizione, alla particolarizzazione e alla riduzione [6].
    L'eccesso di fiducia nella ragione strumentale e la presunzione dell'assoluta neutralità della scienza e della tecnica favoriscono, d'altra parte, la nascita di un sapere, i cui presupposti fondamentali sono l'acquisizione del potere e la sua espansione, il controllo e la conquista del mondo. Si fa strada in questo modo un antropocentrismo prometeico che fa leva sulla libertà dell'uomo e che tende a concepire lo sforzo umano in termini di pura funzionalità e utilità [7]. La fattibilità diventa la legge determinante dell'attività tecnica ed economica: la società dei consumi sollecita un incremento sempre maggiore della produttività perseguibile soltanto mediante lo sfruttamento illimitato dell'ambiente.
    Se dai livelli fin qui analizzati si passa poi al livello della riflessione antropologica emerge quale dato importante della cultura occidentale la sua matrice dualista. Il pensiero filosofico dall'antichità all'epoca moderna è contrassegnato dalla presenza di categorie che separano, nell'ambito del mondo umano, il corpo dall'anima, la coscienza dalle dinamiche biopsichiche, istituendo una contrapposizione tra soggetto e oggetto, che si estende dal mondo umano ai rapporti dell'uomo con la natura. La riduzione del corpo a oggetto (il corpo che ho e non il corpo che sono) conduce alla reificazione del mondo: una visione strumentale del corpo, non integrato nella soggettività umana, non può infatti che causare una visione strumentale della natura ridotta a "cosa" del tutto disponibile all'intervento umano. La superiorità dell'uomo è definitivamente sancita: in quanto essere morale egli deve essere trattato come fine, mentre a tutto il resto va assegnata la funzione di mezzo al suo servizio. La natura è considerata, in questa prospettiva, come un ostacolo allo sviluppo umano: su di essa occorre esercitare il dominio mediante la cultura che rappresenta una vera rivincita sulla natura come affermazione del primato dell'uomo.
    Questa lettura della realtà trova, infine, ulteriori motivazioni nell'abbandono del concetto di creazione proprio della tradizione ebraico-cristiana. La disgiunzione del cosmo dall'uomo è anche frutto della sua separazione da Dio; è, in altre parole, l'esito di una cosmovisione secolare per la quale si assiste al trapasso dalla percezione del mondo come "creazione" alla percezione del mondo come "natura". Il venir meno della relazione fondamentale – quella che dà senso alla realtà connettendola alla sua radice originaria, cioè a Dio – coincide con la caduta di ogni possibilità relazionale. Ha luogo così una totale reificazione dell'ambiente e un'altrettanto totale soggettivizzazione dell'uomo; ma soprattutto ha così luogo il passaggio dall'uomo creatura e partner di Dio all'uomo padrone assoluto, con il potere di modellare la natura a suo piacimento senza riferimento ad alcuna istanza normativa. Come osserva acutamente Fr. Baader,

    un modo di concepire la natura priva di spirito, quello esaltato specialmente con Cartesio, non poteva non portare a un modo di comprendere lo spirito "senza natura" e ad un modo di intendere entrambi "senza Dio'' [8].

    Le conseguenze si riflettono tanto sul mondo quanto sull'uomo. Alla disumanizzazione della natura fa infatti riscontro la denaturalizzazione dell'uomo, l'impoverimento della sua identità. La natura perde il significato "simbolico" di humus da cui l'uomo trae il proprio sostentamento vitale, e si trasforma in spazio neutro da occupare, sottoposto alla rigorosa applicazione del metodo scientifico, ai criteri della vivisezione analitica e del calcolo quantitativo; mentre, a sua volta, l'uomo, non avendo più il contatto diretto con la natura o vivendolo in termini puramente esteriori (e strumentali), si impoverisce di quelle potenzialità espressive che derivano dal rapporto col mondo percepito come parte di sé.

    VERSO UNA NUOVA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA

    Il problema di fondo è pertanto la ricostituzione di un corretto rapporto tra natura e cultura. Si tratta di superare il modello del riduzionismo culturale – per il quale tutto è cultura e dunque ogni intervento manipolativo è considerato legittimo – senza indulgere in forme di sacralizzazione della natura che impediscono all'uomo di esercitare la propria signoria sul mondo.

    I limiti del pensiero ecologista

    Non meraviglia che alla cieca fiducia nella ragione strumentale venga oggi contrapponendosi una eccessiva sfiducia nella ragione in generale e che all'ideologia del progresso tenda a sostituirsi una anti-ideologia improntata alla venerazione di tutto ciò che è "naturale" e al contemporaneo rifiuto di tutto ciò che è artefatto e meccanico. Questa anti-ideologia, che trova espressione nell'esaltazione dell'èra pretecnica e nel rifugio in una trasfigurazione romantica della natura, non è tuttavia meno rischiosa per la caduta in derive fatalistiche e regressive. Le visioni apocalittiche che inevitabilmente affiorano spingono all'assimilazione di concezioni post-materiali introiettate più nella forma di pathos che di ethos, che, per la loro radicalità e il loro velleitarismo, non scalfiscono minimamente le abitudini di segno opposto, che fanno da supporto all'economia del mero consumo.
    Il rifiuto di un potere dispotico nei confronti della natura si traduce nello sviluppo di una "mistica" e di una "religione" della natura ingiustificate e ingenue. Il pensiero ecologico non si sottrae a questo rischio. Il modello al quale si ispira è infatti spesso informato a una visione analitica della realtà e a un'interpretazione della vita di stampo naturalistico, incapace di evidenziarne le dimensioni specificamente umane. L'assenza di attenzione alle differenze tra l'uomo e il resto del creato e l'accentuazione della coscienza di specie come criterio di valutazione esclusivo dei processi in corso finisce per legittimare il ricorso a visioni riduttive ispirate allo scientismo materialistico. La politica dei movimenti ecologici si rivela poi nell'insieme piuttosto astratta per l'assenza di un progetto, che consenta di inserire l'istanza ambientale nel contesto di questioni più generali riguardanti il futuro civile della società [9].

    Orientamenti per lo sviluppo di una relazione positiva

    Il superamento dell'attuale situazione di assoggettamento della natura non può dunque risolversi nell'adesione a un feticismo naturalistico che celebra la natura al di fuori di ogni riferimento alla promozione della vita umana. La questione ecologica deve spingere l'uomo a interrogarsi sul senso del proprio impegno nei confronti del mondo circostante, andando oltre il livello di un approccio puramente "scientifico" per aprirsi a una visione assiologica della natura. L'ambiente non può essere concepito come una entità da conservare intatta, vagheggiando un ritorno alle origini che, oltre ad essere irrealistico, è anche pericoloso: la natura non è infatti soltanto "madre" – anzi, se non viene controllata, diventa talora "matrigna" –; è piuttosto il risultato di un processo storico-culturale, che va costantemente assoggettato a un insieme di fattori, i quali devono avere come referente l'uomo.
    Si esige per questo una ridefinizione del senso dell'agire nella storia come agire che rispetta l'unicità e l'rrepetibilità dell'uomo ed è, al tempo stesso, profondamente integrato nella natura, in quanto contesto vitale in cui la vita umana si svolge. La possibilità di tale ridefinizione è legata alla capacità di abbandonare le concezioni ristrette della razionalità che si sono affermate a partire dalla modernità – quella strumentale in particolare – per fare propria una forma di ragione (e di linguaggio) capace di interpretare le dinamiche più profonde della realtà, soprattutto quelle relazionali. Si tratta, in altre parole, dell'abbandono di una ragione chiusa, che tende a tutto circoscrivere entro ambiti di puro dominio, per fare appello a una ragione aperta, che non si propone di dimostrare ma si accontenta di mostrare, evocando le dimensioni profonde della realtà con un linguaggio non attestato esclusivamente sull'esistente, ma capace di rinviare "oltre", mettendo in luce i nessi esistenti tra le cose e portando alla comprensione del senso nascosto. Il ricupero del rapporto con la natura acquisisce così il suo vero significato di rapporto interdipendente e comunionale [10].
    La concezione astorica della natura, che ha contrassegnato l'epoca moderna, non ha concorso soltanto a sviluppare un'idea della storia "senza natura", ma ha soprattutto causato una segmentazione della conoscenza umana, che le ha impedito di cogliere simbolicamente la realtà e l'ha obbligata a fare propria di conseguenza una visione angusta sia del mondo che dell'uomo. Smarrendo la capacità di contemplare lo spirito nella natura e riducendo lo spirito a ciò che stacca l'uomo da essa, la cultura occidentale ha cessato di dare il giusto significato alle cose e di instaurare con esse una relazione vera, orientata a un interscambio fecondo tra uomo e mondo e al conferimento all'agire umano di un giusto equilibrio tra dominio e conservazione.
    La ragione illuminista e tecnica ha svuotato il cosmo del suo spessore più profondo, e lo ha perciò depauperato, abituandoci a una lettura asettica, dalla quale è assente ogni rimando relazionale. Solo ristabilendo il rapporto con la totalità delle cose è possibile restituire alla natura il carattere di luogo in cui si disvela il mistero della realtà, e si scopre l'ordito che lega tra loro i vari ordini in essa presenti.

    L'ORIZZONTE TEOLOGICO

    La crisi ecologica odierna interpella direttamente la teologia cristiana, costringendola a ripensare il rapporto dell'uomo con il cosmo nel contesto delle grandi indicazioni della storia della salvezza. Il rimando d'obbligo è qui, da un lato, alla teologia della creazione e all'antropologia teologica; e, dall'altro, alla reinterpretazione dei connotati dell'operare divino nella storia – si pensi all'operare trinitario – in quanto modello privilegiato dell'agire umano.

    Creazione e storia di salvezza

    Secondo alcuni interpreti della tradizione occidentale esisterebbe un nesso molto stretto tra fede nella creazione e nascita della civiltà scientifico-tecnica. Opponendosi alla divinizzazione del mondo, perciò relativizzandolo, e insieme sostituendo la concezione ciclica della storia con una concezione lineare, nonché affermando con vigore la centralità dell'uomo, la tradizione giudaico-cristiana avrebbe di fatto determinato la perdita del rispetto sacro per la natura e alimentato la fiducia in un progresso illimitato da conquistare mediante l'esercizio di una signoria radicale nei confronti della realtà [11].

