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    Nodi ermeneutici

    dei dibattiti sulla storia

    del Vaticano II

    Christoph Theobald


    La storicizzazione del concilio Vaticano II, tanto con i cinque tomi della Storia pubblicata sotto la direzione di Giuseppe Alberigo [1], quanto con il nuovo commentario dei testi conciliari - l'Herders theologi­scher Kommentar diretto da Peter Huenermann e Bernd Jochen Hilberath [2], ha rappresentato senz'altro una "svolta ermeneutica" nel processo di ricezione dell'ultimo concilio. Queste due opere monumentali pongono infatti con grande chiarezza i termini di un dibattito nuovo, già avviato nel settembre 2005 al Centro Sèvres di Parigi [3]: è l'avvenimento conciliare (e il suo più fedele racconto storico) che determina il processo di ricezione o è attorno ai documenti e alla loro interpretazione, chiarita dalla loro genesi, che deve farsi la storia post-conciliare? Alternativa indubbiamente da attenuare, ma che non può evitare di rifluire sulla stessa comprensione del Vaticano II: di che ordine è la sua unità come evento storico e come corpus di documenti e qual è il rapporto tra questi due termini?
    La posizione di Giuseppe Alberigo è chiara. Ricordando i «ricorrenti compromessi ai quali si fa appello nell' elaborazione dei testi», enuncia il seguente principio ermeneutico: “è la natura stessa di questo concilio e dei suoi testi finali a circoscrivere il significato dei compromessi. Infatti è il concilio in quanto tale, come grande fatto di comunione, di confronto e di scambio, il messaggio fondamentale che costituisce la cornice e il nucleo della ricezione. In quella luce le decisioni conciliari vanno collocate e interpretate; sono tessere di un mosaico complesso e variegato che possono essere lette adeguatamente solo come un insieme. La loro frammentazione, ispirata e funzionale a un'ermeneutica del particolare, è in contraddizione con la natura profonda del Vaticano II” [4].
    Prova di questo “rapporto ombelicale” dei testi con l’evento per lo storico il fatto che “sul piano dottrinale i nodi cruciali dell'apporto conciliare [ ... ] non sono coestensivi con un solo testo finale del concilio, per rilevante che esso sia. Essi sono invece il risultato sintetico della rivisitazione complessiva dell'evento conciliare” [5].
    Come riferirsi del resto ad essi, come interpretarli, senza situarli in un' epoca di transizione, senza comprendere dunque «questa mutazione storica [come] la causa e il fine del Vaticano II? “Non si potrebbe immaginare "normalizzazione" politicamente più abile e più efficace del concilio, e dell'impulso che esso ha dato alla chiesa, che negarne il significato epocale. Sarebbe uno svuotamento che, evitando il rozzo rifiuto dei tradizionalisti, proporrebbe una sepoltura del Vaticano Il nella normalità post-tridentina” [6].
    Se il direttore della Storia del concilio non nasconde allora la sua convinzione «che non ci si possono aspettare dei risultati significativi da una nuova stagione di commentari delle diverse decisioni - costituzioni, decreti e dichiarazioni -, né dalla minuziosa discussione sulle formulazioni particolari» [7], Peter Huenermann invece reintroduce, e in qualche modo radicalizza, l'interesse per la storia dottrinale. Se difende la letteralità dei testi nel processo di ricezione e contesta la tesi spesso avanzata (anche da Alberigo) che il Vaticano II ha prodotto «dei testi di compromesso» [8], è perché rileva «l'effetto paralizzante» di questa «tendenza interpretativa che parte, fin da principio, da un'opposizione tra minoranza e maggioranza». “Questa disputa mostra come i testi conciliari, nonostante siano stati adottati da una larga maggioranza, non siano stati percepiti come dei punti di riferimento all'interno di un consenso che comprendeva la totalità della Chiesa. Huenermann avanza dunque l'ipotesi che una riflessione sul loro "genere letterario" permetterebbe d'evitare di considerarli «come delle occasioni di controversie» e di smettere di considerarli come dei «testi di compromesso» [9].
    Comincerò valutando questa posizione, prima di soffermarmi, in una seconda parte, su quel che sicuramente rappresenta uno dei punti-chiave del dibattito: se cioè il principio, detto di pastoralità" , indicato da Giovanni XXIII per il concilio nel suo discorso di apertura, abbia informato effettivamente l'insieme del corpus testuale. Il cambio di pontificato nel 1963 non ha forse portato a modificare questo primo orientamento, facendo quindi della chiesa l'''argomento prin­cipale" del concilio? A mio avviso, l'interpretazione" costituzionalista" del corpus conciliare è tributaria di questo cambiamento. Lungi dal costituire soltanto una semplice questione storica, questo tipo di prospettiva chiarisce singolarmente i rischi della ricezione del Vaticano II e il nostro stesso oggi. Mi interrogherò anche, in una prima parte, su dove si situi di preciso la normatività del concilio per noi. Possiamo forse fissarla nella lettera del testo conciliare e nella sua forma costituzionale? Non si dovrebbe piuttosto cercarla nel rapporto tra il corpus e la storia del processo conciliare che lo eccede sotto ogni aspetto? Ma per arrivare a precisare questo legame e la sua posta in gioco propriamente teologale, devo dapprima discutere l'ipotesi "costituzionalista" .

    La designazione del "genere letterario" del corpus conciliare permette d'orientare la ricezione?

