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    «Restaurazione»?

    Il termine «restaurazione» è ormai familiare all'interno del vocabolario della critica antiecclesiale, sia di quella di moda che di quella seria, per indicare il periodo seguente al Concilio - o, più esattamente, quello all'incirca a partire dal 1970 -. Nessuno può contestare il fatto che vi sono seri punti cui appellarsi per affermarlo. Nonostante la riforma della curia romana voluta dal Concilio e poi attuata da Paolo VI - che, grazie alla sua lunga militanza nella curia stessa, sapeva dove incominciare un tale lavoro - e nonostante l'istituzione del sinodo dei vescovi che si raduna con regolarità per favorire la comunicazione tra la curia e la Chiesa universale, in sostanza «Roma» ha continuato ad agire come sempre ha fatto. Raccogliamo alcuni fatti e ambiti problematici, con i quali «Roma» continua a creare problemi anche ai cattolici e alle cattoliche più fedeli alla Chiesa, circa l'opinione che nella curia si ha del Concilio e delle sue decisioni vincolanti.
    Nelle questioni che il Concilio, sotto pressione, non ha potuto discutere e che ha dovuto lasciare al papa per un'ulteriore elaborazione, si ebbero ben presto delle grosse delusioni. L'enciclica Humanae vitae, del 1968, fu la prima a porre fine a tutte le speranze che la Chiesa sarebbe potuta giungere con buoni motivi a una posizione più differenziata in merito alle questioni sui metodi per la regolazione delle nascite, dato che si tratta solo dei metodi e non del principio. Le speranze deluse non vennero rianimate da tutto ciò che di bene e di saggio si sostiene, per il resto, nell'enciclica riguardo al matrimonio.
    Le successive e sempre ribadite sottolineature della dottrina di tale enciclica, sia da parte di Paolo VI che di Giovanni Paolo II, fanno svanire anche la speranza che si sia trattato di un deplorevole contraccolpo, che di lì a poco sarebbe stato rettificato. Poiché a livello mondiale i cattolici e le cattoliche non seguono affatto in maniera univoca la dottrina dell'enciclica, ne nasce la bizzarra situazione che i rappresentanti del magistero si pongono in contrasto con la convinzione e la prassi - motivata in coscienza - di ampie parti del mondo cattolico, che per parte loro sanno di avere alle proprie spalle il Concilio, ovvero i rappresentanti della Chiesa mondiale nella loro intenzione di aprirsi a nuove questioni e conoscenze (costituzione pastorale).
    Dato che tale mondo cattolico che contraddice «Roma» ritiene la soluzione di tale domanda un problema di second'ordine, e tende anzi a contestare al magistero la competenza in tale materia, e dunque nemmeno si sogna di non considerarsi più parte della Chiesa a causa di tale contraddizione, è quasi logico che i sostenitori della dottrina di Humanae vitae al contrario esagerino presentando tale contraddizione come una ribellione contro l'essere Dio di Dio, come un attacco alla sua santità e dunque come una questione centrale di fede. Le prospettive di successo di una simile «strategia» sono scarse e così non è difficile calcolare a spese di chi tale disputa si risolverà: a spese dell'immagine e dell'affidabilità del magistero; e nessuno che ritenga la voce del magistero nella Chiesa un contrappeso e a volte un 'istanza arbitrale irrinunciabile nella libera discussione, all'interno del popolo di Dio, può rallegrarsene.
    L'ulteriore delusione di lungo effetto fu rappresentata già prima, nel 1967, dall'enciclica di Paolo VI sul celibato. Anche tale enciclica mostra come gli atteggiamenti anticipati assunti da alcuni esperti altamente qualificati durante e dopo il Concilio si siano rivelati vani. Al contrario, la questione del celibato, che anche a detta della convinzione «conservatrice» non vede in discussione alcuna premessa vincolante per la fede, ma soltanto una questione di merito riguardo all'impostazione della vita ecclesiale, rappresenta proprio un esempio paradigmatico di come si abbiano sul tavolo tutti gli argomenti stringenti della teologia, delle scienze umane e dell'esperienza pastorale, eppure a causa di una pura affermazione di potere questi non possano condurre a un cambiamento delle disposizioni ecclesiali.