    È fuori dubbio che la fede nella creazione implichi la de-divinizzazione del mondo e la tutela della sua profanità. Ma questo non significa che l'intervento umano vada concepito in termini dispotici. Il fatto che la natura sia stata creata da Dio rimanda a un ordine in essa inscritto al quale l'uomo deve sottostare e che reclama l'assunzione di una precisa responsabilità. Paradossalmente proprio l'idea di creazione è all'origine, nell'ambito della riflessione teologica, di un atteggiamento di rigida conservazione della natura – si pensi alla visione "naturalistica" della "legge naturale" – al punto che, secondo alcuni, la mancata reazione della teologia nei confronti dell'odierna crisi ecologica andrebbe addebitata all'eclissarsi della tematica della creazione dall'orizzonte teologico come reazione a una interpretazione troppo rigida di essa sviluppatasi in passato.
    In realtà la tradizione cristiana, nel suo filone più autentico, ha sempre teso a leggere antropologicamente il dato cosmologico, non indulgendo verso una riflessione autonoma sul mondo in se stesso. Il racconto della creazione si presenta sotto la forma di una "eziologia storica" (K. Rahner) o di una "profezia retrospettiva", al cui centro vi è la "benedizione" di Dio [12]. Il mondo appare anzitutto come "dono" all'uomo del Creatore, il quale, sperimentandone la radicale gratuità, è spontaneamente condotto ad assumere un'attitudine di riconoscenza.
    Il rapporto storia-creazione è così chiaramente delineato fin dall'inizio. La fede creazionista di Israele si sviluppa nell'orizzonte della fondamentale esperienza che il popolo fa di Dio come il Dio della propria storia. Il concetto teologicamente primario è quello di alleanza; solo di riflesso Israele viene assumendo gradualmente consapevolezza che il suo Dio si era creato gratuitamente un popolo, dal nulla [13]
    La fede esplicita nella creazione è tardiva: ha inizio con i profeti dell'esilio (Ger 32, 17; 33, 25-26; Is 40ss.), ed in essa la creazione del cosmo è vista come contrappunto alla ri-creazione di Israele [14]. La protologia è lo sfondo su cui si inserisce la soteriologia: l'atto creatore anticipa il gesto liberatore. L'esigenza di vincere la tentazione dell'idolatria spinge i profeti a sottolineare la consistenza e l'ordine del mondo e a metterne in evidenza l'origine da Dio [15].
    Questo accento storico-salvifico caratterizza anche il racconto della creazione di Gen 1, 1-2, 4a, l'unica cosmogonia presente nella Bibbia [16]. Alla tradizione sacerdotale non interessa tanto la creazione per se stessa, quanto il fatto che essa sia il punto di partenza di una storia che conduce alla vocazione di Abramo. Il tessuto storico è costituito infatti dalle toledoth (generazioni), che danno il nome al libro e lasciano intendere come la prospettiva entro la quale Israele ha inserito l'origine del mondo è funzionale all'illustrazione della propria origine come popolo e alla storia della propria liberazione [17].
    Contrariamente alle cosmogonie del vicino Oriente il, racconto biblico della creazione è interessato soprattutto alla nascita della società umana. L'attività creatrice di Dio non termina al "far esistere" le cose; ha come obiettivo l'esistenza dell'umanità che Dio chiama ad essere suo popolo mediante l'alleanza e il dono della Torah.
    In questo contesto assume pienezza di significato la narrazione dell'origine dell'uomo e del compito fondamentale a lui assegnato di governare il mondo (Gen 1, 26-30). In quanto creato a "immagine di Dio", l'uomo è l'interlocutore che Dio dà a se stesso, colui che, unica tra le creature, è in grado di entrare con lui in un rapporto di comunicazione e di comunione interpersonale. Tale rapporto, che esprime la vicinanza a Dio ma lascia nello stesso tempo sussistere la incommensurabile distanza, è la ragione per cui l'uomo diviene il partner di Dio nel piano della creazione.
    L'antropologia relazionale, incentrata sulla relazione che lega l'uomo a Dio, è il fondamento del rapporto dell'uomo con il mondo. È significativo al riguardo come

    la Bibbia non consideri mai il cosmo – osserva A. Bonora – quale entità separata e indipendente dall'uomo né l'uomo come disgiunto dal cosmo. Uomo e cosmo sono sempre in relazione tra loro. Ma come "eventi" che accadono sotto un'immancabile azione divina e non come semplici "dati" o come "pezzi" accostati di un meccanismo cosmico [18].

    A motivo della sua esistenza corporea l'uomo è radicato nell'ambiente naturale; è costitutivamente segnato da un interscambio vitale con la natura: l'uomo partecipa della natura e la natura dell'uomo. Il mondo si manifesta dunque come "mondo dell'uomo", nel senso che esso appartiene all'uomo ma insieme che l'uomo appartiene al mondo secondo un rapporto di reciproca interdipendenza, la quale lascia sussistere tuttavia il primato umano. Il mondo infatti si rivela compiutamente nell'uomo e trae da lui il suo ultimo significato [19].
    Il mandato di "soggiogare" e "dominare" la terra (Gen 1, 28) va inscritto entro questo orizzonte. Attraverso di esso si intende indicare che il potere creatore divino passa, in qualche misura, nell'immagine di Dio. Compito dell'uomo è di "prendere possesso" della terra e di "guidarne" la trasformazione per fare di essa la dimora di Dio, per rendere cioè possibile che Dio abiti tra gli uomini [20]. Il giardino dell'Eden è un mondo affidato al lavoro e alla custodia dell'uomo (Gen 2, 15). "Coltivare" e "custodire" evocano un atteggiamento religioso; esprimono, in altre parole, la convinzione che la cura che l'uomo deve avere nei confronti della realtà creata non può andare disgiunta dal servizio verso il suo Signore [21].
    La visione del mondo che qui emerge non è dunque divinizzata né demonizzata; il mondo è frutto dell'azione creatrice di Dio, dunque è "cosa" in sé buona, rimessa alla responsabilità dell'uomo perché la perfezioni e la diriga al suo fine. La natura è una grandezza aperta a un futuro di pienezza; è una realtà in fieri e non un factum. Il leit-motiv che sta alla base della teologia della creazione è che l'ordine della natura è posto sotto l'ordine della storia, in quanto storia di salvezza.
    Questo non significa tuttavia che il mondo sia pura cornice della storia; esso rivela un ordine interno che l'uomo è chiamato a rispettare. Egli infatti non costituisce il proprio rapporto con la natura, ma lo trova già in sé. Quest'ordine, che risale all'assoluta sovranità di Dio, pone inevitabilmente dei limiti al dominio umano sulla terra. La realizzazione nell'agire della somiglianza divina implica perciò, da un lato, la capacità dell'uomo di intervenire sulla realtà con la consapevolezza che il mondo subumano acquisisce pienezza di significato grazie all'azione umana, e, dall'altro, la disponibilità a riconoscere il limite della propria azione, perché inscritto nell'ordine originario voluto da Dio. L'atto creazionale contiene in se stesso l'appello all'impegno dell'uomo perché porti a termine quanto Dio ha inaugurato; ma è, nello stesso tempo, atto che dà origine a una infrastruttura ontologica, il cui rispetto è condizione perché l'attività dell'uomo acquisisca il proprio valore. L'antropocentrismo biblico ha dunque le sue radici in un superiore teocentrismo: l'impegno umano implica per questo rispetto e cura. La natura è lo spazio vitale che l'uomo è chiamato, mediante la cultura, a configurare come habitat, come la dimora amica da costruire secondo una logica di solidarietà universale [22].
    L'atteggiamento dell'uomo verso la natura è, in ultima analisi, definito dall'integrazione, già peraltro richiamata, di lavoro e di riposo nell'esperienza del sabato. La creazione tende al sabato, segno dell'alleanza secondo Es 31, 13 e 16-17, e sfocia in esso. Dio che riposa fa riposare la stessa creazione, stabilendo con essa un rapporto non più connotato dalla dipendenza ma dalla comunione partecipativa. La creazione è l'opera di Dio, ma il sabato è l'essere presente di Dio: in esso non si esprime soltanto la sua volontà, si manifesta la sua essenza. Il sabato riempie l'esistenza inquieta delle creature della gioia di questa presenza; esso è la prefigurazione del mondo che viene, ciò a cui la creazione, in definitiva, tende.
    Il riposo appartiene dunque alla costituzione stessa della realtà creata: il suo valore consiste nel generare lo spazio per la relazione festiva tra il Creatore e la creatura. Il sabato introduce, nell'esperienza umana del tempo, una cesura, un intervallo, un ritmo. Impedisce al lavoro di assolutizzarsi, e apre l'uomo a una percezione del reale contrassegnata dalla capacità di scoprire in tutte le cose la bellezza e di preservarne il segreto. Il rapporto dell'uomo con il mondo è un rapporto di trasformazione e di contemplazione. L'equilibrio tra queste due dimensioni, ambedue essenziali, dell'esperienza umana consente di guardare la natura con occhi nuovi, uscendo tanto dalla tentazione di sacralizzarla quanto da quella opposta, ma non meno pericolosa, di esercitare su di essa un potere incondizionato destinato ad alienarla.