    Secondo il direttore del commentario di Tubinga, i testi del Vaticano II apparterrebbero al genere" costituzione", determinato in analogia con le "costituzioni" degli Stati moderni: “[Queste] costituiscono una profonda riflessione sull'ordine di vita degli uomini in seno ad una comunità statuale; riflessione che enuncia i principi fondamentali da cui scaturiscono questo ordine di vita e un dato ordine sociale. Una costituzione fissa il quadro normativo, stabilisce le linee direttrici per l'agire giuridico e politico, ma anche per le attività della società civile. Essa è l'espressione di un profondo consenso sociale e legittima le autorità fondamentali, limitandone le funzioni. Una costituzione incarna infine, nell'ambito statuale, la forma suprema di un tale ordine "fondamentale". È inglobante, ovvero essa si applica a tutti i cittadini e agli stranieri di un certo stato, esercita la sua influenza in tutti gli ambiti della vita, e non è dunque semplicemente circostanziata o particolare” [10].
    I testi del Vaticano II differirebbero dalle "costituzioni statali" su due punti: la divina istituzione della chiesa, affermata dal Vaticano I, e gli ambiti della vita coinvolti. Infatti, “il testo conciliare afferisce alla dimensione istituzionale, pubblica e giuridica, così come al piano morale ed etico e alle questioni di pratiche e di convinzioni rilevanti della fede. Si può dunque caratterizzare il genere testuale del Vaticano II come "costituzione della vita credente in seno alla chiesa", o più semplicemente come "costituente della fede" [11].
    Huenermann non si appoggia soltanto alle intenzioni di Paolo VI, in particolare alla sua allocuzione all'inizio del secondo periodo in cui invitava il concilio a precisare l'«ordine essenziale» della chiesa [12] ma propone anche un modello di testo costituzionale, la Regula Benedicti. Come quest'ultima, i testi del Vaticano II non hanno la forma di «definizioni» (come nel caso dei decreti dei concili anteriori), ma assumono piuttosto quella della «descrizione» (Schilderung) di una serie di processi o di pratiche fondamentali; in tal senso, hanno per de­stinatari dei lettori che entrino realmente nelle loro proposizioni e occupino in qualche modo i «posti vuoti» (Leerstellen) preparati per loro [13]. Si comprendono dunque la discrezione del teologo sull'«argomento del compromesso» e la sua maggiore sensibilità alle polarità risultanti dalla tensione ineluttabile, costitutiva della chiesa, che è ad un tempo mistero di Dio e comunità concreta dotata di una struttura istituzionale; comunità del compimento escatologico e chiesa povera e pellegrina nel tempo e nella fragilità. In quanto corpus costituzionale, i decreti del Vaticano II richiedono che tutti i fedeli, comprese le autorità, interpretino e mettano in opera i processi e le pratiche fondamentali della fede in modo tale che queste polarità siano mantenute in equilibrio, lasciando emergere così il mistero della chiesa nella sua dimensione frammentaria e storica [14].
    Non si può negare il grande interesse che riveste questo tentativo di precisare il genere letterario del corpus conciliare al fine di comprendere meglio la sua unità, ugualmente messa in luce, benché su un altro piano, dalla Storia nata a Bologna. Notiamo che aveva già portato l'attenzione sul genere specifico dei testi conciliari [15], questione che Peter Huenermann ha senz'altro aggiornato, riprendendo e sviluppando gli studi di Ormond Rush [16]. Senza dubbio occorre a questo punto ricordare quanto affermato dal direttore del commentario di Tubinga a proposito della struttura sincronica dei testi e della loro dimensione diacronica. Se la struttura di tutti i documenti è attraversata da una «tensione interna» tra il loro fondamento teologico o il «mistero», da una parte, e le forme di vita della chiesa, dei fedeli e degli altri uomini nel mondo moderno, dall'altra, nessuna logica deduttiva permette di trovare una connessione tra questi due elementi, che si darà soltanto cercando dei nessi di tipo pragmatico o sapienziale nei quali intervenga l'esperienza della fede. D'altro canto, questa struttura interna è anche profondamente segnata da tutta la storia del cristianesimo, dalla Scrittura, dall' eredità della patristica e del Me­dioevo, dai documenti del magistero conciliare e pontificio dei tempi moderni, così come dal lavoro della teologia contemporanea [17]. Ci si può chiedere se il carattere "familiare" dei testi, così considerati, dipenda ancora dal loro genere letterario, o se non sia piuttosto di ordine stilistico. In ogni caso, l'ipotesi di Huenermann deve essere seguita da analisi trasversali ancora più puntuali, non senza tener conto delle differenze di «genere» tra «costituzioni dogmatiche» (chiesa e rivelazione), «costituzione pastorale», «costituzione» (liturgia), «decreti» e «dichiarazioni», stabiliti dal concilio stesso [18].
    L'altro aspetto da sottolineare dell'analisi di Rush e di Huenermann è la loro distinzione tra un'ermeneutica degli autori, del testo e dei recettori - distinzione che consiste nel tenere ben presenti i differenti destinatari dei documenti, così come essi sono individuati nelle prefazioni delle tre costituzioni Dei Verbum, Lumen gentium e Gaudium et spes (quella di Sacrosanctum concilium è altra cosa) [19]. Quest'interessante osservazione non dovrebbe tuttavia far dimenticare che, secondo l'intenzione dei redattori, il prologo di Dei Verbum occupa una posizione "principiale" (prinzipielle) in relazione alle altre tre [20].
    Prendendo atto di queste acquisizioni, bisogna riconoscere che esse pongono più questioni di quante non ne risolvano. Ci riconducono infatti al dibattito sull'unità del Vaticano II e sul rapporto tra l'unità dell' evento conciliare e l'unità della sua opera. Elenchiamo innanzi tutto le questioni:

    1. Se non si può negare una certa unità stilistica del corpus conciliare, si può seriamente dubitare che essa si lasci designare da un unico genere letterario, fosse anche quello della" costituzione". Bisogna ricordare qui imperativamente la pluralità dei testi e dei ge­neri, resa necessaria non soltanto dalla diversità dei temi trattati, ma anche e soprattutto perché è impossibile dire il mistero in un solo testo. L'analogia con il canone delle Scritture mi sembra in questo caso doppiamente istruttiva. Prima, durante e dopo il concilio, la teologia, sia protestante che cattolica, aveva posto, a questo proposito, la questione della sua unità interna. Senza entrare nella complessità di questo dibattito [21] teniamo a mente la differenza tra la "delimitazione" del perimetro canonico della lettera biblica da parte della chiesa - comparabile alla promulgazione dei testi conciliari - e la questione del loro principio spirituale d'interpretazione, legato alla pluralità dei generi letterari (Dei Verbum 12 e 13), senza esserne sottomessi. Per quel che riguarda il corpus del Vaticano II, la questione del suo principio teologico resta aperta. Essa non è, in ogni caso, risolta dalla determinazione del genere o dei generi letterari. Ne parlerò nell'ultima parte, che costituisce anche il nodo centrale della mia proposta ermeneutica.
    D'altro canto, e questo è l'altro aspetto della stessa analogia, si può definire l'unità del corpus conciliare senza riferirlo alla normatività del canone delle Scritture, ossia senza mostrare come il corpus del Vaticano II si posizioni, esso stesso, situandosi in rapporto alle Scritture nel loro statuto unico - esplicitamente (in Dei Verbum) e implicitamente (nei diversi modi di citarlo) - e simultaneamente in rapporto alla Tradizione - esplicitamente ed implicitamente -, perfino in rapporto a delle istanze fuori dal testo come il nome di Dio e di Gesù, così come l'opera dello Spirito? Lasciar capire che queste istanze sono allo stesso livello e fare del corpus conciliare un testo costituzionale che inglobi la totalità dell' esistenza cristiana, la misuri e la orienti, non significa forse cancellare, senza volerlo, la differenza tra il testo ispirato dalle Scritture e la sua interpretazione? Mettere dunque a fianco del testo costituzionale per eccellenza che è il canone un'altra costituzione, non significa in breve rischiare un ritorno implicito alla teoria delle due fonti della Scrittura e della Tradizione, rifiutata dal concilio ... ? Se, con Dei Verbum VI, si può chiedere a ogni cristiano di leggere le Scritture, un'analoga esigenza dei testi conciliari (indotta dall' analogia della lettura quotidiana della Regula Benedicti) [22] non minaccerebbe forse il processo di ricezione?

