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    Il principio di gratuità

    Una risposta cristiana alla sfida ecologica

    Christoph Theobald


    La maggior parte dei testi che si esprimono a favore della "decrescita" obbediscono al genere letterario della denuncia profetica, se non della minaccia. E con buone ragioni. Perché - c'è bisogno di ridirlo? - in ambito ecologico qualcosa di irreversibile è già avvenuto. Ma allora, di fronte al carattere drammatico della situazione, la minaccia ha una qualche chance di essere ascoltata? Nello stato avanzato di anestesia in cui si trovano immerse le nostre società occidentali, un buon numero di cittadini e di cristiani si schiererebbe certamente per la terapia d'urto di cui il Gesù dei vangeli sinottici si è servito a più riprese:

    Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell'uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca e venne il diluvio e li fece morire tutti. Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot usci da Sodoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti (Lc 17,26-29).

    Ma, se di fronte al disastro ecologico che ci minaccia la sola soluzione è quella della "decrescita" - ciò che voglio ben credere -, che cosa ci permetterà, una volta assorbito lo choc della denuncia, di entrare in un'autentica conversione dei nostri modi di vita, sia individualmente che collettivamente, anche a livello politico, e di accettare una vera autolimitazione? Mi sembra che la tradizione cristiana abbia a questo riguardo, in alleanza e in dialogo con altre tradizioni, una proposta da fare: non anzitutto una proposta intellettuale - sebbene la comprensione interiore di ciò che avviene sia decisiva sul piano della motivazione -, ma l'offerta di un'energia nel contempo umana e spirituale. La posta in gioco consiste nel tradurre questa offerta in termini etici, al fine di mostrarne l'accessibilità universale. È proprio dal versante etico che aprirò questa breve riflessione.

    La responsabilità e la paura invitano ad agire

    Anche se non posso condividere certe conseguenze della teoria di Hans Jonas, che guarda di sottecchi talora dal lato dei regimi autoritari, il suo modo di fondare ciò che egli chiama, a partire dal 1979, il "principio responsabilità" resta decisivo al giorno d'oggi. Riassumerò la sua argomentazione in quattro punti.

    1. Secondo questo fondatore di un'etica dell'avvenire, la promessa della tecnica moderna si è commutata in minaccia. La sottomissione della natura da parte della tecnica, inizialmente destinata a un felice esito, ha provocato per la dismisura del suo successo, che si estende ora fino all'umanità dell'uomo stesso, la più grande sfida che l'essere umano abbia conosciuto sul suo "fare". Quale bussola usare? L'anticipazione della minaccia stessa, ciò che Jonas chiama un'euristica della paura". Solo la previsione della deformazione dell'uomo ci permette di concepire cosa significhi essere un uomo, per premunirci da questa minaccia.

    2. La novità di questo discorso profetico "secolarizzato" consiste nell'integrare l'avvenire più o meno lontano, così come l'intero pianeta, nella coscienza etica della responsabilità personale e politica. Ciò che non fa l'etica, tradizionale, compresa quella di Immanuel Kant. È noto il celebre imperativo categorico del filosofo tedesco, versione moderna della regola d'oro: "Agisci in modo tale da poter parimenti volere che la tua massima - ciò che ti dai come regola di condotta personale - diventi una legge universale". In altre parole, un'azione deve essere tale da potersi presentare come esercizio di una comunità umana universale. Ma per Jonas questo imperativo resta astratto rispetto alla questione dell'avvenire: è incapace di indicarci una ragione che ci obblighi a sacrificare ciò che riteniamo il nostro benessere presente a vantaggio di quello delle generazioni future. Bisogna dunque proporre una nuova formulazione dell'imperativo kantiano: 'Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra', oppure, tradotto in negativo: `... Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanità sulla terra'  [1].

    3. Se la nuova formulazione dell'imperativo categorico, fondata sulla previsione degli effetti reali delle nostre azioni attuali, è piuttosto chiara, resta invece aperta la questione: come fondare l'idea della "permanenza di un'autentica vita umana sulla terra"? A meno di optare per il cinismo, che cosa ci può obbligare, da un punto di vista etico, a tener conto oggi della vita delle generazioni future, al punto di porci dei limiti e di entrare in una dinamica di "decrescita" (termine che il filosofo non conosce ancora)? Jonas visita anzitutto le tre soluzioni classiche, prima di proporre un approccio eminentemente originale:

    la condotta della vita terrena fino al sacrificio della propria felicità in vista della salvezza eterna dell'anima; la preoccupazione preveggente del legislatore e dello statista per il bene comune futuro [posizione aristotelica e della dottrina sociale della chiesa cattolica]; e la politica dell'utopia, contrassegnata dalla propensione a utilizzare i contemporanei come semplice strumento per un fine ulteriore o a eliminarli in quanto ostacolo al suo conseguimento, di questo il marxismo rivoluzionario costituisce l'esempio preminente [2].