    L'agire di Dio nell'ottica del mistero trinitario

    La prospettiva entro la quale occorre collocarsi per cogliere, in modo corretto, il rapporto dell'uomo con il cosmo è dunque quella dettata dallo sguardo di Dio su di esso, che è sguardo di amore. L'amore, e non il potere, è la trama autentica della realtà, la sua struttura intima, il suo ordito fondazionale. L'atto della creazione è atto di amore. La libertà di Dio non si identifica con l'onnipotenza, ma con la liberalità di chi si dona. Il creato non è la dimostrazione del suo potere, bensì la partecipazione del suo amore illimitato: un amore estatico che lo porta ad uscire da se stesso e a far sussistere ciò che è diverso da sé, ma che gli corrisponde. Per questo l'attività creatrice non si esaurisce in se stessa; contiene come aspetti che le appartengono la conservazione e la provvidenza, le quali, lungi dal rinviare a un puerile mira.colismo o al fanatismo di un'azione onnipotente, spingono l'uomo alla ricerca di un ordine dinamico da dare alla realtà, nella certezza che alla radice di essa c'è la benedizione di un essere personale e paterno [23].
    La paternità di Dio – come ci ricorda il Credo – sta prima della sua onnipotenza, nel senso che questa viene specificata da quella, e non viceversa. Anzi – secondo un filone consistente e significativo della teologia che merita di essere ricuperato (da Cusano a E. Brunner) – autodeterminandosi ad essere creatore del mondo Dio si sarebbe autolimitato; infatti solo ritraendo la propria presenza e negando la propria potenza, Egli poteva creare le condizioni per l'originarsi del nihil della sua creatio ex nihilo. Non è stata forse proprio la concezione di Dio onnipotente, prevalsa in epoca moderna, a dare vita a una concezione dell'uomo come soggetto assoluto e a una considerazione del mondo come oggetto da conquistare? [24].
    L'ontologia dell'agape, che ha anzitutto le sue radici nella paternità di Dio, trova nel mistero di Cristo la sua piena manifestazione. Nel Logos ha luogo la continuità tra creazione e incarnazione [25]. Il Logos, che è alla base dell'essere e della razionalità della realtà e che fonda la dinamica storica del mondo, rivela compiutamente se stesso mediante l'ingresso nel mondo. L'incarnazione del Figlio è un avvenimento che non ha dimensioni soltanto antropologiche, ma anche cosmiche: la signoria di Cristo si estende al cielo e alla terra, divenuti ormai l'abitazione di un Dio presente, sia pure sotto forme diverse, nell'uno e nell'altro ambito (Atti 3, 21).
    L'unità profonda di creazione e di salvezza raggiunge qui la sua più alta espressione. La riflessione cristologica estende la soteriologia anche alla cosmologia (1 Cor 8, 6). Il mondo, che è stato creato per mezzo di Cristo e in vista di lui (1 Cor 8,6; Col 1, 15-20), è soggetto a una mediazione salvifica [26]. La fede nella creazione include in Cristo passato, presente e futuro: la protologia diventa escatologia in nuce. Questa, fede ha per oggetto l'amore di Dio, che si esprime compiutamente nel mistero pasquale. L'autoalienazione di Dio, di cui parla Fil 2, è il compimento definitivo di quel processo di abbassamento iniziato all'atto della creazione. Il Dio della redenzione cristiana è il Dio che "fa essere" ritraendosi, che libera umiliandosi e redime dai peccati soffrendo per gli altri. Il sacrificio del Figlio nella morte dell'abbandono di Dio sulla croce e la sua discesa agli inferi sono l'ingresso del Dio eterno in quel Nulla dal quale egli ha tratto il mondo. Per questo la presenza di Dio nel Cristo crocifisso conferisce alla creazione la vita eterna: la croce diventa il mistero della creazione e del suo futuro.
    D'altra parte, la fede nella risurrezione è la figura cristiana della fede nella creazione: essa situa la storia del mondo nella luce della nuova creazione. Secondo Paolo la risurrezione di Cristo dà inizio al processo della risurrezione dei morti, quindi anche della ri-creazione del mondo. Il fatto che l'azione liberatrice di Gesù assuma anche la più profonda realtà dell'esistenza corporea dell'uomo dà infatti compimento alla speranza che la creazione nutre di essere lei pura liberata dalla caducità cui è sottomessa non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa (Rom 8, 20) [27]. Uomo e natura hanno, ciascuno secondo il proprio livello, un loro destino. Ma, per quanto concerne l'asservimento e la libertà, essi si muovono entro una storia comune e unitaria. Si può dire, in un certo senso, che la creazione degli inizi incominciò con la natura e si concluse con l'uomo, mentre la ri-creazione escatologica, legata alla risurrezione di Cristo, inizia con la liberazione dell'uomo e si conclude con la redenzione della natura.
    L'unità in Cristo dei due ordini – creazione e salvezza –non può non avere effetto immediato anche sul terreno della prassi, perciò dell'etica.
    La rilevanza cosmica di Cristo, la sua funzione creatrice, di sostegno e finalizzazione di tutto il creato, costituiscono - come ha scritto lucidamente J. L. Ruiz de la Pena - il più solido fondamento di una teologia della storia e del progresso umano, mentre orientano in maniera decisiva il significato della prassi storica, sociale e politica dei cristiani; essi non hanno motivo di essere uomini "dell'eterno conflitto" (Bonhoeffer), né devono sentirsi lacerati tra la "fede divina" e la "passione terrestre" (Teilhard); Cristo ha trasformato in realtà il sogno della "riconciliazione di tutte le cose,, quelle sulla terra e quelle nei cieli (Col 1, 20)" [28].
    Lo Spirito che conduce a compimento questo processo è lo Spirito di Cristo che abita tutta la realtà, penetrandola e individuandola. Una dottrina pneumatologica della creazione ci aiuta non solo a guardare la natura come "creazione dello Spirito" (Sal 104, 29-30), ma anche a cogliere, più profondamente, il mistero di comunione che si instaura tra uomo e cosmo; mistero fondato sulla coesione dell'universo e perciò sul suo rapporto di cooperazione con l'uomo.
    Importante è, in questo quadro, la riscoperta, alla base della visione cristiana dell'uomo e del mondo, della dimensione trinitaria del mistero di Dio. Tale dimensione consente di combinare tra loro la trascendenza di Dio sul mondo e la sua immanenza ad esso. Il Dio trinitario è infatti un Dio in cui le persone reciprocamente si compenetrano con un'intensità vitale costruita sull'amore. È un Dio che stabilisce con il mondo un rapporto variegato non basato sulla semplice signoria ma sulla dinamica comunionale. È in tal modo superata la separazione tra Dio e mondo, mentre la loro distinzione va interpretata nel segno di una reciproca presenza – di Dio nel mondo e del mondo in Dio – che si sviluppa attraverso una rete di relazioni e di compenetrazioni animate dallo Spirito [29].
    L'agire del Dio trinitario nella storia diventa dunque il paradigma dell'agire umano. L'attività creatrice del Padre spinge l'uomo ad esercitare il compito del "dominio". La forma iniziale del mondo non è la più perfetta; è aperta alla ricerca della perfezione. La natura deve essere portata a compimento dall'uomo nel rispetto del fine ad essa implicito (entelechia) [30] La fede in Dio creatore fonda l'esperienza del mondo come creazione in una prospettiva non soltanto protologica, ma escatologica. La creazione è infatti aperta alla storia della salvezza, la quale è, a sua volta, in funzione della nuova creazione, che reclama l'intervento trasformatore dell'uomo.
    L'agire del Padre non esaurisce tuttavia l'agire di Dio. Dopo il peccato dell'uomo, ha luogo l'agire redentivo del Figlio, il quale dà inizio a una nuova creazione, inaugurando la signoria definitiva di Dio (basileia) sulla storia. In Cristo l'uomo trova la propria identità di essere creato in lui (Col 1, 15-20) per mezzo di lui (Ef 1, 3-13) e in vista di lui (Col 1, 16). Fatti figli nel Figlio, gli uomini sono chiamati a rispondere alla presenza della grazia divina lottando contro le resistenze e l'opacità della realtà. Il legame tra creazione e redenzione costringe l'uomo a integrare nel proprio agire, l'esperienza dello scacco, e a concepire l'azione trasformatrice anche come azione purificatrice che implica un continuo discernimento per evitare la tentazione di confondere progresso tecnico e crescita umana.
    L'assunzione del dinamismo trinitario obbliga, infine, a fare spazio all'azione dello Spirito, che anima di sé la natura e la storia orientandole verso la consumazione escatologica, rendendo cioè trasparente la presenza dei "cieli nuovi" e della "nuova terra", che sono il frutto del Regno già in atto, e stimolando insieme l'uomo ad attendere la loro piena realizzazione nel "non ancora" della fine dei tempi. L'attività dell'uomo si inserisce in questo processo dinamico, assumendo i caratteri di responsabilità verso il presente e l'avvenire storico, ma anche di disponibilità ad accogliere l'irrompere di Dio, e dunque di capacità di riconoscere che spetta a lui l'ultima parola e che occorre creare le condizioni perché egli possa agire. L'azione nel mondo del credente non è mai assoluta; è orientata a lasciare che mondo e storia siano, in definitiva, permeati dall'amore salvifico di Dio.
    Creazione, redenzione ed escatologia sono tre cespiti dell'azione di Dio nella storia, che corrispondono ad altrettante forme di intervento del Padre, del Figlio e dello Spirito. L'opus divino, in quanto opus trinitario, costituisce l'orizzonte entro il quale "comprendere" l'agire umano verso la natura; un agire impegnato a trasformarla e insieme a riscattarla dal male; un agire contrassegnato dalla strutturale dialettica tra la fedeltà alla terra e l'attesa della patria dell'identità e della comunione perfetta come dono esclusivo del Signore.

    Il rapporto uomo-natura in prospettiva simbolico-sacramentale

    Il rapporto uomo-natura può essere acquisito in tutta la sua verità soltanto se si fa spazio - come già si è accennato - a una interpretazione "simbolica". La terra assume, nella prospettiva cristiana, un significato "escatologico" [31]. Uomo e terra sono tra loro legati da un vincolo indissolubile. La creazione è espressione, simbolo, sacramento di Dio: in essa Dio rivela se stesso - come afferma chiaramente Paolo (Rom 1, 19) - e dà se stesso, mentre attraverso lo Spirito creatore unisce costantemente a sé l'"altro" [32]. Questo carattere teofanico si rivela pienamente nella prospettiva escatologica. Il mondo va inteso come similitudine; deve essere percepito come presenza nascosta e come progetto del Regno, il quale, a sua volta, non è solo compimento delle promesse storiche, ma anche di quelle naturali.
    L'emergere privilegiato dell'uomo non esclude, anzi postula, la continuità con il mondo. L'uomo è "immagine di Dio" anche nella corporeità e nella differenza sessuale, nonché nel suo rapporto con la natura. Egli è chiamato a vivere una comunione, che si estende dalla relazione uomo-donna a quella tra le generazioni fino al rapporto con i beni della terra. La, conoscenza e l'azione, che l'uomo deve svolgere, sono orientate a creare le condizioni per una intensa comunicazione tra i diversi sistemi della natura nel rispetto della loro gerarchia.
    Il dinamismo comunionale assume una dimensione sacramentale, anzi eucaristica. La gioia di esistere e l'accoglienza serena della creazione fanno nascere la riconoscenza a Dio. Lodando Dio, nel convincimento che il mondo è suo dono, l'uomo agisce in rappresentanza dell'intero creato, dando così compimento alla sua missione sacerdotale attraverso la celebrazione di una liturgia cosmica. La festa cristiana ha questo significato: essa è l'inizio della nuova creazione, che infonde all'uomo la forza per operare la ri-creazione del mondo [33].
    La concezione astorica della natura, che si è affermata in epoca moderna, ha concorso a segmentare la conoscenza umana, impedendole di cogliere simbolicamente la realtà. Smarrendo la capacità di contemplare lo spirito nella natura e riducendo lo spirito a quella energia che stacca l'uomo dalla natura che lo circonda, la cultura occidentale ha provocato la nascita di una visione angusta sia dell'uomo che del mondo. Solo l'apertura alla percezione simbolica della realtà può restituire all'uomo la capacità di assegnare il vero significato alle cose, instaurando con esse una relazione di fecondo interscambio destinata a valorizzarne la portata e ad evocarne la dimensione della trascendenza e del mistero.