    2. Ma non è soltanto il rapporto tra corpus biblico e corpus conciliare a essere in gioco, ma la loro forma rispettiva e soprattutto l'aspetto costituzionale che Peter Huenermann riconosce all'opera testuale del Vaticano II. È su questo punto che mi sembra radicalizzare la posizione di Hervé Legrand. Se l'ecclesiologo di Parigi rimpiange che il Vaticano II non abbia saputo tradurre i suoi «discorsi di convinzione» in termini giuridici e istituzionali, in ragione di un rapporto non chiarito con il Vaticano I [23], il teologo di Tubinga considera lo stesso corpus conciliare in termini di diritto costituzionale, distinguendolo affatto dal fallito progetto di una lex fundamentalis [24]. Ma come evitare la sovrapposizione con l'idea post-tridentina di una chiesa "società perfetta" di cui il Vaticano II ci avrebbe dato una costituzione più conforme al Vangelo e più adatta alla nostra epoca? Huenermann riconosce «i rischi incorsi dal genere testuale "costituzione" e i suoi limiti [che] risiedono nel fatto che la costituzione dipende dal libero consenso, in particolare delle diverse autorità» [25]). Nel suo commentario, milita per una regolare revisione dei differenti ambiti della vita ecclesiale a livello locale e generale, indicando anche dei ritmi da cinque a dieci anni - ci si ricorda del decreto Frequens del concilio di Costanza (1417) che Huenermann non cita -, propone una «vigilanza» (Aufsicht), che non si riduca a una struttura gerarchica della visita ad limina, ma implichi una vera collegialità, e pensa a una sorta di "corte costituzionale", che permetta di verificare la conformità costituzionale di questa o quella misura ... Ritroviamo qui un problema che assilla la chiesa latina dai concili della riforma del XV secolo; non senza chiedersi se il ruolo che qui il commentatore assegna spontaneamente al diritto non necessiti di una riflessione di fondo sui processi di conversione evangelica (renovatio e reformatio), vissuti e visti dal Vaticano II, e che sono di un ordine diverso da quello della legge.
    D'altro canto, una parte del problema relativo all'interpretazione del corpus del Vaticano II consiste nel determinare esattamente la natura dei conflitti che qui sono stati espressi e che continuano ad assillare la chiesa. Ricondurli alle polarità fondamentali del mistero cristiano è giusto, necessario e connesso alla sua strutturale fragilità, incessantemente messa in gioco nella storia. Ma è sufficiente? Forse non riguardano anche e soprattutto il processo d'aggiornamento, nel momento in cui la chiesa entra in una situazione inedita, segnata contemporaneamente dalla globalizzazione, da un pluralismo culturale ineliminabile e da una condizione di diaspora impensabile nella cristianità del secondo millennio? La presenza, nei testi, di "formule di compromesso" indica di conseguenza che questo processo conflittuale è lungi dall'essere portato a termine alla fine del concilio, ma viene piuttosto rilanciato dalla sua conclusione. Questa constatazione non annulla l'importanza decisiva dei testi normativi, ma impone che questi ultimi siano storicizzati e situati nel processo conciliare in questione; non per annullarli, ma, al contrario, perché la loro storicizzazione e la loro ricezione ci facciano scoprire - di concerto - ciò che, nei nostri processi di conversione e di apprendimento di oggi, dipende da "polarità" normative come quelle indicateci da Peter Huenermann. La designazione globale del corpus conciliare come testo costituzionale rischia di minimizzare questa storicità al tempo stesso inevitabile e fausta.

    3. È per un'altra ragione ancora che mi sembra di dover interrogare l'idea del testo "costituzionale" o, almeno, di "limitarla" con un ritorno alla Storia del concilio Vaticano II: la sua tendenza a incentrare l'evento conciliare sulla chiesa. Ci si può chiedere, d'altra parte, se Peter Huenermann non abbia registrato troppo velocemente l'intenzione conciliare di Paolo VI, che si può effettivamente caratterizzare come" pan-ecclesiologia", senza mettere in discussione, come aveva fatto Giuseppe Alberigo, «un certo trionfalismo conciliare, che ha affermato in maniera ottimista che il concilio aveva realizzato le prospettive indicate dal "padre" del Vaticano II quando esso è stato convocato e, in seguito, aperto». [26]

    La chiesa è davvero l’argomento principale del concilio?

    È questa la questione storico-critica, data per risolta dall'ipotesi" costituzionalista", che si deve subito affrontare se si vuole precisare il principio di interpretazione del corpus conciliare - la profondità teologale dell'evento che l'ha generato -, e farlo, come è stato suggerito dalle prime due delle domande che ho appena posto, a partire dalla sua relazione con le Scritture e con la Tradizione.