    E’ vero che si può dimostrare come nemmeno Giovanni XXIII avesse assolutamente l'intenzione di sopprimere il celibato obbligatorio per i preti. Tuttavia - e questo è di nuovo tipico di Giovanni XXIII - egli ha iniziato, tra lo stupore e anzi a volte il disappunto di alcuni, a dispensare alcuni preti dall'obbligo del celibato, concedendo loro il matrimonio ecclesiastico, se lo desideravano per motivi di coscienza e se erano disposti per tale motivo ad abbandonare il loro ministero. Questa prassi l'ha proseguita il suo successore Paolo VI, pur riducendola sensibilmente. Giovanni Paolo II ha rigorosamente bloccato tale prassi e l'ha proseguita solo laddove lo consentiva già il diritto canonico: se qualcuno poteva dimostrare di aver ricevuto l'ordinazione sotto costrizione. E nel far ciò ci si mostra «moderni», estendendo il concetto di «costrizione» anche a quella di ordine psichico (o di psicologia del profondo).
    Tutto ciò non semplifica la faccenda, ma anzi la peggiora. Infatti a questo punto un presbitero che è entrato in conflitto ha una chance di ottenere la «laicizzazione» (ma dal punto di vista del diritto cattolico si dovrebbe dire, in maniera corretta: «la riduzione allo stato laicale»), se di fatto denuncia se stesso come nevrotico. Non c'è da stupirsi se dei caratteri retti tra i presbiteri, già caricati di altri pesi, abbiano rifiutato tutto ciò. Nelle motivazioni teologiche ufficiali per il celibato - dall'enciclica di Paolo VI fino alla numerose lettere pastorali di Giovanni Paolo II sul sacerdozio e la formazione dei sacerdoti, nonché le sue lettere pastorali del giovedì santo indirizzate ai preti, pur con tutta la buona volontà gli interessati non riescono a ritrovare la propria problematica né dal punto di vista spirituale, né da quello umano.
    Nel frattempo aumenta in maniera drammatica anche la «desertificazione» delle comunità, entro le quali la celebrazione eucaristica domenicale diviene sempre meno ovvia, a causa della mancanza di un prete: in altre regioni del mondo ancor più che in Europa. I sospiri percorrono - naturalmente di rado in maniera pubblica - tutto l'episcopato. Eppure non serve a niente. Non serve a niente nemmeno che nel 1985, di quei 76 preti che il papa aveva ordinati nel corso della sua prima visita in America Latina, ben 35 avessero già lasciato il ministero e fossero sposati. Per chiarire una cosa: io non sono affatto dell'avviso che l'eliminazione del celibato obbligatorio per i preti secolari risolverebbe in un colpo tutti i problemi collegati con il servizio presbiterale nella Chiesa. Al contrario, c'è da prevedere che potrebbero nascerne anche dei problemi nuovi. Tuttavia, alcuni problemi elementari e urgenti - e penso in particolar modo ai destini toccanti delle donne e dei bimbi che sono coinvolti - sarebbero superabili, e tutta una serie di conflitti, che non è più possibile spiegare a una persona ragionevole, si comporrebbero da sé.

    Matrimonio e liturgia ecumenici

    Certi sviluppi che si erano annunciati al riparo della barriera frangivento della riforma liturgica vennero ben presto censurati da Roma. E il caso, ad esempio, della celebrazione «comunitaria della penitenza» - che alla luce della storia della penitenza sarebbe totalmente giustificabile come forma alternativa al sacramento della penitenza e come alternativa alla confessione individuale (o «confessione auricolare»).
    In modo simile, e nonostante tutti i buoni motivi che esistevano, venne ovviamente bloccata anche ogni forma di comunione eucaristica con le Chiese della Riforma, sebbene non fosse richiesto null'altro che la cosiddetta «comunione aperta», detta anche in maniera poco felice «ospitalità eucaristica». Nonostante i mutamenti introdotti a partire dal 1970 e fissati nel nuovo Codice del 1983 circa le norme canoniche per i matrimoni tra persone di diverse confessioni - cambiamenti che rispettano maggiormente la coscienza degli interessati e che regolano almeno gli aspetti più urgenti, pur lasciandone in sospeso altri - non esiste purtroppo ancora un «matrimonio ecumenico». Esistono solo, all'interno delle diocesi o delle regioni ecclesiastiche, dei formulari adattati per matrimoni evangelici o cattolici che prevedono la partecipazione di un ministro della Chiesa sorella. Per gli interessati ciò non fa quasi differenza, perché in genere non colgono le sottigliezze canoniche o teologiche che stanno dietro.