    VERSO UN NUOVO MODELLO ETICO

    Le riflessioni antropologiche e teologiche sviluppate esigono di essere tradotte in un progetto etico, caratterizzato dall'acquisizione di alcuni orientamenti di fondo e dall'assunzione di atteggiamenti e di comportamenti che li rendano efficacemente operativi sul terreno delle scelte personali e sociali. L'orizzonte entro il quale tale progetto va inserito è quello dell'attenzione privilegiata all'uomo e al suo rapporto vitale con il mondo. Si tratta di cogliere la dimensione "trascendentale" della questione ecologica, il suo essenziale riferimento alla globalità del senso dell'esistenza umana, senza dimenticare che essa chiama direttamente in causa il problema della vita e della sua qualità, da un lato, e la concezione dello sviluppo e della sua concreta attuazione nell'ambito dell'attività economico-sociale e politica, dall'altro.
    Questo obbliga a dare vita a un modello etico, che sappia integrare al proprio interno il cambio degli stili di vita soggettivi con il mutamento strutturale, non limitandosi a offrire indirizzi di fondo o criteri generali, ma identificando anche "regole" che consentano di valutare i processi in corso e di spingere i poteri a intervenire con provvedimenti adeguati. Il taglio specificamente "sociale" con cui viene affrontata qui la questione ecologica impone un'attenzione privilegiata alla rilevanza che il sistema economico riveste nella determinazione dei mutamenti in atto [34].

    Si può ancora parlare di antropocentrismo?

    La gravità del dissesto ecologico e la sua attribuzione all'antropocentrismo occidentale hanno provocato, per reazione, la tendenza a privilegiare una prospettiva biocentrica, che fa del dato biologico il referente ultimo (e decisivo) delle scelte. Le posizioni che affiorano non sono tuttavia univoche: accanto a un biocentrismo radicale, che mette sullo stesso piano le diverse forme di vita [35], è venuto sviluppandosi in questi ultimi decenni un biocentrismo moderato, che, pur partendo dal presupposto che la vita costituisce il criterio valutativo fondamentale, tende tuttavia a fare discernimento tra forme di vita più semplici e forme più complesse e a differenziare in base a questo il giudizio morale.
    I paradigmi che, al riguardo, vengono proposti sono diversi: si va da una forma di antiumanesimo, che mette radicalmente sotto processo il primato dell'uomo, facendo proprie concezioni "panvitaliste" o "panteiste" che propugnano il ritorno alla sacralizzazione della natura [36], all'affermazione dell'ugualitarismo tra uomini e animali, con la conseguente negazione del "privilegio di specie", riconoscendo a tutti i soggetti valore morale in proporzione alla loro partecipazione alla soggettività [37], fino al radicale rifiuto della tecnologia (e della razionalità tecnologica) in quanto espressione dell'arroganza dell'uomo occidentale.
    Nonostante la plausibilità delle critiche rivolte al modello antropocentrico, soprattutto nella versione più radicale in cui è venuto storicamente declinandosi (e continua per molti aspetti ad essere declinato), è difficile negare la centralità dell'uomo, non solo perché essa discende dal primato ontologico ed assiologico della persona, ma anche perché è dalle scelte dell'uomo che dipendono le sorti positive e/o negative dell'evoluzione del mondo naturale.
    Il paradigma al quale occorre riferirsi è quello della responsabilità-solidarietà verso l'intera realtà; paradigma che implica, da un lato, l'allargamento della soggettività in senso analogico secondo un criterio di proporzionalità e comporta, dall'altro, il mantenimento della differenza di status tra la specie umana e le altre specie, e perciò l'assunzione unilaterale di responsabilità da parte dell'uomo nei confronti delle altre specie. Questa asimmetria esistente tra l'uomo e gli altri esseri viventi non va interpretata come una egemonia dispotica, ma come condizione per lo sviluppo di un'armonia solidale, che ha nell'uomo il suo principale artefice [38].
    Antropocentrismo non è dunque sinonimo di prometeismo: la natura non è un oggetto scientificamente conoscibile e tecnicamente controllabile, bensì un fattore costitutivo dell'essere dell'uomo. La corporeità delimita lo spazio dell'esistenza umana in funzione dell'interscambio con altri soggetti umani (e non umani) e con i loro ambiti di vita. L'uomo percepisce il mondo sempre soltanto come ambiente "situato", pur avvertendo che si tratta di un confine aperto. Il riconoscimento del primato dell'uomo si accompagna dunque al rispetto delle altre forme di vita, che godono di una relativa autonomia e vanno integrate in un quadro relazionale (e comunionale) sempre più ampio di cui l'uomo porta la principale responsabilità.
    L'etica ecologica va pertanto concepita come l'istanza che spinge al rispetto dello spazio vitale comune a tutti e che ordina tale spazio verso l'obiettivo di una sempre maggiore liberazione per tutti. Non sono queste del resto le due valenze originarie – ambedue imprescindibili – del termine ethos? In esso confluiscono l'esigenza di adesione alla natura (ethos come "dimora") e la postulazione dell'intervento umano (ethos come "costume", "comportamento"). Il rinvio dell'uomo alla natura significa consapevolezza che egli non rappresenta soltanto se stesso e i suoi interessi, ma che a lui è affidata la responsabilità di ogni essere vivente; significa, in altri termini, che il rispetto della natura deve essere «inteso come un'esigenza posta nel principio stesso di persona» [39].
    I modelli elaborati negli ultimi decenni fanno riferimento a diverse metaetiche, ma sono in ogni caso accomunati da una seria preoccupazione per quanto sta accadendo e dall'esigenza di una svolta radicale. Ad emergere con forza è la necessità di una maggiore conoscenza degli ecosistemi e delle loro leggi in vista della preservazione dei loro equilibri e, più radicalmente, in vista di una più ampia definizione del concetto di "benessere" con la inclusione della realizzazione di tutti gli esseri viventi [40].
    Il dilemma drammatico di fronte al quale siamo oggi posti per la prima volta nella storia è rappresentato dalla necessità di decidere con urgenza se vogliamo una terra abitabile o non abitabile [41]. La mancata tutela della natura si rivela come un comportamento del tutto irrazionale; mentre si fa strada, anche sulla spinta di quella che H. Jonas definisce "euristica della paura", un'etica della prudenza, fondata sul principio di precauzione. Un'etica umile dunque, che fa della responsabilità il proprio imperativo assoluto e che tende a mettere in conto le peggiori conseguenze possibili (in dubio pro malo), regolando su di esse le proprie scelte.
    Le differenze di comportamento, d'altra parte, non sono dovute in molti casi tanto all'antropocentrismo quanto alla concezione che si ha del ruolo della specie umana come un'entità al di sopra del mondo, e dunque dominatrice. Se si abbandona questa prospettiva per fare propria una visione della realtà come tessuto di relazioni, allora l'istanza che ne scaturisce (e che l'etica ecologica deve perseguire) è il rispetto di tutti gli enti secondo il loro ordine. La consapevolezza che l'uomo acquisisce di essere radicato nella natura e di potere insieme trascenderla per conferire ad essa il suo senso ultimo, lo deve spingere ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento di comunione responsabile, che ha come fine la preservazione della sua identità e la sua costante trasformazione migliorativa.

    Si potrebbe anche dire – osserva giustamente A. Auer – che io agisco moralmente bene nella misura in cui agisco in modo ecologicamente corretto. Ciò significa anzitutto che io conosco le leggi e i valori presenti nell'ambito della vita naturale, cioè l'insieme dei rapporti e il loro significato; in secondo luogo, che li ordino al bene comune dell'uomo, in modo che sia l'uomo sia la natura non solo non subiscano alcun danno, ma giungano anche a una ottimale pienezza di senso. La razionalità etica comprende dunque sia la razionalità ecologica (in senso stretto e immediato) sia la razionalità personale e sociale: tutte e due come istanze della realtà stessa, cioè nella loro obbligatorietà [42].

    Verso una ridefinizione del "bene umano"

    La crisi ecologica denuncia uno stato di malessere che riguarda l'esistenza dell'uomo nel mondo e sollecita per superarla la promozione di un modello diverso di sviluppo. Il rapporto con il cosmo va interpretato nel contesto di una giusta percezione di sé, che è condizione per l'esercizio di una responsabilità capace di correlare strettamente senso del limite e impegno a trasformare l'universo materiale nella prospettiva dell'autentica crescita umana. La qualità della vita esige, per essere correttamente definita, una ricomprensione dell'ambiente nel suo significato per l'esistenza umana e la capacità di stabilire con esso un rapporto partecipativo e integrativo [43].
    La determinazione del giusto rapporto tra "natura" e "cultura" reclama l'apertura a una concezione ampia e gerarchizzata della vita. L'atteggiamento ecologico si fonda su un sentimento di intima appartenenza alla natura considerata come un tutto differenziato e strutturato e deve svilupparsi secondo la regola della composizione armonica, della simbiosi e della reciproca interdipendenza. Il criterio che deve guidare gli interventi manipolativi è il riferimento a una visione relazionale della realtà, che, riconoscendo la relativa autonomia dei vari ordini in cui la vita si dispiega, rifiuta ogni intervento indiscriminato nei loro confronti, nella consapevolezza, che da tale intervento non possono che derivare situazioni di squilibrio con pesanti ricadute sulla vita dell'uomo.
    La questione fondamentale riguarda allora – come già si è accennato – il modello di sviluppo e la sua capacità di integrare aspetti quantitativi e qualitativi nella prospettiva di una solidarietà universale di ordine non solo sincronico ma anche diacronico: il bene da perseguire non è infatti limitabile agli esseri esistenti; va anche esteso a quelli che verranno. Alla giusta preoccupazione per un'equa distribuzione dei beni si aggiunge (e deve essere fatta con essa interagire) la preoccupazione per ciò che si produce e per il modo con cui lo si produce. L'agire umano deve fare i conti con un insieme di fattori, che vanno dall'attenzione alla salute alla conservazione delle risorse, dal rispetto per l'ambiente allo sviluppo di forme sempre più profonde di comunicazione tra le persone. È dunque necessario mettere al centro della riflessione il concetto di sviluppo "sostenibile", nel quale interagiscono insieme attenzione all'umanità presente e futura e attenzione al mondo della natura che possiede una propria verità non eludibile [44].

    Stili di vita personali e cambiamenti strutturali

    L'attuazione di questo modello è strettamente dipendente tanto dall'acquisizione di nuovi stili di vita quanto dal prodursi di consistenti cambiamenti strutturali. Come giustamente rileva P. Kamptis,

    il singolo è (e rimane) – certamente nel suo rapporto con la società – la istanza decisiva di un'etica ecologica' [45].

    Da questa convinzione scaturisce un comportamento ecologicamente responsabile, caratterizzato dalla moderazione nei confronti dei consumi e dalla riduzione dei bisogni. Si tratta, in altre parole, di normare il proprio stile di vita su un preciso quadro valoriale, nella consapevolezza che esiste una stretta connessione tra il modo con cui ci si atteggia nei confronti dell'ambiente e il modo di intendere la propria realizzazione. Lo mette bene in evidenza Benedetto XVI nella Caritas in veritate laddove scrive:

    Le modalità con cui l'uomo tratta l'ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all'edonismo e al consumismo, restando indifferente ai danni che ne derivano. È necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, «nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti» (Centesimus annus, n. 36). Ogni lesione della solidarietà e dell'amicizia civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni sociali. La natura, specialmente nella nostra epoca, è talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più una variabile indipendente (n. 51).