    La programmazione ecclesiologica del concilio e i suoi effetti di ricezione

    Senza dubbio la chiesa era per il cardinale Montini e futuro Paolo VI l'" argomento principale" del Vaticano II, tesi, questa, da lui stesso esposta per la prima volta il 5 dicembre 1962 [27] e, in seguito, nel suo discorso d'apertura del secondo periodo [28]. Ma la storia non ci insegna forse che il primo grande scontro sull'interpretazione "pastorale" del Vangelo (il traditum o tradendum, secondo il linguaggio di Yves Congar) durante la discussione sulla rivelazione nel novembre 1962 il conflitto maggiore, sul momento insormontabile, che proseguirà nella commissione mista - portò a rafforzare la posizione di chi tentava d'aggirarlo spostando il dibattito verso i latori ecclesiali della tradizione (i tradentes), oltre al fatto che questo spostamento corrisponde all'attesa di quelli che vogliono soprattutto equilibrare l'ecclesiologia del Vaticano II? Dopo le esitazioni del primo periodo, lo stesso 5 dicembre 1962 si distribuisce una selezione di venti documenti e si istituisce una nuova commissione di coordinamento a cui spetta ormai pianificare i lavori. È grazie alla scappatoia di questa commissione che il progetto Suenens potrà decollare, e questo tanto più facilmente dal momento che il primate del Belgio otterrà già nella prima riunione la responsabilità del De ecclesia e dello schema XIII, la futura costituzione Gaudium et spes, i due testi dunque che costituiscono i punti cardine del suo progetto.
    A cose fatte, non possiamo negare che a partire da quel momento la programmazione dei lavori conciliari e la lenta ricezione del principio di "pastoralità", introdotto Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura Gaudet Mater Ecclesia, si separano. Ci si sarebbe potuti attendere l'adesione collettiva a questo principio da cui farne dopo derivare la redazione dei testi? Questa proposta, espressa dal cardinale Bea il 15 ottobre 1962 alla segreteria per gli Affari straordinari [29], era probabilmente utopica dato che non teneva realmente in conto il lavoro preparatorio già compiuto e la logica dei programmi conciliari di Trento e del Vaticano I basata sulla distinzione tra dottrina e disciplina. Ma constatare una certa indipendenza tra il "lavoro" del principio e la programmazione dei lavori conciliari a partire dalle questioni ecclesiologiche ha degli effetti importanti sulla concezione che si ha del corpus conciliare: bisogna situare la sua unità interna nella coscienza ecclesiale, tesa tra l'interno (Lumen gentium) e l'esterno della chiesa (Gaudium et spes), o piuttosto nella Parola di Dio (Dei Verbum), ricevuta dalla chiesa nel mondo di questo tempo grazie a un nuovo rapporto - qualificato come "pastorale" – con le Scritture e con la Tradizione? [30]
    Al momento dell'ultimo voto sulla costituzione Dei Verbum, il 29 ottobre 1965, il relatore torna quasi furtivamente sul ruolo di tale testo nell'insieme del lavoro conciliare, affermando che esso “esprime anche il nesso tra tutte le questioni trattate dal concilio. Esso ci situa - afferma il relatore - nel cuore stesso del mistero della chiesa e nell'epicentro della problematica ecumenica». Nell'autunno 1964, la Commissione teologica aveva già notato che il De revelatione costituisce «in certo modo la prima di tutte le costituzioni di questo concilio, di modo che il suo preambolo in un certo senso le introduce tutte» [31].
    Questa affermazione resterà però lettera morta, in ragione d'un fatto di ricezione, cioè che la costituzione sulla chiesa ha praticamente preso il primo posto fra tutti i testi conciliari 32]; un fatto favorito dallo stesso Paolo VI e dalla sua presentazione, all'inizio del secondo periodo, degli scopi principali del concilio. Su questo sfondo diventa significativo che, al momento della promulgazione di Dei Verbum, il 18 novembre 1965, il papa non torni più sulla fondamentale posta in gioco di questa costituzione, ma consideri piuttosto il post-concilio da un punto di vista istituzionale. Tutto procede come se la pagina fosse già stata voltata. E a quarant'anni dalla fine del concilio non si può che restare stupiti per il ruolo marginale giocato dalla costituzione sulla rivelazione nel processo di ricezione [33]. La ricezione ufficiale, iniziata con il sinodo del 1985, si concentra soprattutto sugli "stati di vita" e sui "ministeri"; laici, preti, religiosi e vescovi. La "controversia fraterna" tra il cardinale Kasper e il futuro Benedetto XVI sui rapporti tra chiese particolari e chiesa universale - certamente non suscitata soltanto dal progresso del dialogo ecumenico - conferma ancora la centralità della prospettiva ecclesiologica; anche se l'autore della Lettera su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione (1992) ricorda nel 2000 che il «Vaticano II ha chiaramente voluto circoscrivere e subordinare il discorso sulla chiesa al discorso su Dio» e rimprovera alla ricezione d'aver «trascurato questa caratteristica qualificativa in favore delle sole affermazioni ecclesiologiche particolari» [34].

    Il principio di "pastoralità" e la sua ricezione conciliare

    Avvertiti da questi due sintomi sommariamente segnalati - separazione tra programmazione ecclesiologica del concilio e orientamento dato al Vaticano II da Giovanni XXIII, da un lato, e dibattiti ecclesiocentrici del periodo post-conciliare, dall'altro - diventa oggi urgente rintracciare il percorso di ricezione intraconciliare del principio di "pastoralità", connesso dal primo periodo a quello di ecumenicità [35]. In che cosa consiste dunque questa "pastoralità" raccomandata dal papa? [36]. Formulata nel modo più semplice, la risposta è questa: non c’è annuncio del Vangelo di Dio senza farsi carico del destinatario; e, per precisare il ruolo di quest'ultimo, si deve aggiungere che "ciò" di cui si tratta nell'annuncio è già operativo in lui, dal momento che può aderirvi in piena libertà.
    Il "luogo" principale in cui si manifesta la ricezione intra-conciliare di questo principio è la costituzione sulla rivelazione e la sua trasmissione; testo che, grazie a Paolo VI [37], sarà rimesso sull' agenda dei lavori del terzo e quarto periodo del concilio. Il prologo di Dei Verbum che, secondo i relatori, introduce l'insieme del corpus, situa il lavoro dottrinale del concilio nella linea del kerigma giovanneo (1 Gv 1,2-3), dandogli tutto il suo posto, ma riconoscendo anche che la Parola intesa dai successori degli apostoli non può essere mai proclamata senza un atto di interpretazione. Ciò che è messo in scena in questa apertura solenne si trova codificato alla fine del secondo capitolo sulla trasmissione della rivelazione dal magistero vivente della chiesa di cui si afferma chiaramente che «non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve» (n. 10). Non è che al capitolo VI sulla «Sacra Scrittura nella vita della Chiesa», che appare, con tutta la chiarezza voluta, il nesso profondo tra pastoralità ed ecumenicità; precisamente quando questo testo mette la Scrittura nelle mani di tutti e orienta l'opera dottrinale verso la sua interpretazione kerigmatica, facendo in particolare attenzione a che il ministero pastorale della Parola resti radicato nello «studio della Scrittura che è l'anima di tutta la teologia» (n. 24). Siamo qui in presenza dei due livelli del principio di pastoralità, livello kerigmatico e livello ermeneutico o "dottrinale", la cui controversa articolazione spiega, a mio parere, l'estrema complessità del corpus conciliare; ma su questo tornerò nella mia ultima parte.
    Come è già stato suggerito nelle questioni poste sull'ipotesi" costituzionalista", la controversia riguarda il rapporto critico del concilio con la Scrittura e con la Tradizione. Il rapporto con le Scritture varia considerevolmente nei diversi documenti conciliari, in parte controllati dall'Istituto Biblico. Ma su questo punto mancano ancora ricerche sistematiche [38]. Nel suo terzo capitolo sull'ispirazione delle Sacre Scritture e la loro interpretazione, Dei Verbum riconosce bene il ruolo indispensabile dell' esegesi critica e precisa, al n. 12, i due estremi dell' atto interpretativo: il radicamento storico del senso, considerato a partire dalla forma del testo (genere letterario) e il rispetto della totalità e dell'unità del libro biblico (analogia della fede). Senza invalidare questa acquisizione, il cambiamento attuale dello statuto della Bibbia nella cultura europea, la ridefinizione dei rapporti del cristianesimo con il giudaismo e le evoluzioni (storiche e narrative o retoriche) negli ambiti dell'esegesi, contribuiranno senza dubbio ad affina­re, se non a modificare, il principio critico del corpus conciliare e a "reinquadrare" alcuni sviluppi; su questo tornerò più avanti [39].
    Ma oltre al fatto che il lavoro di esegesi critica e in particolare la storicità dei Vangeli (n. 19) restano assai controversi fino alla fine del concilio, il rapporto del corpus con le Scritture è esso stesso affidato a una certa indecisione ermeneutica, tanto che il dibattito sulla «natura costitutiva della Tradizione» non è condotto a termine. Questo dibattito si svolge su due versanti. Esso verte innanzi tutto sullo statuto dottrinale stesso: si tratta veramente, nel rapporto tra Tradizione e Scrittura, di un problema di verità o di punti contenuti nel "deposito"? La dottrina non è piuttosto una maniera di porre, in contesti differenti, delle condizioni perché nel seno stesso della Tradizione l'evento kerigmatico o pastorale possa prodursi realmente e in tutte le sue dimensioni? Secondo l'opzione assunta, l'interpretazione del corpus conciliare si orienta sia in direzione di una sintesi dottrinale e giuridica, sia verso l'idea di un insieme di regole che permettano di discernere l'evento kerigmatico e pastorale che non cessa effettivamente di prodursi fra cristiani e altri a contatto con le Scritture ispirate. L'altra questione, sollevata dal riferimento alla Tradizione, verte sul rapporto tra la dottrina e la storia. Nel suo discorso d'apertura Giovanni XXIII aveva già espresso la sua fiducia assoluta nella presenza di Dio nella storia dell'umanità, considerata pertanto come totalmente autonoma, e la sua attenzione alla capacità di apprendimento degli uomini. L'attenzione" ermeneutica" al contesto storico e culturale dei destinatari, e dunque alla figura culturale della «verità rivelata», fa parte del principio di pastoralità.
    Questi due punti di cui si è appena parlato, il ruolo eventualmente critico - delle Scritture nella tradizione interpretativa della chiesa e la posizione culturale dei destinatari del Vangelo, sono infatti i luoghi nevralgici in cui, in seno a un dibattito conciliare largamente dominato dalle questioni ecclesiologiche, ritornano le preoccupazioni fondamentali che accompagnano i padri conciliari, soprattutto a partire dal terzo periodo, senza che essi arrivino a delle formu­lazioni unificate che permettano di precisare l'ermeneutica relativamente formale di Dei Verbum.