    Di fatto però il matrimonio «ecumenico» resterà un «ferro ligneo», finché la Chiesa cattolica, basandosi sulla teologia e sul diritto canonico, continuerà a sostenere che solo con la celebrazione del sacramento il matrimonio viene concluso con validità giuridica, mentre secondo la concezione evangelica lo sposalizio rappresenta solo la benedizione di un matrimonio già concluso. Proprio tale concezione cattolica rappresenta il problema, in quanto non è esigita dalle premesse dogmatiche vincolanti del concilio di Trento, né risulta sensata alla luce dell'attuale teologia cattolica del matrimonio. Non vogliamo essere ingiusti: si tratta di un guadagno eccezionale, se il punto di vista pastorale è riuscito in tale materia a trovare con molta fantasia una risposta valida della quale, se attuata con la debita sensibilità, tutti gli interessati potranno rallegrarsi. Solo che si tratta di una soluzione negoziale tollerata e nessun parroco è tenuto, a norma di diritto canonico, a corrispondere al desiderio di «matrimonio ecumenico» da parte di una coppia di fidanzati che appartengono a due diverse confessioni.
    La riforma liturgica risulta «conclusa» con l'uscita del nuovo Messale nel 1974. A partire da tale data il centro, Roma, vigila affinché la liturgia resti unitaria, a prescindere dalla madrelingua, fino nella foresta africana, dove nel 1985 venne proibita una liturgia tanzaniana vicina al popolo e senza dubbio «buona», solo per alcune piccole differenze rispetto al prototipo romano. La competenza dell'autorità regionale - ovvero la conferenza episcopale -, che proprio nel contesto della costituzione sulla liturgia è stata, per così dire, creata quale grandezza canonica, nell'ambito delle questioni liturgiche per Roma è come se non esistesse più. Non c'è allora da meravigliarsi se Roma e, al suo seguito, le conferenze episcopali persero un'occasione ecumenica di primo grado, ovvero la cosiddetta «liturgia di Lima», che venne concepita e celebrata nel contesto della conferenza della commissione Fede e costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese nel 1982 e che, a partire da tale momento, viene praticata anche nel mondo non cattolico come una forma particolarmente solenne di cena del Signore.
    Chiunque verificasse tale testo potrebbe notare che si tratta di una liturgia che, per forma e contenuto, corrisponde del tutto alle celebrazioni eucaristiche postconciliari nella Chiesa cattolica. La sua particolarità consiste soprattutto negli elementi musicali e testuali che provengono da ogni luogo, dove anche nella liturgia postconciliare è senz'altro ammessa e benvenuta una certa possibilità di variare. Non vedo che cosa avrebbe potuto ostacolare, dal punto di vista teologico e della scienza liturgica, un'approvazione di tale liturgia quale formulario liturgico aggiuntivo, oppure di suggerire l'approvazione da parte delle autorità regionali. In caso si sarebbero potute attuare delle piccole modifiche, che non avrebbero intaccato la particolarità di tale liturgia, ma al contempo avrebbero garantito alcuni elementi cattolici essenziali; se vi fossero state delle perplessità, si sarebbe potuta ad esempio pretendere la forma ufficiale del racconto dell' istituzione.
    Ha forse svolto un ruolo inibente la paura nascosta che l'accoglienza della liturgia di Lima nel contesto dell'importante «Documento di Lima» su battesimo, eucaristia e ministero, avrebbe potuto essere intesa come una liberalizzazione della comunione eucaristica? Tale aspetto si sarebbe potuto chiarire facilmente e anche in tal caso una celebrazione puramente cattolica della liturgia di Lima sarebbe stata comunque un segno notevole di speranza ecumenica da parte della Chiesa cattolica.