    E il Papa prosegue:

    È necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'ecologia umana" è rispettata dentro la società, anche 1"ecologia ambientale" ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l'indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura (n. 51).

    La crisi ecologica è, in definitiva, frutto di una comprensione distorta dell'uomo e della sua realizzazione; comprensione che può essere superata soltanto mediante l'adozione di nuovi modelli comportamentali, caratterizzati dall'attenzione prevalente alla dimensione qualitativa dell'esperienza umana. La sobrietà nell'uso dei beni e il rifiuto degli eccessi del consumismo sono la via da percorrere per restituire la giusta priorità ai beni relazionali e immateriali mediante i quali diventa possibile il perseguimento della felicità.
    Ma le scelte soggettive (per quanto essenziali) da sole non bastano. A dover essere radicalmente riformato è il sistema economico-sociale che l'Occidente ha costruito. Esiste infatti uno stretto (e inseparabile) rapporto tra ambiente e sviluppo, che impone una gestione della questione ecologica in una prospettiva globale con particolare attenzione alla odierna situazione di complessità sociale [46]. Lo sviluppo non è infatti "neutro" sul terreno morale; esige di essere misurato con parametri che rinviano a valori irrinunciabili, se si intende perseguire la promozione umana integrale e plenaria (con l'inclusione delle generazioni future). Questo implica il rispetto di alcune condizioni che Giovanni Paolo II riassume lucidamente nella Sollicitudo rei socialis:

    Il carattere morale dello sviluppo - egli scrive - non può prescindere dal rispetto per gli esseri che formano la natura visibile e che i Greci, alludendo appunto all'ordine che la contraddistingue, chiamavano il "cosmo". Anche tali realtà esigono rispetto, in virtù di una triplice considerazione su cui giova attentamente riflettere. La prima consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri, viventi o inanimati – animali, piante, elementi materiali – come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche. Al contrario, occorre tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato, che è appunto il cosmo. La seconda considerazione, invece, si fonda sulla constatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio, mette seriamente in pericolo la loro disponibilità, non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future. La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate. Sappiamo tutti che risultato diretto o indiretto della industrializzazione è, sempre più di frequente, la contaminazione dell'ambiente con gravi conseguenze per la salute della popolazione. Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l'uso delle risorse e la maniera di utilizzarle non possono essere distanti dal rispetto delle esigenze morali. Una di queste impone senza dubbio limiti all'uso della natura visibile. Il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un dominio assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell'albero" (cfr. Gen 2, 16s.), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali che non si possono impunemente trasgredire (n. 34).

    Le difficoltà che affiorano su questo piano sono particolarmente consistenti; le differenti precomprensioni della realtà, dovute ad opzioni antropologiche e a visioni del mondo differenziate, il crescente divario tra processo tecnico e processo di coscientizzazione, l'intreccio inestricabile tra conoscenza e interesse e lo stretto legame tra giudizi di valore e giudizi di fatto sono i principali fattori che concorrono a rendere complesso il quadro. Se è vero infatti che la ragione etica guidata da criteri di giustizia sociale e di sopportabilità ecologica deve avere il sopravvento sulla ragione strumentale e tecnica, non è meno vero che un modello ecologico adeguato deve essere la risultante della collaborazione tra scienze naturali e scienze sociali, nel contesto di una progettualità politica che sappia coniugare tra loro in modo fecondo i valori dell'identità, della solidarietà e della naturalità.
    La ricerca di soluzioni che sappiano realisticamente mediare istanze tra loro opposte - si pensi soltanto alla difficoltà di rendere tra loro compatibili un'economia fondata sull'espansione con un'ecologia fondata sulla limitazione - evitando sia la tentazione di sterili fughe in avanti sia quella di una acquiescenza passiva allo status quo, implica un'attenzione particolare al legame che intercorre tra ricerca scientifica, applicazione tecnologica e interessi economici e politici'' [47]. La consapevolezza che non esiste una scienza asettica e che le finalità che presiedono agli indirizzi adottati dalla ricerca vanno rintracciate anche negli interessi e nelle pressioni materiali di carattere economico e politico comporta l'assunzione di una responsabilità sociale degli uomini di scienza in relazione tanto agli orientamenti del loro lavoro quanto all'utilizzo dei risultati conseguiti.
    La definizione di un compromesso accettabile tra economia ed ecologia esige l'abbandono di un'ideologia rigidamente produttivista, fondata sul mito del progresso illimitato e l'adozione di scelte, che istituiscano un corretto rapporto tra benefici e costi, privilegiando le ragioni di lungo periodo su quelle di breve termine. Non si deve infatti dimenticare che, anche sotto il profilo economico, è preferibile gestire seriamente l'ambiente piuttosto che risanarlo dopo averlo gravemente degradato. Le soluzioni tecniche vanno allora rintracciate mettendo in atto scelte che garantiscano il risparmio energetico; puntando su una forma di fiscalità che, anziché gravare sul lavoro con tassazioni inaccettabili, prenda di mira soprattutto i consumi; favorendo il risparmio, sia mediante un uso più efficiente delle risorse e un utilizzo più duraturo dei prodotti sia attraverso la produzione su larga scala di tecnologie ecologicamente sensibili; infine, internalizzando adeguatamente i costi ecologici nei prezzi di mercato [48].
    Infine, uno sviluppo economico a misura umana suppone una riforma sociale che crei le condizioni per un sempre maggiore inserimento dei diversi soggetti individuali e collettivi nella rete istituzionale e informale della società. La restituzione di alcune funzioni alle soggettività sociali e l'adozione di criteri di flessibilità consentono il ridimensionamento delle macrostrutture industriali e l'utilizzo, specialmente in alcuni settori, delle piccole tecnologie, mentre la ristrutturazione della politica secondo logiche di decentramento partecipativo favorisce lo sviluppo di attività più controllabili, gestite con maggiore attenzione alle persone e con un uso migliore delle risorse ambientali.

    La definizione delle "regole" per un'etica del rischio

    L'approccio etico alla questione ecologica esige poi anche la definizione di norme che consentano di assumere immediate decisioni operative. Il modello etico al quale occorre, in proposito, fare appello è il modello di una etica della responsabilità [49] che sappia valutare obiettivamente il peso delle azioni, giudicandone di volta in volta le conseguenze. La difficoltà ad applicare oggi tale modello è costituita dall'impossibilità di conoscere con precisione e a priori gli effetti delle azioni. La sostituzione dei sistemi naturali con sistemi artificiali e l'estendersi di una regolazione a tutti gli ambiti della vita hanno provocato l'accentuarsi di una situazione di rischio, che esige, per essere affrontata, l'adozione di specifiche misure.
    A determinare questa situazione è la complessità della società odierna, nella quale i processi sociali sono tra loro strettamente interrelati, hanno cioè il carattere di fattori di un sistema, i quali interagiscono tra loro in modo non lineare con effetti sempre più ampi [50]. L'enorme potere di trasformazione della realtà derivante dall'uso delle moderne tecnologie dà infatti luogo allo sviluppo di processi con ricadute in tempi lunghi e con l'impossibilità di previsioni "esatte" in partenza. D'altra parte, le diverse forme di intervento dell'uomo sulla natura (e su se stesso) si inseriscono nel contesto di un sistema già fortemente manipolato dando vita a reazioni difficilmente controllabili. È dunque sempre più ardua la programmazione del futuro, mentre le scelte che si operano sono inevitabilmente destinate a condizionarne – nel bene e nel male – lo sviluppo.
    La necessità di una visione sistemica si scontra con l'oggettiva difficoltà ad acquisirla a causa del cumulo (e della diversità) degli elementi in gioco che alimentano lo stato di precarietà. Lo stesso contributo della ricerca scientifica non è risolutivo: la varietà degli approcci al reale da essa forniti rende trasparente la sua non obiettività. La scienza è sempre più ridimensionata a "sottosistema", nel momento in cui appare peraltro ineludibile il suo apporto per fornire spiegazioni plausibili a fenomeni non semplici. A ciò si aggiunge – e non è fattore di poco conto – la tendenza alla specializzazione la quale porta con sé la frammentazione delle competenze, facendo prevalere visioni settoriali che contraddicono l'esigenza di una valutazione "pluridimensionale" imposta dall'interconnessione dei problemi da affrontare e accrescono il pericolo di scorciatoie tecnocratiche.
    Il paradigma etico che occorre approntare deve essere pertanto finalizzato a fornire "regole" per agire in uno status di insicurezza dovuto alla persistenza di un inevitabile margine di errore. Gli scenari in cui si valutano le previsioni dell'impatto ecologico sull'ambiente presentano infatti limiti oggettivi e l'applicazione dell'approccio "teleologico", basato sulla proporzionalità esistente tra effetti positivi e negativi delle azioni, deve pertanto essere temperato dall'utilizzo di criteri prudenziali, che limitino in partenza ricadute devastanti non immediatamente prevedibili. Partendo da questo assunto H. Jonas ha formulato il principio secondo cui, in assenza di previsioni esatte, la scelta va fatta mettendo in conto le peggiori conseguenze possibili e adottando il criterio del male minore [51].
    L'articolazione di questo principio prudenziale implica la ricerca di strumenti sempre più precisi (perciò affidabili) di calcolo del rischio, che consentano di stabilirne il grado di prevedibilità, l'entità reale e il rapporto tra capacità di previsione e potere di controllo. Ma, non essendo il rischio mai totalmente codificatile, è essenziale la definizione di "regole" generali per la condotta. Grande importanza assume in questo quadro l'attenzione alla reversibilità delle scelte – la gravità della situazione rende necessaria come condizione per conferire legittimità all'intervento la possibilità del suo arresto [52] –; o al significato decisivo che riveste il controllo dell'equa ripartizione delle conseguenze negative dell'intervento per evitare che ricadano soltanto su alcuni soggetti; o, infine, alla necessità di impegnarsi in un controllo costante degli effetti per scoprire gli scarti esistenti rispetto alle previsioni e per modificare le decisioni in caso di pericolo. L'efficacia di queste regole dipende poi – è bene ricordarlo – dall'assunzione di habitus soggettivi, quali la prudenza e la vigilanza, destinate rispettivamente a suscitare una grande cautela nei confronti degli interventi manipolativi e a seguirne con attenzione l'evolversi per evitare le ricadute negative che si possono manifestare a distanza di tempo [53].