    1. Per quel che si riferisce al primo punto, il dibattito sulla nozione di "riforma” è affatto significativo e centrale. Non è che alla fine del secondo periodo, nella discussione sull'ecumenicità, che emerge la distinzione tra renovatio e reformatio. Mentre la relatio dello schema si riferisce al rinnovamento spirituale, nello spirito di Paolo VI, unicamente come conversione del cuore o santità di vita, monsignor de Provenchère lo estende al culto, alle istituzioni e anche alla maniera di esporre la dottrina. Monsignor Volk è il primo a introdurre il verbo reformare: «Più la Chiesa si mostra pronta a riformarsi essa stessa e a manifestare più chiaramente la sua propria essenza, più la sua testimonianza diventa credibile» [40]. Questi dibattiti del secondo periodo portano al 1964, al momento della promulgazione simultanea della costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium e del decreto sull'ecumenismo Unitatis redintegratio, alla giustapposizione di due prospettive differenti: quella più cristo-ecclesiale di Paolo VI e di altri intervenuti in concilio, alla fine introdotta nella Lumen gentium 8, e quella più ermeneutica, ereditata da Giovanni XXIII e difesa, anzi sviluppata, grazie a monsignor Volk e ad altri; questa prospettiva si trova nella versione definitiva del capitolo II (nn. 6 e 11) del decreto sull' ecumenismo, soprattutto al n. 6 che cita la versione originale di Gaudet Mater Ecclesia [41].

    2. Quanto al contesto storico e culturale dei destinatari del Vangelo secondo punto controverso -, esso affiora alla superficie della coscienza conciliare nel 1964 e occupa soprattutto i dibattiti dell'ultimo periodo sulla costituzione pastorale della chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes. Tale questione introduce un elemento di complessità nel principio pastorale ed ecumenico che non è stato percepito all'inizio del concilio. I padri hanno faticato a distinguere tra questioni di contenuto dottrinale e il problema della forma della dottrina. Il pluralismo che la storicità inevitabilmente produce non tocca solamente la diversità delle confessioni - tema già in questione -, ma anche le relazioni della chiesa cattolica con le religioni non cristiane e con le culture, e fra queste in particolare la cultura moderna, conside­rata a partire dalle prerogative della coscienza e della libertà religiosa dei destinatari del Vangelo. Questi diversi approcci a uno stesso problema sono piuttosto giustapposti, senza che il principio della loro articolazione diventi oggetto di dibattito. Bisognerebbe mostrarlo nel dettaglio, comparando per esempio le prospettive culturali e missionarie di Lumen gentium 13 e 17 e quella, introdotta quasi all'ultimo minuto, in Gaudium et spes 44 e Ad gentes 22: si constaterebbe l'evoluzione verso un'ermeneutica culturale del Vangelo, ma anche l'estrema difficoltà a uscire da qualche dichiarazione programmatica e ad accedere a una coscienza storica che ingloba e articola l'interpretazione del contesto e quella del Vangelo.
    Termina così il percorso della ricezione conciliare del principio di "pastoralità". Che conclusione trame per l'interpretazione del corpus testuale nella sua globalità? Anche se alla fine restiamo di fronte a una certa indecisione ermeneutica, i quarant'anni di ricezione e storicizzazione progressiva del concilio ci avranno condotto al punto in cui la posta in gioco del principio, le decisioni che esso implica (anche quelle che il concilio non ha preso) e i segni che ha impresso all'insieme dei testi sono sufficientemente leggibili per essere riconsiderati e consegnati a una nuova tappa di ricezione. Questa rilettura suppone tuttavia che si accetti non soltanto una certa critica dell'opera conciliare, ma che si iscriva l'insieme del processo conciliare all'interno di una storia più lunga. Non si tratta più solamente di riflettere sulla continuità/discontinuità ecclesiologica fra i tre ultimi concili, ma di chiedersi se non viviamo una mutazione analoga a quella del primo "passaggio" del Vangelo nel mondo ellenistico [42], evento che tocca, penso, la stessa Rivelazione. La designazione della raccolta testuale del Vaticano II come «costituzione della vita credente in seno alla Chiesa» non permette di affrontare la questione del principio d'interpretazione, questione che dipende da una lettura teologica della storia del cristianesimo, a meno che non si restituisca veramente al prologo della Dei Verbum il suo statuto "principiale". Queste riflessioni non vorrebbero negare il grande interesse che riveste una ricerca sul genere letterario del concilio. Esse hanno come unico scopo questo: riaffermare ciò di cui tutti i protagonisti del dibattito sono sicuramente già convinti, cioè che è indispensabile, nella nostra situazione di ricezione e trasmissione del concilio, di coniugare il commento dei testi e la storia del processo conciliare. Mi sia permesso di precisarne un poco il rapporto.