    La libertà dei teologi

    La libertà della teologia, del suo ricercare e interrogare - sancita nella costituzione sulla rivelazione - rimase una speranza, che oggi si trasforma di nuovo in timore, timore non da ultimo anche di un'arcinota estremizzazione nelle mani dei dicasteri romani. Anche l'impiego del metodo storico-critico nell'esegesi - circa i cui limiti sono consci tutti i seri cultori di scienze bibliche - si fa di nuovo pericoloso, da quando la prima istruzione della Congregazione per la fede «su alcuni aspetti della teologia della liberazione» ne fa risalire gli «errori» anche fino a Rudolf Bultmann. Le preoccupazioni degli estensori dell'istruzione sono comprensibili, la descrizione dei fatti è però a volte grottesca, specialmente la presunta intima relazione tra l'esegesi storico-critica e la paventata origine «marxista» della teologia della liberazione; l'attacco a Bultmann, grazie al cui influsso anche gli esegeti cattolici hanno imparato ad applicare il metodo storico-critico, è allarmante, per lo meno quando il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il card. Joseph Ratzinger (oggi Benedetto XVI; ndr), si fa portavoce di un attacco generale, in parte motivato, ma per altra misura esasperato, contro l'esegesi storico-critica. Per non parlare del carattere illogico delle parole del Concilio, secondo il quale per acquisire una più profonda conoscenza della rivelazione, la teologia deve sempre di nuovo interpretare la dottrina della fede.
    La misura di inquietudine delle teologhe e dei teologi cattolici fu colma quando nel 1990 la Congregazione per la dottrina della fede pubblicò la sua istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, ordinando al contempo un giuramento di fedeltà per tutti i futuri maggiori dignitari della Chiesa e per quanti insegnano su mandato della Chiesa. Si deve riconoscere che l'istruzione si dà gran pena nel descrivere e riconoscere il conflitto di coscienza che conosce un teologo o una teologa nella tensione tra integrità intellettuale e il vincolo alla dottrina ecclesiale. In definitiva si rimane però all'invito che, se tale conflitto non può essere risolto con la semplice sottomissione a quanto prevede la Chiesa, va sopportato nell'intimo della coscienza personale, ma non deve a nessun costo essere espresso pubblicamente, tanto meno - la cosa di cui sembra più ci si preoccupi - tramite i media.
    E ciò vale, si noti bene, non solo per i dogmi, bensì anche per il cosiddetto insegnamento «autentico» della Chiesa, per il quale non viene avanzata la pretesa di un carattere vincolante infallibile. Se si prosegue tale ragionamento fino in fondo, allora la conseguenza logica che se ne avrebbe sarebbe che in futuro non potrebbe mutare nulla nemmeno nella dottrina ufficiale non-definita della Chiesa, dato che ciò presuppone una discussione aperta, se non addirittura pubblica. Eppure la dottrina ufficiale non-definita della Chiesa è mutata in maniera sensibile in molti campi. Non di rado si è verificato che la rispettiva dottrina «autentica» della Chiesa del momento sostenesse esattamente ciò che 50 anni prima aveva affermato anche un'opposizione che era stata duramente combattuta all' interno della Chiesa.
    Nemmeno i dogmi definiti sono rimasti indenni da revisioni, che per dirla chiaramente sono più che non semplici nuove interpretazioni: - cosa, questa, che al Concilio si è verificata più volte. Ciononostante si esige un giuramento di fedeltà. Quale altro senso potrebbe avere - 25 anni dopo che è stato tolto il precedente «giuramento antimodernista» - se non di fornire uno strumento disciplinare, che in casi estremi potrebbe produrre di nuovo un blocco decennale nella teologia, come già si è verificato dopo la decisione antimodernista che venne presa all'inizio del Novecento?
    Insomma: la libertà della teologia esiste - a danno dell'immagine della Chiesa - solo sotto la tutela di garanzie extraecclesiali. Un «caso Küng» non si sarebbe mai verificato in Italia, in una facoltà teologica della Chiesa. L'imputato avrebbe perso la propria cattedra molto prima di poter scrivere - al più tardi - il suo libro Infallibile? Una domanda.