    L'esigenza di una democratizzazione delle decisioni

    Ma l'adozione di atteggiamenti prudenziali non basta. È anche necessario dare vita alla ricerca di percorsi alternativi che conducano a risultati praticabili nel pieno rispetto dell'ambiente. Uno dei campi di primaria importanza è, al riguardo, quello energetico. La gravità dell'effetto serra, cioè dell'assottigliamento dello strato di ozono con esiti che in parte già sperimentiamo – basti ricordare la progressiva riduzione dei ghiacciai che, oltre a fungere da essenziale termostato, assicurano la stabilità delle acque –, pone la questione dello studio e della sperimentazione di "energie pulite", per le quali si esige un consistente impiego di risorse economiche e una precisa volontà politica.
    Al di là di questioni particolari essenziale appare il coinvolgimento di tutti gli attori sociali nelle decisioni, evitando di demandare esclusivamente agli uomini di scienza (o peggio ai soli tecnici) il compito di dare risposta a questioni di grande respiro che hanno ripercussioni pesanti sul futuro dell'umanità e del mondo. Perché questo avvenga è fondamentale fornire informazioni documentate, che diano obiettivamente conto dei problemi, promuovendo un'interfaccia tra scienza e società basato su una reciproca disponibilità alla comunicazione.
    Solo a queste condizioni è possibile pervenire a decisioni che tengano nel dovuto conto istanza partecipativa e competenza. Se infatti non si può sottovalutare l'importanza della competenza scientifica, non si deve rinunciare alla presenza sempre più ampia della società, soprattutto nel momento decisionale. Il consenso sociale è la sola via per scongiurare la tentazione del pragmatismo, che conduce alla de-eticizzazione delle scelte. E soprattutto per giungere alla produzione di regole condivise, che riflettano l'insieme delle esigenze presenti nella comunità umana e divengano garanzia di attenzione al bene dell'umanità.
    Ciò che va, in definitiva, coltivato è un atteggiamento che aiuti a inserire l'attenzione alla natura entro una rete allargata di rapporti tra loro interdipendenti, coniugando compatibilità ambientale con solidarietà sociale, rispettando cioè il linguaggio e i ritmi della natura e ricercando i più alti livelli di comunione interumana. Il mondo è infatti in intima connessione con l'uomo e con la sua libertà, ma non bisogna dimenticare, come giustamente osserva C. Vigna, che

    la relazione dell'uomo alla natura è libera solo in parte. Ne segue che alcune forme della natura, di cui l'uomo come singolo o come specie ha assolutamente bisogno per assicurare la propria sopravvivenza e che fungono perciò da parti integranti del lato naturale-organico della vita umana, sono da rispettare in ogni caso. Non rispettarle significherebbe, sul piano delle relazioni simboliche, trattare l'uomo, ancora una volta, come mezzo (della propria sete di potere, della propria cupidigia, ecc.) e non come fine [54].