    Un principio interno d'interpretazione ovvero lo statuto teologale dell' evento conciliare

    Il principio di "pastoralità", di cui si è discusso, introduce una doppia alterità nel corpus conciliare: esso suppone l'esperienza di ascolto conciliare dell'imprevedibile novità del Vangelo e, allo stesso tempo, una coscienza acuta del mistero dell'infinita diversità dei suoi destinatari [43]. I testi si caratterizzano precisamente per questa doppia "apertura" o ferita, lasciando entrare i destinatari, ciascuno a proprio modo, nell' esperienza teologale che veicolano. Incrocio qui ovviamente le ricerche sul "genere letterario" [44], insistendo sulla storicità radicale dell'esperienza conciliare e di quella dei ricettori post-conciliari. È nella struttura enunciativa del preambolo di Dei Verbum che appare meglio questa doppia alterità. Partendo dallo statuto principale di questo testo nell'insieme del corpus conciliare, come tradurre quest' esperienza fondamentale dei padri e di coloro a cui essi si indirizzano?
    Essa è d'ordine relazionale e riguarda in primo luogo la relazione pastorale o kerigmatica, sempre storicamente o culturalmente situata (ci ritornerò), tra quelli che, ascoltando la Parola di Dio (Dei Verbum religiose audiens), l'annunciano (fidenter proclamans) e altri potenzialmente il mondo intero - che la ricevono (mundus universus credat, speret, amet) secondo un ininterrotto processo di "tradizione". Lo schema della comunicazione, fondato su Dei Verbum 11 e, in modo più preciso, sul n. 7 [45], nell'economia stessa della rivelazione implica non soltanto la simmetria - "amicale" - fra tutti gli "attori" di questo processo di evangelizzazione, ma indica anche le sue condizioni di credibilità - «avvenimenti e parole intimamente legati tra loro» - che vietano ogni separazione tra il Vangelo e la sua interpretazione (traditum), da una parte, e i suoi portatori o interpreti autorizzati (tradentes) - la chiesa - dall'altro.
    Senza essere interamente informato da questo principio - per le ragioni enunciate precedentemente [46] - il corpus conciliare è in qualche modo "teso" tra la Scrittura (che lo attraversa da parte a parte, in maniera "principiale" e grazie ad alcuni procedimenti di citazione) e la pluralità dei contesti culturali in un mondo in via di globalizzazione. Esso vuole" regolare" il rapporto ermeneutico e critico tra questi due poli, così come il gioco relazionale tra ermeneutica e altri attori. Il suo sostrato ecclesiale (unilateralmente privilegiato nella ricezione) si situa su questa traiettoria tra il Vangelo di Dio, inteso nelle Scritture, e i suoi innumerevoli destinatari; e trova in questa stessa traiettoria la sua ragion d'essere teologale e la radice della sua unità plurale. È questo che suggerisce il prologo di Lumen gentium che espone il carattere "sacramentale" di questa traiettoria.
    Notiamo soprattutto che la regolamentazione conciliare suppone a monte e fuori dal testo l'evento teologale d'ascolto e d'annuncio, vissuto in seno al concilio e nel momento della sua celebrazione. È questo stesso evento d'ascolto o di ricezione e d'annuncio o di tradizione del Vangelo che essa vuol rendere possibile a valle, in molteplici modi; evento, questo, che si produrrà ogni volta che lo permetta la lettura delle Scritture e tutto quel che essa suppone (Dei Verbum da II a VI e Sacrosanctum concilium).
    In quanto testo regolatore, il corpus conciliare è tuttavia radicato nella storia (cosa che si rischia sempre di dimenticare): il posizionamento moderno della coscienza e della libertà - quella, in primo luogo, di ogni atto di fede e di ricezione - lo dimostra, cosi come la presa di coscienza, suscitata dai drammi del XX secolo, del nesso spirituale che lega al popolo ebraico quanti intendono e annunciano il Vangelo e, su un altro piano, li mette a contatto delle religioni e della condizione umana nel mondo d'oggi. Contemporaneamente si precisa a che punto il condizionamento storico dei recettori dipenda dal discernimento dei segni dei tempi e da un lavoro di interpretazione che simultaneamente tocca il cuore stesso della Rivelazione [47].
    Se a un primo livello il corpus del Vaticano II regola il processo pastorale o kerigmatico, quale viene presentato nella sua struttura elementare, il radicamento storico dei destinatari e di coloro che lo inviano introduce un secondo livello: l'originalità del corpus del Vaticano II risulta dal legame tra questi due livelli testuali. Appena appare in effetti la complessità ecumenica e storico-culturale dell'atto di "tradizione" nel mondo contemporaneo, la ricezione si confronta con il problema ermeneutico e con la difficoltà dei Padri di darne una formulazione unificata, che non soltanto integri l'insieme dei parametri, ma marchi anche a sua volta il trattamento di tutte le altre questioni poste al concilio; è il luogo in cui si manifesta il carattere inconcluso e provvisorio del suo lavoro.
    Anche al suo secondo livello, il corpus conciliare rappresenta la traccia di un gigantesco processo d'apprendimento individuale e collettivo, di una sorta di ritorno su di sé della coscienza ecclesiale alle prese con la modernità e altre forze spirituali e religiose, di una vera "riforma" o "conversione", certo incompiuta ma fondata nello stesso Vangelo di Dio. Con i sociologi questo percorso conciliare si può comprendere come «secolarizzazione interna» del cattolicesimo [48], a condizione tuttavia di non tacere le sue motivazioni evangeliche o teologiche, che implicano un vero decentramento del cosiddetto gruppo chiesa. Nulla impone che questo processo, soltanto abbozzato nel dicembre 1965, debba quindi arrestarsi. Al contrario: la capacità di apprendimento o di riforma è, anch'essa, fondamentale e attende la no­stra ricezione.
    Lo statuto teologale dell'evento conciliare si precisa qui. Certamente esso è sempre legato alla relazione "pastorale" più elementare, all'atto di tradizione che è il concilio e ai futuri eventi di ascolto e di annuncio che esso vuol rendere possibili. Ma il processo collettivo di apprendimento e di conversione, vissuto dai Padri conciliari e dalla chiesa nella sua totalità, è, esso stesso, di ordine teologale e si imprime in qualche modo sulla relazione pastorale e kerigmatica di sempre, lasciandosi al tempo stesso informare da questa. La chiesa conciliare prende progressivamente coscienza che la rivelazione non esiste al di fuori della sua ricezione storica e culturale: la "tradizione" effettivamente vissuta, il corpo della fede - quello che essa è, che riceve e che si dona - è la sola traccia della sua origine divina; l'interpretazione storica e culturale fa dunque parte della rivelazione nel senso in cui la prima (l'interpretazione) è radicalmente consegnata alla seconda (la rivelazione). Come il corpus testuale, l'evento teologale del concilio si definisce dunque per il legame intrinseco tra questi due livelli: come comprendere il gigantesco sforzo d'aggiornamento se non come tentativo di rendere oggi possibile l'annuncio del Vangelo e, più an­cora, come atto di rispetto teologale del destinatario, quale che sia, anzi come scoperta inaudita che la capacità d'apprendere dell'altro e del mondo è la condizione stessa dell'annuncio, perché ciò di cui si parla nel Vangelo di Dio è già all'opera in essi.
    La ricezione del concilio ha dunque bisogno del corpus testuale - e chi d'altra parte ne dubiterebbe? -, un corpus letto in funzione dei generi testuali e della loro struttura relazionale e orientato da un principio interno di lettura. Ma questo non può liberarsi che grazie al racconto storico del processo di conversione collettiva (renovatio e reformatio), quale si ritrova (ad esempio) nella Storia del concilio Vaticano II. Dire che questo processo è incompiuto significa riconoscere che certe formule sono dei "compromessi" e che il corpus non è interamente abitato dal suo principio; i testi di Vaticano II non rivendicano lo statuto d'ispirazione. Questo felice limite storico non toglie affatto la loro funzione regolatrice, che si scopre, nella sua globalità come nel dettaglio, in favore di una messa in opera pastorale e missionaria (primo livello), che, con la guida dello Spirito, continua a integrare delle nuove prospettive, e questo in risposta alle sue proprie esigenze teologali e storiche che si preciseranno così (secondo livello).
    È questo lento "reinquadramento" post-conciliare, interno al "sistema aperto" del corpus conciliare, che vorrei evocare in conclusione. Senza dubbio anch'esso segue una doppia direzione, di cui l'una è strettamente connessa all'altra. Da un lato, porta allo stesso principio pastorale. E si ritrovano qui le ricerche evocate nella seconda parte, le evoluzioni dell'esegesi biblica e il nostro rapporto con il giudaismo e con Gesù di Nazareth, rapporto fondatore della postura messianica e pastorale della chiesa; Dei Verbum, in particolare il capitolo II [49], e altri testi conciliari offrono lo spazio a questo "reinquadramento" storico. Dall'altro lato, e contemporaneamente, questo porta alla percezione di ciò che accade ai destinatari e registra dunque la mutazione storica intervenuta dopo quarant'anni: l'accelerazione senza precedenti del processo di modernizzazione e una nuova coscienza mondiale, segnata dal pluralismo delle culture e da un profondo scetticismo in relazione a tutti i riferimenti a una verità ultima, così come dalle inevitabili reazioni, più o meno violente, suscitate da questa esperienza di una relati­vizzazione generalizzata; Gaudium et spes e altri testi a essa vicini rappresentano il terreno in cui si gioca questo "reinquadramento", affidato alla nostra capacità di discernere i segni dei tempi. In questa traiettoria tra il Vangelo e i suoi molteplici destinatari, la chiesa non cessa di essere interrogata sulla credibilità della propria figura e di essere rimandata, senza dubbio più che al tempo del concilio, alla sua capacità di renovatio e reformatio.