    Non prenderemo in esame la critica jonasiana a queste tre soluzioni: di fronte all'attuale questione del futuro dell'umanità su questa terra, esse restano tutte confinate nel presente. Un presente che, anche nella seconda soluzione, non è visto in relazione con un futuro radicalmente diverso, ma è compreso come presente in cui si prendono decisioni sagge che, comunque, avranno efficacia in un futuro alla fin fine simile al presente. È su questo punto decisivo che Jonas imbocca un sentiero totalmente altro: di fronte a un futuro forse radicalmente differente, egli parte infatti dal caso più elementare e unico di una "responsabilità non reciproca" che commuove profondamente anche il semplice spettatore: la responsabilità nei confronti dei bambini a cui si è data la vita e che senza la continuazione della procreazione mediante le cure sarebbero destinati a morire. Tale esperienza elementare, archetipo di ogni agire responsabile, fonda l'etica del futuro, in quanto questa è possibile solamente sotto il segno di una responsabilità non reciproca, di un disinteresse radicale rispetto a noi stessi a favore delle generazioni future. Hans Jonas aggiunge qui che ogni atto di generazione presuppone implicitamente che tutti coloro che verranno dopo di noi saranno capaci di portare il peso della propria umanità e di partecipare, dopo di noi, al medesimo imperativo comune: che ci sia un'umanità.
    4. Ora, appunto, la minaccia che pesa ormai sul futuro di un'umanità umana fa apparire di rimando ciò che è implicato, in termini di responsabilità, in ogni atto non reciproco di generazione. Per la dismisura del suo successo nello sfruttamento della terra l'umanità è trascinata nell'inversione dell'utopia della felicità per tutti. E il disastro ecologico, strettamente legato all'immagine dell'homo consumans - che, in una sorta di anestesia collettiva, pensa ingenuamente di potersi perpetuare -, minaccia radicalmente l'umanità stessa della collettività umana. L'euristica della paura" trova qui il suo vero posto. Secondo Jonas, la paura fa parte della responsabilità: essa spinge ad agire. E la vulnerabilità del bambino e, con lui, quella delle generazioni future che ci fanno temere per loro, che ci fanno provare una paura disinteressata nei loro riguardi. Tale paura suscita la nostra sollecitudine, in quanto "paura e trepidazione" restano, qui come sempre, l'inizio della sapienza [3].
    Ebbene, è proprio in questo contesto che la tradizione biblica e cristiana fa appello ad altre risorse rispetto a quelle che ci offre il discorso "profetico" di denuncia e di minaccia.

    Il dono gratuito della vita

    1. Confermiamo anzitutto l'inalienabile punto di partenza scelto da Hans Jonas, l'archetipo di ogni agire responsabile, ossia l'atto non reciproco della procreazione che fonda in definitiva ogni autolimitazione. Ma anziché prendere immediatamente di mira la responsabilità suscitata dal grido o dall'appello del bambino radicalmente vulnerabile, e denunciare di conseguenza tutto ciò che l'homo consumans fa pesare come minaccia sull'umanità di quel bambino e sulle generazioni future, la tradizione del Nuovo Testamento compie un altro percorso. Essa ci invita in primo luogo a guardare il dono gratuito della vita e a entrare nell'atto di fede o di speranza elementare che questo dono suscita. Tutta l'attività di Gesù - le sue guarigioni, le sue parabole e il suo discorso etico - è avvolta da questo stupore iniziale (e permanente in lui) dinanzi alla vita e alla creazione, donate gratuitamente.
    Questo atto di fede e di stupore - molto simile a quello di un padre e di una madre di fronte al bambino appena nato - non si lascia mai ridurre all'espressione di un semplice istinto: l'istinto di sopravvivenza della specie umana e la soddisfazione che tale sopravvivenza ci procurerebbe. Lo stupore o la fede nella vita è un atto spirituale, l'atto spirituale più elevato e più elementare, che attiva in noi la capacità di rispondere liberamente alla sorpresa di una sovrabbondanza di vita e di bontà.

    2. In Gesù di Nazaret la gratuità del dono della vita viene universalizzata e concerne tutta la creazione e la creazione come un "tutto", come indicano le metafore della casa o della città. Questo "tutto" è per tutti, assolutamente per tutti; non soltanto per coloro che popolano attualmente il nostro pianeta, ma anche per tutte le generazioni future che dovranno trovarvi una dimora abitabile. Ciò che caratterizza l'autentica gratuità è proprio il fatto di essere gratuita per tutti, anche se non è e non può essere la medesima per tutti. L'uguaglianza degli esseri umani oltrepassa infatti l'uguaglianza astratta e formale - forma che essa ha trovato nelle nostre società moderne -, per radicarsi in ultima analisi nell'unicità di ciascun essere umano in relazione con tutti gli altri esseri unici. Detto altrimenti: la creazione è per tutti e per ciascuno, ieri, oggi e domani.