    NOTE

    1 Nel contesto del dibattito sviluppatosi, negli ultimi decenni, sulla collocazione dell'etica ecologica sono emerse due posizioni diverse, le quali sostengono l'una che essa appartiene di diritto all'area della bioetica, l'altra che deve essere invece considerata un capitolo dell'etica sociale. Per questa ultima posizione cfr. A. BONANDI, «Sulla concezione dell'etica ambientale», in AA. AA. VV., Questione ecologica e coscienza cristiana, a cura di A. Caprioli – L. Vaccaro, Brescia 1988, 198. Ambedue le posizioni sono plausibili: alla bioetica compete infatti l'approccio ai problemi ambientali nella prospettiva dell'attenzione al valore della vita e alla necessità di definire gli equilibri tra i diversi ecosistemi; mentre spetta all'etica sociale l'istituzione del rapporto tra ambiente e sviluppo economico-sociale e la definizione dei parametri in base ai quali valutare la crescita umana.
    2 Le dimensioni allarmanti della questione ecologica sono state, negli ultimi anni, ampiamente illustrate dalla ricerca scientifica. Sul versante delle risorse disponibili è sempre più frequente il rimando al secondo principio della termo-dinamica, cioè alla legge dell'entropia, per denunciare il graduale passaggio da energie utilizzabili alla loro non utilizzabilità (cfr. in proposito il testo classico di J. RIFKIN, Entropia, la fondamentale legge della natura da cui dipende la qualità della vita, Milano 1982). Sul versante dell'inquinamento ciò a cui si assiste è il progressivo deterioramento degli elementi fondamentali della vita (aria, acqua, terra) come effetto di fenomeni sempre più consistenti, quali le piogge acide, l'effetto serra, le centrali nucleari, l'uso dei pesticidi, ecc. L'impatto della "complessità tecnologica" sulla natura si è di fatto tradotto in una riduzione della "complessità biologica" e in un grosso rischio per la sopravvivenza dei sistemi naturali. La difficoltà della ricerca di un equilibrio ecologico è data, oltre che dalla sempre più stretta correlazione tra i sistemi, dalla frammentazione delle conoscenze e del sapere, e perciò dall'impossibilità di verificare gli effetti a lungo termine. A sollevare agli inizi degli anni '70 del secolo scorso la questione è stato il famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo stilato dal MIT per il Progetto del Club di Roma (cfr. D.H. MEADOWS - D.L. MEADOWS - J. RANDERS - W.W. BEHRENS, I limiti dello sviluppo, Milano 1972). Tra i testi classici che offrono preziose indicazioni per un approccio corretto ai problemi sul tappeto, segnaliamo: B. COMMONER - V. BETTINI, Ecologia e lotte sociali. Ambiente, popolazione, inquinamento, Milano 1976; V. SHIVA, Sopravvivere allo sviluppo, Roma 1990; PH. PARAIRE, L 'utopie verte. Ecologie des riches, écologie des pauvres, Paris 1992; M. YUNUS, Il banchiere dei poveri, Milano 1998.
    3 Le difficoltà a valutare l'entità del problema ecologico nascono dalle stesse "incertezze" della scienza, cioè dall'indeterminazione del sapere in campo scientifico, dalla complessità delle conoscenze, dalla mancanza o insufficienza dei dati, dall'imprevedibilità degli esiti e dal carattere stocastico delle previsioni in molti settori dell'indagine naturalistica. Nonostante la difficoltà ad esprimere posizioni certe e univoche, per lo stato di complessità e per le divergenze spesso presenti anche a livello dei dati scientifici, emergono tuttavia chiare alcune costanti e indiscutibile l'esigenza di alcuni orientamenti di fondo da assumere se si vuole avviare un processo di cambiamento (cfr. B. WYNNE, Uncertainty and Environmental Learning: Reconceiving Science and Policy in the Preventative Paradigma, in "Global Environmental Change", 'une 1992, 111-127).
    4 Le emergenze ambientali più significative, che danno il senso e le dimensioni della crisi ecologica, sono diverse: dall'alterazione dello strato protettivo di ozono con il rischio del surriscaldamento dell'atmosfera e della terra – il cosiddetto "effetto serra" – all'incremento della desertificazione e delle piogge acide; dall'aumento di salinità dei suoli e dei sottosuoli, con il conseguente abbassamento del loro tasso di fertilità, all'avanzare del biotech, ossia della riduzione della diversificazione genetica presente sul pianeta, a causa dell'estinzione di molte specie animali e vegetali; dall'inquinamento di aria, acqua e suoli, anche per la oggettiva difficoltà dello smaltimento dei rifiuti tossici o nocivi(comprese le scorie radioattive) all'esaurimento di risorse naturali non rinnovabili e all'aumento incontrollato dei consumi energetici, fino all'avanzare in maniera esponenziale della crescita demografica. Nell'ormai lontano 1971 il noto ecologo e saggista americano Barry Commoner nel suo famoso Il cerchio si chiude aveva chiaramente preannunciato questi effetti, denunciando che gli uomini avrebbero spezzato il "cerchio" della vita biologica della natura spinti da un'organizzazione economico-sociale tesa a conquistare la terra senza alcun riguardo per gli equilibri ecologici.
    5 Il concetto di "natura" è in realtà molto ampio: in un senso generale può essere identificato con l'ambiente non prodotto dall'uomo e concepito come un tutto, che include gli enti fisici non umani, nella loro specifica individualità, ma anche i processi biochimici sottesi alla produzione e alla riproduzione della vita, i sistemi ecologici presenti sulla terra, i meccanismi di regolazione e di autoregolazione della biosfera. La natura è dunque un sistema (o una struttura) di relazioni biotiche interdipendenti, dove le varie entità sono regolate all'interno da leggi analizzabili che presiedono al funzionamento dei diversi ecosistemi e garantiscono l'equilibrio dell'insieme. L'intervento dell'uomo introduce senza dubbio elementi nuovi, cioè "beni ambientali" di propria produzione che conferiscono alla problematica ecologica un taglio nuovo legato non solo al rapporto uomo-natura, ma anche (e ancor più) al rapporto uomo-storia. Cfr. S. LANGE, "Ecologia e tutela dell'ambiente costruito", in AA. VV., Questione ecologica e coscienza cristiana, a cura di A. Caprioli – L. Vaccaro, Brescia 1988, 55-67.
    6 Ha luogo in questo modo la riduzione della natura a contenitore di oggetti meramente funzionali alle esigenze umane o del tutto al servizio dell'uomo come unico ed esclusivo titolare dello ius subiectivum. Una accurata analisi di questi aspetti, con particolare riferimento alla categoria di "progresso" così come si è sviluppata in epoca moderna si trova in AA.VV., La categoria del progresso tra mito e realtà, a cura di Gregorio Piaia, Padova 1988.
    7 Qualcuno afferma trattarsi, al riguardo, di "antropocentrismo funzionalistico" che considera la natura in termini di oggetto e quantità e il rapporto uomo-natura in termini di causa-effetto, sfruttamento e semplice strumentalità.
    8 R. BAADER, Ober den Zwiespalt des religiösen Glaubens und Wissen, Darmstadt 1958, 49.
    9 Per una puntuale e stringata ricostruzione critica della cultura dei "verdi", cfr. G. ANGELINI, La cultura al 'verde'. I molti volti del pensiero ecologico, in "Rivista del Clero Italiano", 11 (1988), 729-741. L'assenza di una precisa distinzione tra uomo e natura, tra io e mondo conduce – paradossalmente – tanto alla sacralizzazione della natura quanto all'assunzione dell'atteggiamento prometeico, che è il tratto dominante della attuale civiltà tecnologica.
    10 La lettura simbolica della realtà trova - come vedremo in seguito - la sua più alta espressione nel dinamismo sacramentale cristiano.
    11 La tesi è condivisa da un consistente numero di uomini di pensiero, i quali parlano, di volta in volta, di "arroganza cristiana" L. Whithe), di "religione della crescita esponenziale" (J. W. Forrester), di "idea giudaico-cristiana del dominio illimitato" (C. Amery). Ad essi si aggiungono molti uomini di scienza, quali J. Monod, I. Prigogine, A. N. Whitehead, ecc. Secondo tali AA. sarebbe da addebitare soprattutto a Gen 1, 28 (dominium terrae) la responsabilità del disastro ecologico, che ha avuto luogo in Occidente con lo sviluppo dell'industrializzazione. Ora, al di là dell'interpretazione che si può dare del versetto della Genesi, che secondo alcuni esegeti altro non sarebbe che il tentativo di razionalizzare a posteriori i conflitti originati da un sistema di vita fondato su livelli avanzati di sfruttamento delle risorse naturali, non è fuori luogo ricordare che pesanti forme di manipolazione dell'ambiene sono presenti anche nell'animismo pagano, e non solo presso le religioni monoteistiche. Per un ulteriore approfondimento del problema, cfr. U. KROLZIK, Umweltkrise, Folge des Christentums?, Stuttgart 1979; 0. JENSEN, Unter dem zwang des Wachstums. Oekologie und Religion, Miinchen 1977 (vengono qui rintuzzate le obiezioni circa la responsabilità del giudeo-cristianesimo, mentre si riconosce che la comprensione occidentale della realtà ha determinato forme di grave culturimperialismo ,); AA. VV. Überleben Wir die Zukunft. Umweltkrise materielle und ethische Aspekte, a cura di E. Pies, Stuttgart 1979 (Gli AA. sottolineano l'esigenza di una revisione della ricezione troppo "calvinista" del precetto del dominium terrae, insistendo sul fatto che una rinnovata lettura della categoria di creazione implica il rapporto con la responsabilità umana).
    12 Cfr. A. GANOCZY, Der Schöpferische Mensch und die Schöpfung Gottes, Mainz 1976, 133.
    13 C. Westermann, polemizzando con Von Rad, sostiene che il pensiero della creazione dovette precedere quello dell'alleanza, non fosse altro perché si trattava di un luogo comune delle culture medio-orientali. Il suo carattere di verità ovvia avrebbe fatto sì, secondo tale A. che lo si desse per scontato, e non lo si proponesse in prima istanza (cfr. C. WESTERMANN, Creazione, Brescia 1974). Si può senz'altro accettare questa tesi, ma rimane in ogni caso evidente dalla lettura dei testi di Gen 1-2 che l'idea di creazione si inscrive teologicamente nell'orizzonte dell'alleanza. Del resto lo stesso Westermann ammette che l'esplicitazione dell'idea di creazione, che era in Israele più che oggetto di fede presupposto basilare dei suoi abiti mentali, avviene a causa della situazione di crisi di fede e di fiducia nell'alleanza prodottasi soprattutto nel periodo dell'esilio.
    14 Esistono degli antecedenti della fede biblica nella creazione in alcuni testi storici (cfr. Dt 25, 1-10; Gs 10, 15-18; Gdc 4-5; Es 15, 1-18). Tutti questi testi sono peraltro finalizzati a mettere in luce la signoria che Dio esercita sulla natura in funzione della salvezza storica del popolo.
    15 È soprattutto Isaia a contrapporre gli dei, che sono tohu (cioè nulla, caos: cfr. 41, 29; 43, 10), al mondo che è il non-tohu (cioè qualcosa di realmente consistente, il non caotico, il cosmos: cfr. 45, 18). Ed è ancora Isaia ad usare abbondantemente il termine bara – circa un terzo delle oltre quaranta volte in cui compare nell'AT. – per designare l'atto con cui Dio conferisce l'esistenza alla realtà.
    16 La narrazione dello yahvista (Gen 2, 4b-25) non è infatti un racconto di creazione; è il preambolo al cap. 3 che riguarda l'origine del male.
    17 Il testo sacerdotale è probabilmente frutto dell'accettazione in blocco, da parte dell' agiografo, di un racconto mitico preesistente. Tale derivazione spiega la presenza di alcuni elementi comuni a tradizioni extrabibliche. Ciò che, d'altra parte, l'autore sacro intende evidenziare è la relazione intercorrente tra il mondo e Dio; una relazione per la quale il mondo ha un principio e il tempo con lui. Il fatto che la descrizione di tale origine avvenga secondo il modello di un ordine dato al caos su cui Dio lavora non deve meravigliare. Per la mentalità semitica, che procede per immagini e non per concetti astratti, un inizio dallo zero assoluto risulterebbe non rappresentabile, e dunque inconcepibile. Di grande interesse è, in ogni caso, la chiara indicazione che tutto ciò che si verifica fin dall'origine trova la sua ragione e la sua finalità nella volontà di trasmettere la notizia che la vocazione di Abramo risale al disegno primordiale.
    18 A. BONORA, «L'uomo coltivatore e custode del suo mondo in Gen I-II», in AA. VV., Questione ecologica e coscienza cristiana, a cura di A. Caprioli – L. Vaccaro, Brescia 1988, 157.
    19 Cfr. M. CIMOSA, L'uomo e il cosmo, in "Parole di vita", 28 (1983), 423-434. Cfr. anche B.W. ANDERSON, «Creation and ecology», in B.W. ANDERSON (ed.), Creation in the Old Testament, Philadelphia-London 1984, 152-171; O.H. STECK, Welt und Umwelt, Stuttgart-Berlin-Mln-Mainz 1978.
    20 "Soggiogare" indica la presa di possesso di un territorio o anche di popoli e nazioni (Lohfink), mentre "dominare" significa pascolare, condurre, guidare. E significativo che la trasformazione voluta da Dio abbia il suo apice nell'erezione del santuario (Es 25).
    21 Il termine `abad (coltivare) indica anche il servizio cultuale, mentre samar (custodire) esprime tanto la fedeltà di Dio che la fedeltà dell'uomo a Dio. Il compito dell'uomo verso il mondo trova del resto il suo momento più alto nella celebrazione del sabato (cfr. Dt 5, 15; Es 20, 11). Per lo sviluppo di questi temi, cfr. L. ALONSO SCHÖKEL, Tecnologia, ecologia, contemplazione, in "Civiltà Cattolica", 138 (1987), III, 105-114.
    22 "Secondo Gen 1 27-30 l'uomo deve dominare sulla terra secondo l'esempio di Dio e come suo custode, vale a dire che a lui è affidata la cura della terra e di essa è responsabile davanti a Dio. Di conseguenza Gen 2, 15-16 definisce il compito del dominio come compito di cultura. Obbliga l'uomo a custodire e a coltivare (solere ) la natura; il contrario di un puro sfruttamento della natura" (W. KASPER, «La sfida ecologica alla teologia», in AA. Vv., Questione ecologica e coscienza cristiana, a cura di A. Caprioli - L. Vaccaro, Brescia 1988, 135).
    23 Nei Salmi non si insiste soltanto sull'atto creatore, ma anche sulla cura continua di Dio verso le sue creature (Sal 145, 15; 147, 8; 104, 13ss.).