    Il papa, i vescovi, il concilio

    La collegialità dei vescovi con il papa e la richiesta da parte del Concilio di una maggior decentralizzazione nella Chiesa, ovvero di un maggior rispetto per la specificità delle Chiese particolari, non hanno ancora trovato un'applicazione concreta. Nomine episcopali volutamente di taglio conservatore hanno garantito che nelle conferenze episcopali ci fosse una maggioranza di due terzi atta a scongiurare che da lì provenissero delle innovazioni indesiderate. I sinodi dei vescovi che finora si sono radunati a Roma (fino al 2004; ndr) sono stati incontri di discussione alla presenza del papa, il quale non ha mai partecipato alla discussione, ma ha in seguito pubblicato ciò che ha ritenuto opportuno, in base alla discussione che aveva seguito. E anche se in tali scritti papali postsinodali si può notare lo sforzo sincero di riportare anche in tali esortazioni quanto è stato espresso nella pluralità di linguaggi del sinodo, ciò non toglie nulla al fatto che questi sinodi non sono quello che il Concilio aveva prospettato. Essi sono piuttosto una caricatura quasi demoralizzante di ciò che Paolo VI aveva voluto quando ne ottenne l'istituzione da parte del Concilio: appunto la dimostrazione della responsabilità dell'episcopato mondiale per la Chiesa. A che cosa servono infatti quei sinceri e fruttuosi processi di informazione d'opinione che si verificano al sinodo dei vescovi, se non hanno un valore vincolante anche per il papa, portandolo una buona volta a partecipare anche lui alla discussione!
    Il nuovo diritto canonico ha poi svalutato in maniera sottile il concilio ecumenico nei confronti del papa, e non ha lasciato indenne la vecchia «ingenua» tesi del Codex iuris canonici del 1917, secondo cui il concilio esercita insieme al papa la massima autorità nella Chiesa. A una lettura superficiale si tratta solo di sfumature e in nessun caso di una contraddizione diretta delle asserzioni del Concilio. Eppure, a una lettura più attenta saltano agli occhi due chiare differenze rispetto al diritto precedente: non più il concilio ecumenico esercita insieme al papa «la suprema e piena potestà sulla Chiesa universale», bensì adesso nel can. 336 al posto del concilio è subentrato il «collegio dei vescovi». Nel seguente can. 337 il concilio è una delle tre possibilità mediante le quali il collegio episcopale esercita, con e sotto il papa, la sua «suprema e piena potestà», sebbene vi siano «altre forme di collaborazione collegiale» che entrano a pari titolo a fianco del concilio, siano esse intraprese dai vescovi con il consenso del papa oppure avviate dal papa stesso. Il testo del diritto canonico suggerisce dunque al papa di provare con quelle altre forme di prassi collegiale, più semplici e meno impegnative, prima di convocare un concilio, che nella visione del diritto canonico, dal punto di vista teologico, non detiene più alcun vantaggio rispetto alle altre forme. D'altra parte, i poteri primaziali del papa vengono invece ripetuti e garantiti dal punto di vista giuridico senza alcuna diminuzione. Se si considera che nel primo abbozzo del nuovo Codice nel 1980, ovvero solo tre anni prima della sua promulgazione, il concilio non veniva citato una sola volta, allora il sospetto che la svalutazione del concilio sia intenzionale non può essere semplicemente liquidato come immaginario.
    I sinodi dei vescovi che finora si sono celebrati, sotto tali premesse si sono poi occupati di temi relativamente poco importanti, ma riferiti soprattutto a questioni interne alla Chiesa: i più recenti si sono interessati ad esempio della dottrina del matrimonio (naturalmente nella linea di Humanae vitae), della penitenza nella Chiesa, della formazione dei presbiteri. Là dove batteva il cuore del Concilio - la precedenza data all'intero popolo di Dio nella descrizione della natura della Chiesa rispetto al ministero, che anche in quanto ufficio gerarchico deve servire il popolo di Dio, l'unità nella pluralità, l'apertura al mondo, il dialogo e il sapersi ritirare da certi ambiti -, in questi settori i sinodi non sono andati oltre, oppure non hanno potuto procedere oltre.