    Conclusione

    Queste osservazioni conclusive avevano come scopo quello di mostrare che il principio pastorale del Vaticano II fa appello non a una semplice applicazione, ma a un vero apprendimento, anzi a una capacità di registrare le trasformazioni (qualcuna è stata segnalata) che si producono in seno a un costitutivo gioco relazionale tra chi annuncia il Vangelo e chi lo riceve, e di lasciare che essi ripercuotano sull'insieme del dispositivo, avviandolo così verso un nuovo equilibrio "dottrinale". La normativa del corpus conciliare non consiste nella sua letterarietà teologica o giuridica, né in uno spirito che non avrebbe più niente da ricevere da esso; essa si manifesta piuttosto concretamente in una messa in opera pastorale o missionaria, che - istruita dallo Spirito - vada fino al punto in cui le riformulazioni di questo o quel testo si dimostrino necessarie, suscitando allora l'attesa di un nuovo concilio.

     

    NOTE

     

    1 Storia del concilio Vaticano II diretta da G. Alberigo, edizione italiana a cura di A. Melloni, 5 voll.. Bologna 1995-2001. D'ora in poi: SVII.

    2 Herder theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, herausgegeben von

    P. Huenermann und B. J. Hilberath. 5 voll., Freiburg 2004-06. D'ora in poi: HThK.

    3 Cfr. Vatican II sous le regard des historiens. Colloque du 23 septembre 2005- Centre Sèveres­Fàcultés jésuites de Paris, sous la direction de Ch. Theobald, Paris 2006. D'ora in poi: Colloque Sèvres.

    4 Cfr. G. Alberigo. Transizione epocale?, in svii, vol. 5, pp. 577-646, in particolare p. 632

    (corsivo mio).

    5 Ivi, pp. 632-3.

    6 lvi, pp. 777 ss.

    7 Cfr. G. Alberigo, L'Histoire du Concile Vatican II: problèmes et perspectivres, in Colloque  Sèvres. p. 43·

    8 Cfr. P. Huenennann, Der Text: Welden - Gesaft - Bedeutung. Eine hermeneutische Refle­xion, in HThK, voI. 5, pp. 7-9 e p. 87; cfr. anche Id., Rédecouvrir le «texte passé inaperçu. A propos de l'herméneutique du concile, in A. Melloni, Ch. Theobald (éds.), Vatican II. Un ave­nir oublié, Paris 2005, pp. 231 ss. e pp. 251-4.

    9 Ivi, pp. 231 e 254.

    10 Ivi, pp. 249 ss. (con riferimento a D. Grimm). Per maggiori informazioni, cfr. HThK, vol. 5, pp. 11-7 e 85-7.

    11 Melloni, Theobald (éds.), Vatican II. Un avenir oublié, cit., pp. 250

    12 HThK, vol. 5, pp. 48-55.

    13 Ivi, pp. 82-5.

    14 Ivi, p. 87.

    15 Cfr. fra altri K. Rahner, Zur theologischen Problematik einer “Pastoralkonstitution”; in Schriften zur Theologie, VII, Zurich 1967, pp. 613-36.

    16 O. Rush, Still Interpreting Vatican II: Some Hermeneutical Principles, New York-Mah­wah NJ 2004.

    17 HThK, vol. 5, pp. 62-72.

    18 Cfr. Ch. Theobald, Introduction, in L'intégral de Vatican II, edizione bilingue rivista, Paris 2002, pp. 111 ss. e XI-XII1. Questo aspetto deve essere integrato nella posizione di Peter Hluenermann.

    19 Ivi, pp. 61 ss. Huenermann nota giustamente che la costituzione Sacrosanctum concilium non rientra in questo schema perché, in quanto primo documento discusso e adottato, indi­ca piuttosto il programma conciliare.