    24 L'idea dell'onnipotenza divina, per cui la qualità più propria della divinità è la potentia absoluta viene dal Nominalismo e dal Rinascimento. L'uomo, immagine di Dio in terra, aspirerà allora al potere e al predominio.
    25 Sul rapporto tra antropologia e cristologia, e in particolare sullo sviluppo della tesiper cui la cristologia è un'antropologia realizzata, cfr. K. RAHNER, «Problemi della cristologia d'oggi», in ID., Saggi di cristologia e di mariologia, Roma 1992.
    26 La fede creazionista dell'AT conserva intatto il suo valore. Non solo le cose vengono da Dio (1 Cor 11, 12 e 10, 26), ma sono anche da lui conservate nell'essere. Nel NT tuttavia emergono aspetti di novità legati soprattutto alla nuova prospettiva cristologica. Cristo non è solo principio della creazione ("primogenito di tutta la creazione"), ma è anche centro e fine (Col 1, 15-20). La collocazione della creazione sotto il segno dell'incarnazione ne rivela il destino ultimo (Ef 1, 3-14). Il Logos, che culmina nell'incarnazione, unifica definitivamente creazione e salvezza (Gv 1 1-14).
    27 Lo stretto legame tra cosmo e umanità è la ragione per cui, già nell'AT., si fa strada la convinzione che la corruzione umana si espande alla sfera infraumana (Gen 1-11): la violenza dell'uomo contamina il suolo. Nei profeti tale relazione è ulteriormente esplicitata mediante la messa a fuoco dell'interdipendenza tra ingiustizia, come opposizione alla Torah, e calamità naturali. La letteratura sapienziale assume invece il dato della creazione come ingrediente di una specie di teodicea elementare e come fondamento , dell'ordine morale stabilendo sotto l'influsso del pensiero ellenistico, una rigida correlazione tra i due ordini (cfr. Pt 3, 19-21; 8, 22-23), che verrà giustamente messa in crisi dai libri di Giobbe e dell'Ecclesiastico.
    28 J. L. DE LA PEÑA, Teologia della creazione, Roma 1981, 81. Lo stesso A. aggiunge più avanti: «Chi confessa che il mondo è il prodotto dell'amore, e che tale amore creatore è giunto all'estremo di farsi creatura, è obbligato ad accogliere con sano ottimismo il suo incardinamento in esso» (o.c., 133). Ancora più radicali sono alcune affermazioni' J. Moltmann: «La fede in Dio creatore – osserva – non si concilia con l'aspettativa apocalittica di una totale annihilatio mundi. Ad essa rispondono piuttosto l'attesa e l'anticipazione attiva della transformatio mundi... L'escatologia altro non è se non una fede nel Creatore proiettata verso il futuro. Chi crede che Dio abbia creato l'essere dal Nulla, crede anche in un Dio che vivifica i morti. Ed allora crede pure nella nuova creazione di cieli e terra. La sua fede lo rende capace di resistere all'annientamento anche dove, dalpunto di vista umano, non vi èpiù motivo di sperare. La sua speranza in Dio gli impone di essere fedele alla terra» J. MOLTMANN, Dio nella creazione, Brescia 1988, 117).
    29 È evidente come laquestione ecologica postuli l'esigenza di un nuovo modo di "pensare Dio". Si tratta dell'esigenza di una nuova "teologia naturale", non come presupposto ma come conseguenza della fede.
    30 La fede biblica si oppone al mito dell'eterno ritorno, cioè a una concezione ciclica, arcaica del tempo, ma non la sostituisce con la visione lineare moderna della storia, bensì con la concezione messianica del tempo, quella che distingue qualitativamente passato e futuro, non più ridotti ad un'unica e medesima linea. Il concetto di creatio ex nihilo instaura, fin dalperiodo patristico, una rottura categorica nei confronti della cosmovisione ellenistica, sia per quanto riguarda laquestione delle origini che la questione del valore della materia. Si fa infatti chiaramente strada la distinzione tra Dio e mondo, mentre viene, nello stesso tempo, affermata la bontà della materia. Più complesso è il discorso relativo all'interpretazione della creatio in tempore, ritenuta da Tommaso d'Aquino una verità di fede (non razionalmente dimostrabile), come lo è invece la creatio ex nihilo (S. Th. I, 1 46, a. 2). Si deve, d'altronde, riconoscere che il privilegio, e laquasi egemonia, che la Scolastica ha attribuito, nell'interpretazione della creazione, alla causalità efficiente a scapito della causalità esemplare e finale, ha concorso ad impoverire il dinamismo dell'opera di Dio, trasformandola in un' attività statica. Questa visione fissista verrà ulteriormente accentuata dalla Scolastica ost-tridentina, la quale tenderà ad elaborare una dottrina della creazione nel quadro di una teologia naturale, privilegiando gli argomenti metafisici a scapito di quelli biblici. Diversa è invece la posizione della Riforma, caratterizzata da un forte ricupero del significato storico-salvifico e cristologico della creazione. L'accento cristologico consente di fondere armonicamente le due grandi forme della causalità – efficiente e finale – perché in Cristo creazione e salvezza sono perfettamente compenetrate. Di grande interesse è, a tale proposito, la riflessione del Vaticano II. La Gaudium et spes propone un'immagine dinamica del mondo, contemplato come processo aperto, in cui interviene anche l'opera dell'uomo, che prolunga e attualizza l'opera di Dio (n. 34). La dottrina conciliare della creazione implica il riconoscimento dell'autonomia delle realtà terrestri (n. 36) e il ricupero della dimensione cristologica e storico-salvifica (n. 38), mettendo a fuoco l'importanza della causalità finale.
    31 Cfr. G. ANGELINI, «Questione ecologica e coscienza cristiana», in AA. VV., Questione ecologica e coscienza cristiana, a cura di A. Caprioli - L. Vaccaro, Brescia 1988, 13.
    32 Il rapporto tra "natura" e "grazia" è in vista della "gloria" che porta a compimento tanto la natura quanto la grazia.
    33 "Il sabato - ha scritto Fr. Rosenzweig - è la festa della creazione, ma di una creazione volutaper la redenzione. Manifestamente esso si trova alla fine del creato, di cui sarà allora il senso e il fine" (FR. ROSENZWEIG, Der Stern der Erlösung, Heidelberg 1959, 69).
    34 Tra le numerose opere di carattere etico sull'ecologia, segnaliamo: TH. DERR, Ecologia e liberazione umana, Brescia 1974; A. AUER, Etica dell'ambiente. Un contributo teologico al dibattito ecologico, Brescia 1988; S. BARTOLOMMEI, Etica e ambiente. Il rapporto uomo-natura nella filosofia morale contemporanea di lingua inglese, Milano 1989; ID., Etica e natura, Bari 1995.
    35 La cosiddetta Deep ecology, nelle sue diverse versioni, ha introdotto nell'etica il punto di vista della "natura", facendo propria l'assunzione di una prospettiva ecosistemica, volta a decentrare le posizioni degli esseri umani nel mondo per riconoscere anzitutto valore alle totalità naturali a prescindere da qualsiasi utilità umana. A. Leopold è colui che per primo ha coniato l'espressione "etica della terra" (Land Ethic), provocando il passaggio da una visione del rapporto uomo-natura come moralmente neutro a una visione di tale rapporto come altamente significativo, operando perciò una vera e propria rivoluzione copernicana (cfr. A. LEOPOLD, L'etica della terra, in "Critica marxista", 4/1987, 113-123). Ad essere messa radicalmente in discussione è la legittimità di un trattamento etico differenziato nei confronti della natura rispetto agli esseri razionali. Mettendo sullo stesso piano uomo e natura o riconducendo l'uomo ad essa – come vuole la posizione fisiocratica per la quale l'uomo è natura e la natura avanza epensa in lui – si giunge inevitabilmente a ridurre l'uomo a puro mezzo per lo sviluppo della natura. Cfr. K.M. MEYER-ABICH, Wege zum Frieden mit der Natur, München-Wien 1984.
    36 Cfr. J. CARMODY, 'Saggezza ecologica' e la tendenza a una rimitologicizzazione della vita, in "Concilium", 27 (1991), 572ss.
    37 Sulla questione della soggettività animale e dei diritti che ad essa afferiscono, cfr. T. REGALA, I diritti degli animali, Milano 1990; P. SINGER, Liberazione animale, Milano 1991 S. CASTIGNONE (a cura di), I diritti degli animali, Bologna 1985.
    38 Per ulteriori approfondimenti, cfr. AA. VV., La nostra responsabilità per la natura, Milano 1986.
    39 W. KORFF, Technik-Oekologie-Ethik, Köln 1982, 10. Per ulteriori approfondimenti, cfr. Anche W. WRIGHT, Wild Knowledge. Science, Language and Social Life in a Fragile Environment, Minneapolis 1992.
    40 Cfr. A tale riguardo S. BARTOLOMMEI, Etica e natura, Roma-Bari 1995. Il testo di Bartolommei offre un quadro analitico preciso delle posizioni presenti oggi nel campo dell'etica ecologica, assumendo una posizione vicina al biologismo moderato che può essere definita come sensiocentrica. La sua tesi ,
    fa infatti scaturire i doveri verso l'ambiente da quelli che si hanno verso gli esseri senzienti che di tale ambiente beneficiano. Non si trattaperciò di stretti doveri verso gli ecosistemi, ma di doveri contingenti posti da esseri umani la cui doverosità nasce dall'esigenza di salvaguardare gli interessi di altri esseri, che verrebbero altrimenti gravemente danneggiati.
    41 Per un'analisi della gravità della situazione, cfr. V. HÖSLE, Filosofia della crisi ecologica, Torino 1992; C. MERCHANT, La morte della natura, Milano 1988.
    42 A. AUER, Etica dell'ambiente, Brescia 1988, 68.
    43 Alla radice della separazione uomo-natura vi è spesso l'incapacità dell'uomo di integrare in se stesso la propria corporeità. Rifiutando di accogliere la sua fondamentale unità di corpo e di spirito, e perciò di vedere lo spirito nel corpo, l'uomo ha finito per considerare lo spirito come quella capacità di riflessione mediante la quale egli si contrappone a se stesso e si stacca dal proprio corpo. Ciò dà luogo alla nascita di un sapere che tende a vivisezionare e ad oggettivare la realtà, e non invece a un sapere integrativo per il quale gli oggetti vengono inseriti nel loro "mondo di vita".
    44 La nozione di "sviluppo sostenibile" è stata introdotta nel 1987 dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite. Tale dizione intende sottolineare l'esigenza di puntare su uno sviluppo che risponda alle istanze del presente senza compromettere quelle delle generazioni future; uno sviluppo che tenga conto della dimensione ecologica, sociale ed economica. Risulta evidente che l'ecologia non è qui considerata come un aspetto aggiuntivo dello sviluppo economico, ma che è la stessa idea di sviluppo a dover contenere fin dall'inizio il riferimento al legame intrinseco esistente tra ecologia, economia e contesto socioculturale. Il principio di sostenibilità va allora strettamente collegato con il principio di solidarietà per fare dello sviluppo sostenibile un processo aperto, che coinvolga l'impegno dei vari attori sociali e favorisca i circuiti economici più limitati contribuendo a promuovere una democrazia partecipata. Interessanti osservazioni al riguardo si trovano in K. GOLSER, Il principio sostenibilità, in "Rivista di teologia morale", 128 (2000), 497-500.
    45 P. KAMPTIS, «Natur als Mitwelt», in O. SCHATZ (ed.), Was bleibt den Enkeln? Die Umwelt Lebensweise. Behelf zum Schwerpunktthema der Kath. Action Österreichs, Wien 1979, 79.
    46 In questo senso Edgar Morin definisce l'ecologia "scienza della complessità", evidenziandone la natura sistemica dovuta alla necessità di fare i conti con un insieme sempre più esteso di variabili. Cfr. E. MORIN, Il pensiero ecologico, Firenze 1988.
    47 Cfr. G. LIEDKE, Im Bauch des Fisches, Stuttgart 1979. Il presupposto da cui l'A.prende avvio nell'avanzare la sua proposta etica è quello di una solidarietà uomo-natura fondata su una comprensione "simbolica" della natura. Nell'approccio etico concreto egli richiama poi la dottrina del "male minore" e del "compromesso etico".
    48 Cfr. a taleproposito E.U. WEISZÄCKER –A.B. LOVINS - L.H. LOVNS, Fattore 4. Come ridurre l 'impatto ambientale moltiplicando per quattro l'efficienza della produzione, Milano 1988.
    49 Il concetto di etica della responsabilità, nella sua formulazione moderna, risale a Max Weber (cfr. Scienza come vocazione e altri testi di etica, Milano 1966), che la distingue, senza peraltro contrapporla, dall'etica etica della convinzione, la quale punta sul perseguimento del valore in sé o sulla semplice testimonianza non curandosi delle conseguenze dell'azione. La categoria di "responsabilità" è divenuta oggi una categoria fondamentale di interpretazione dell'agire morale attorno a cui convergono etica laica ed etica di ispirazione cristiana. Per l'approfondimento dei significati che si attribuiscono a tale categoria, cfr. AA. VV., La responsabilité. La condition de notre humanité, Paris 1994; AA. VV., La responsabilité. Questions philosophiques, Paris 1997; AA. VV., Libertà ed etica della responsabilità, Assisi 1997.
    50 Cfr. R. HOLSCHI (a cura di), La società a rischio, in NZZ, 31 gennaio 1990.
    51 Cfr. H. JONAS, Il principio responsabilità, Torino 1990.
    52 Al di là dei rischipiù immediati dovuti all'assenza di misure di controllo adeguate – si pensi al caso Chernobil – è questa la ragione che alcuni adducono per esprimere un giudizio negativo a proposito del cosiddetto "nucleare di fissione" (cfr. G. PIANA, «La questione del nucleare. Orientamenti etici», in AA. VV., Questione energetica e questione morale, Bologna 1990, 139-159).
    53 Sul piano etico interessanti sono i saggi di M.C. TALACCHINI, «Dall'ambiente dei valori all'ambiente della partecipazione» e di G. L. BRENA, «Globalizzazione ed ecologia» (ambedue i saggi sono presenti nel volume di AA. Vv., Etica pubblica ed ecologia, a cura di G. L. Brena, Padova 2005, rispettivamente alle pp. 107-144 e 219-247).
    54 C. VIGNA, «Per la costruzione di un'etica dell'ambiente», in AA. VV., Questione ecologica e coscienza cristiana, a cura di A. Caprioli - L. Vaccaro, Brescia 1988, 179.

     

    BIBLIOGRAFIA

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    (In novità di vita, III. Morale socioeconomica e politica, Cittadella 2013, pp. 309-350)


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