    Nemmeno si può intravedere qualcosa di quella «strategia pastorale della Chiesa universale» che Karl Rahner aveva caldeggiato nella sua interpretazione d'insieme del Concilio. Lo slogan della «nuova evangelizzazione dell'Europa» non gli era ancora presente al momento della sua morte nel 1984, ma nemmeno era ciò che lui aveva in mente. La pastorale è infatti qualcosa di diverso dall'«evangelizzazione», la cui attuazione pratica che fin qui è dato di vedere comporta soprattutto pretese di affermazione e di partecipazione ecclesiale-istituzionale, che causano sempre di nuovo cattivo sangue, soprattutto se il modo di procedere è informato da poca sensibilità ecumenica.
    A ciò si aggiunge, inoltre, che non si è affatto rinunciato a porre le proprie speranze in privilegi garantiti dallo stato, come invece aveva richiesto il Concilio. Al contrario, dovunque gli stati si siano dimostrati disponibili, sono stati siglati dei concordati e non di rado in questi casi lo stato ha operato da spalla per gli interessi ecclesiali e a volte degli esclusivi interessi della Chiesa, anche a spese dei contribuenti non cristiani. Nella vecchia Germania federale questa politica ecclesiale ha avuto un tale successo che i nuovi concordati regionali offrono un aiuto pieno, nel caso che un giorno l'antico concordato regio dovesse perdere validità per ragioni politiche o giuridiche.
    Similmente rimane un pio desiderio la richiesta del Concilio che la curia romana si comprendesse ed agisse come organo ausiliario e non pone istanza di vigilanza rispetto all' operato dei vescovi. E vero che subito dopo il Concilio Paolo VI intraprese, conformemente agli articoli 9 e 10 del decreto sui vescovi, una riforma della curia romana che produsse minori attriti nella collaborazione. Il tutto si è però risolto a esclusivo vantaggio della curia e dopo Paolo VI è evidente che non funziona più in maniera così ovvia. In rapporto ai vescovi del mondo, tuttavia, la riforma della curia ha soltanto migliorato le possibilità e l'efficienza del regime centralistico.
    E come l'istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo ha ridotto quasi a zero le speranze circa l'ammissione della libertà di parola nella Chiesa, così ha fatto più di recente lo scritto della Congregazione per la dottrina della fede sulla Chiesa come communio in riferimento al rapporto della Chiesa universale con le Chiese particolari. Sono saltati tutti quei freni, peraltro molto morbidi, che il Concilio aveva attivato nei confronti di una comprensione esorbitante e di una prassi spregiudicata della potestà primaziale del papa.
    Rispondendo a presunte o talora qui e là reali tendenze «separatiste», la struttura gerarchica della Chiesa non viene commentata, spiegata e in tal modo anche limitata mediante il ricorso all'idea della «comunione delle Chiese particolari» delle quali «si compone» la Chiesa universale secondo l'articolo 23 della costituzione sulla Chiesa; piuttosto si traccia, viceversa, un limite invalicabile al pensiero della Chiesa come communio, mediante la ferrea indicazione che la comunione delle Chiese particolari costituisce la Chiesa universale solo «con e sotto Pietro» (cum Petro et sub Petro). Per dirla chiaramente: ogni critica all'attuale visione e prassi del primato papale risulta essere una critica alla natura stessa della Chiesa.
    Se ciò fosse vero, allora l'intero Vaticano II sarebbe ormai solo materia di satira. In tal caso infatti la sottolineatura del primato papale che viene operata nella Nota explicativa praevia alla costituzione sulla Chiesa - ottenuta, come sappiamo, con una pressione sul Concilio contraria all' ordine procedurale - e che supera tutto quanto fin a quel punto era stato affermato, sarebbe il senso autentico della concezione di Chiesa del Vaticano II, e questo avrebbe proclamato un'ecclesiologia, cioè una «dottrina sulla Chiesa», che avrebbe messo in ombra lo stesso insegnamento del Vaticano I. E come se non bastasse, la dichiarazione ritiene anche che ogni ricerca ecumenica di una nuova unità della Chiesa tende in maniera «oggettiva», ovvero in modo inclusivo e dunque anche inconscio o nascosto, a realizzare una simile unità della cristianità «con e sotto Pietro». Le reazioni dal mondo dell'ecumenismo si possono senz'altro immaginare e nel frattempo sono già messe agli atti.