    20 Ivi, IV/I, p. 341; cfr. Theobald, L'Église sous la parole de Dieu, cit., vol. 5, pp. 411 e 422 ss.

    21 Cfr. Centre Sèvres, Le Canon des Ecritures. Etlldes historiques, éxégetiques et systématiques, Paris 1990, pp. 13-73

    22 HThK, vol. 5, pp. 85 ss.

    23 Cfr. H. Legrand, Relecture et évaluation de l'Histoire du Concile Vatican II d'un point de vue ecclésiologique, in Colloque Sèvres, pp. 75-8.

    24 Riscoprire il "testo» passato inosservato ... , p. 251. 25 Ivi, p. 255.

    26 Cfr. G. Alberigo, L'Histoire du Concile Vatican II, in Colloque Sèvres, p. 43.

    27 Acta Synodalia, 1/4, p. 292. D'ora in poi: AS.

    28 Cfr. ]ean XXIII/Paul VI, Discors au Concile, Paris 1966, p. 107.

    29 Il testo è staro pubblicato in G. Alberigo, Il Vaticano II tra attesa e celebrazione, Bologna 1995, pp. 219-24.

    30 Per maggiori informaz. si può leggere Theobald ,Inroduction, in L'intégral Vatican II, cit.; vedi anche Id., Réinterroger les optiom théologiques et ecclésiologiques du Concile, in Melloni, Theobald (éds.), Vatican II. Un avenir oublié. cit., pp. 158-88.

    31 AS Ivi I, p. 341.

    32 Nell'edizione francese dei testi conciliari, organizzata secondo le tre categorie giuridiche delle costituzioni, decreti e dichiarazioni, la costituzione Lumen gentium apre la prima serie, seguita da Dei Verbum, da Sacrosanctum concilium e da GS.

    33 Cfr. Ch. Theobald, "La Transmission de la Révélation divine. A propos de la réception du chapitre II de "Dei Verbum" in Ph. Bordeyne, L. Villemin (éds.), Vatican II et la théologie. Perspectives pour le XXI siècle, Paris 2006, pp. 107-26.

    34 J. Ratzinger, L'ecclésiologie de la Constitution conciliare LG, in "La Docu­mentation Catholique", 97 (2000), p. 304.

    35 Cfr. Réinterroger les options théologiques et ecdésiologiques du Concile ... , pp. 170-83.

    36 Discorso di apertura del concilio Gaudet Mater Ecdesia (si dà qui la traduzione italiana distribuita dall'Ufficio stampa del Concilio, corsivi nostri): "fedeltà all'autentica domina, anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell'indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno. Altra è la sostanza dell' antica domina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che devesi - con pazienza, se oc­corre - tener gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni di un magistero a carat­tere prevalentemente pastorale» (ora in A. Melloni, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo Concilio, Torino 2009, pp. 305-35).

    37 «Allocuzione per la chiusura della seconda sessione», AS 11/3, p. 138.

    38 Segnaliamo alcuni studi recenti che mostrano un nuovo interesse per la questione: Ph. Bordeyne, L'usage de l'Écriture Sainte in Gaudium et spes. Un accès au discèmiment théologi­que et morale de la Costitution pmtorale du Concile Vatican II, in "Revue d'éthique et de théologie morale", 219 (décembre 2001), pp. 67-107; L. Villemin, Les actes des Apotres. Hi­stoire, récit, théologie (Lectio divina, 199), Paris 2005; O. Fuchs, Einige Aspekte zum Bibelbe­zung des Zweiten Vatikanums, in HThK, vol. 5, pp. 217-28.

    39 Cfr. anche Ch. Theobald, La Révélation. Quarante ans après "Dei Verbum", in "Revue théologique de Louvain", 36 (2005), pp. 145-65; Id., Pour une théologie de l'institutùm conci­liaire, in "Recherches de Science Religieuse", 93 (2005), pp. 267-90, La réception des Ecritu­res inspirées, ivi, pp. 545-70.

    40 AS 11/5, p. 689.

    41 Sottolineiamo che il testo, proposto il 23 settembre 1964 all'assemblea per la revisione, si riferisce ancora alla versione latina, corretta dalla curia, del discorso di Giovanni XXIII, che distingue tra "il deposito stesso della fede, ovvero le verità continue nella nostra venerabile dot­trina» e "la forma sorto la quale queste verità [plurali] sono enunciate». Questa nota sparisce nel testo definitivo, dando di nuovo una possibilità alla versione originale dell'intervento di papa Giovanni XXIII, citato nella n. 36, che - a una certa distanza rispetto al Vaticano sottolinea semplicemente la differenza fondamentale tra il deposito della fede, preso qui come un tutto - senza riferimenti a una pluralità interna che dipende già dall'espressione - e la forma storica che prende in questa o in quest'altra epoca.

    42 Cfr. soprattutto i due articoli di K.Rahner su "un'interpretazione teologica fondamentale del Concilio Vaticano Il” e sul "significato permanente del Vaticano 11», in Schriften,  XIV, Zuerich-Einseideln-Koln-Benzinger 1980, pp. 287-302 e 303-18.

    43 Cfr. anche M. Fédou, Le concile Vatican II, Un enjeu d'interpretétation, in Colloque Sèvres, pp. 156 ss.: "una giusta interpretazione del VatII implica che lo si accomuni all'e­sperienza che fu quella dei Padri conciliari, in quanto questa esperienza fu un'e­sperienza della prossimità di Dio nella Chiesa di quel tempo e, aldilà delle sue frontiere, nel mondo di quel tempo»

    44 Cfr. supra, n. 8.

    45 Cfr. supra, n. 30.

    46 Per maggiori dettagli cfr. Réinterroger les options thélogiques et ecclésiologiques du Concile, cit., pp. 160-65 e 170-83.

    47 Cfr. P. Huenermann (Hrsg.), Das Zweite Vatikanische Konzil und die Zeichen der Zeit heute. Anstoessen zur weiteren Rezeption, Freiburg-Basel-Wien 2006, in particolare i contributi di P. Huenermann, G. Ruggieri, Ch. Theobald e D. Mieth.

    48 F.-A. Isambert, La sécularisation interne di christianisme, in "Revue française de sociologie", 7 (1976), pp. 573-89; cfr. anche D. Hervieu-Léger, Catholicisme, la fin d'un monde, Paris 2003, pp. 54-89.

    49 Cfr. la formula seguente di Dei Verbum 7: «Quello che fu fedelmente compiuto, tanto dagli apostoli che, nella predicazione orale, negli esempi e nelle istituzioni, trasmisero, sia quello che avevano ricevuto dalla bocca di Cristo, delle loro relazioni intime con lui (conversa­tione), dalle opere, sia quello che avevano imparato dallo Spirito Santo, quanto ["')"; cfr. Ch. Theobald, La Transmission de la Révélation divine. A propos de la réception du chapitre II de "Dei Verbum", in Bordeyne, Villemin, Vatican II et la théologie, cit., pp. 124 S5.

     

    (da: Chi ha paura del vaticano II?  A cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri, Carocci, Roma 2009, II capitolo, pp. 45-68)

     

     

     

     

     


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