    3. Ora, questa incredibile universalizzazione della "gratuità" nel Nuovo Testamento - il "tutto è grazia" - pone evidentemente alcuni problemi. Il mondo degli umani così com'è, dopo essere stato trasformato dall'efficacia tecnologica e dalla reciprocità degli scambi finanziari, obbedisce a delle regole che sono tutt'altra cosa rispetto a quella di una "gratuità" disinteressata, eventualmente accettata in alcune nicchie della società. Questa osservazione, quanto mai ovvia, ci ricorda tuttavia che il riferimento al Creatore e alla creazione sta nello spazio di quell'atto inaudito di stupore e di fede di cui già si è detto. Se Dio non cessa di creare il mondo, in maniera assolutamente gratuita, non può essere e restare che un Dio nascosto (come sottolinea tutta la tradizione biblica). Cosa sarebbe un dono che obbligasse chi lo riceve alla gratitudine? Un tale obbligo, formulato da un donatore onnipresente e invadente, annullerebbe il dono alla sua radice! Il rovescio di questa qualità inaudita di discrezione del Dio nascosto è dunque la possibilità del torpore e dell'anestesia; anestesia dolcemente interrotta ogni volta che un bambino vede la luce di questo mondo.
    È possibile in realtà - ed è l'unica speranza dell'umanità di fronte a una visione cinica o tragica del mondo - che certuni entrino liberamente in un'autentica gratitudine che li rende capaci di mettere in gioco la propria esistenza, spingendo l'esperienza del dono gratuito fino al limite del "dono di sé". È proprio questa possibilità, realizzata da Gesù di Nazaret e da innumerevoli figure anonime o note, che dà alla creazione il suo orientamento "messianico", così decisivo oggi.

    4. Come mai prima, nella sua storia, l'umanità è costretta a volere se stessa e a volere per sé un futuro umano su un globo da custodire abitabile, il che non è per nulla garantito. Di conseguenza, la nostra risorsa essenziale, che è l'atteggiamento di stupore e di gratitudine trasformato in dono di sé, assume oggi un aspetto nuovo e inedito. Sobrietà, frugalità e povertà hanno sempre fatto parte della spiritualità cristiana: esse avevano la funzione di mantenere la vulnerabilità dei soggetti, rendendoli capaci di compassione e di "simpatia", così come di un'autentica disponibilità interiore, chiamata "povertà spirituale". Atteggiamenti che sono diventati quelli della condivisione e della solidarietà, contrassegnati fondamentalmente dalla riscoperta della giustizia e di una liberazione da promuovere in un mondo sottomesso dai paesi cosiddetti sviluppati a un incredibile sfruttamento. Ebbene, tale problematica si è radicalizzata: ormai le generazioni future attendono da noi che rivediamo in maniera drastica i nostri modi di vita, entrando individualmente e collettivamente in una vera autolimitazione. Ma è necessario ridirlo: solamente la riscoperta di un universo che ci è dato gratuitamente e la percezione, almeno incoativa, che noi siamo ospiti della terra, ci permettono di acconsentire a una conversione la cui misura ci oltrepassa. Come mai prima, siamo chiamati a credere nella resurrezione o nella misteriosa coabitazione di tutte le generazioni, già implicata nel minimo gesto che accettiamo di porre a favore della vivibilità di quanti ci succederanno su questa terra.
    Nella situazione attuale il discorso profetico di denuncia e di minaccia è al tempo stesso necessario e radicalmente insufficiente. Le risorse spirituali, nascoste nell'umanità - sorgenti che la tradizione cristiana e biblica può far emergere -, sono accessibili solo se producono effettivamente una conversione dei modi di vita e conducono, su un piano collettivo, verso una revisione radicale delle tre razionalità che governano la nostra convivenza, ossia la razionalità scientifica e la razionalità politica, oggi totalmente annesse dalla razionalità finanziaria. Le sorgenti spirituali di gratitudine e di gratuità devono poterci rendere capaci di resistere politicamente a questa terribile deriva, dovuta in parte a un'anestesia collettiva, e di agire, prima che sia troppo tardi, a favore di condizioni di vita autentiche delle generazioni future sul nostro unico globo.

    NOTE

    1 H. Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Torino 1993, p. 16.
    2 Ibid., p. 18.
    3 Cf. ibid., pp. 285-287.

    (Articolo pubblicato in Projet 329 (2022), pp. 74-80. Ora in Lo stile della vita cristiana, Qiqajon 2015, pp.129-138)


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