    Roma e l'ecumenismo

    Il dialogo ecumenico, specialmente a partire dal 1970 circa, si è arenato su tutta la linea del magistero, a prescindere da cortesie di protocollo, discorsi occasionali con punture di spilli e naturalmente dall' «ecumenismo delle parole alate». Va notato in proposito che le reciproche riserve si sono inevitabilmente e reciprocamente intensificate: le Chiese evangeliche (e altrettanto quelle ortodosse d'Oriente) si fanno sempre più riservate, quanto più osservano che la Chiesa cattolica ritorna volutamente sugli antichi binari; e questa diviene a sua volta tanto più riservata, quanto più ritiene di notare un crescente indurimento delle Chiese nonromane. E così via.
    Ma come è possibile tale stato delle cose, se proprio nel medesimo periodo sono stati elaborati un «documento di consenso» dopo l'altro, a livello mondiale come regionale, tra la Chiesa di Roma e il Consiglio ecumenico, oppure tra la Chiesa cattolica e quelle luterane o anche altre Chiese che provengono dalla Riforma? Si deve alla fine pensare: dato che ora le cose si fanno serie in ambito teologico per quanto concerne l'apertura ecumenica della Chiesa, nei centri ministeriali della Chiesa ci si è fatti forse ancor più prudenti, per non dovere in seguito rimpiangere qualche passo troppo affrettato? Tre dati di fatto parlano comunque da sé.
    Il primo dato di fatto: immediatamente dopo il Concilio - con prodromi già durante l'epoca del Concilio - inizia una serie di misure indirettamente o in parte direttamente antiecumeniche da parte di Roma, che a tutt'oggi non hanno fine; si inizia con l'istruzione sull' indulgenza - poco sensibile di fronte alle Chiese della Riforma sia per contenuto sia per la tempistica della promulgazione, dato che fu pubblicata proprio il 10 gennaio 1967, anno in cui la cristianità riformata festeggiava i 450 anni dalla pubblicazione delle tesi di Lutero sull' indulgenza - fino alla presa di posizione vaticana sull'ordinazione del primo vescovo-donna luterano a livello mondiale, avvenuta ad Amburgo il 30 agosto 1992, che il portavoce del papa prontamente bollò come un ulteriore ostacolo per il dialogo ecumenico con Roma. Non intendiamo qui raccontare una storia scandalistica del dialogo ecumenico postconciliare, che sarebbe tuttavia possibile stilare senza difficoltà.
    Il secondo dato: poiché la serie delle azioni antiecumeniche saltava agli occhi solo a un piccolo numero di osservatori esperti della scienza ecumenica, la rassegnazione subentrò nella più ampia opinione pubblica ecclesiale solo circa un decennio dopo. Si può all'incirca affermare: fino al 1980 (anno giubilare della Confessione augustana del 1530) l'interesse ecumenico dell'opinione pubblica ecclesiale anche nelle Chiese evangeliche - era per così dire intatto, sebbene tutti i documenti ecumenici di quegli anni fossero rimasti senza conseguenze a livello delle istituzioni (ad esempio, il cosiddetto documento di Malta del 1971, oppure il documento La cena del Signore o anche la dichiarazione del papa sulla Confessione augustana, gli importanti risultati dei dialoghi del gruppo di dialogo luterano-cattolico negli USA e così via). In seguito la curva dell'interesse decrebbe rapidamente. Ciò riguardò subito le importanti dichiarazioni di convergenza di Lima, le affermazioni magisteriali molto Più prudenti rispetto al 1980 in merito all' anno di Lutero, e infine il documento sulle condanne dottrinali del XVI secolo e il loro attuale significato. Se da decenni le teste più fini della teologia e della Chiesa ritengono possibile un consenso e una nuova comunione delle Chiese e a livello magisteriale non avviene nulla, l'interesse ecclesiale per il dialogo ecumenico andrà necessariamente sempre più scemando su gruppi sempre più piccoli di irriducibili, che non rinunciano a sperare contro ogni speranza.
    Il terzo dato di fatto: da circa un decennio a questa parte è possibile osservare che le Chiese non cattoliche perdono quasi la pazienza con «Roma» e, dopo che una nuova unità delle Chiese è fallita a causa dell'atteggiamento rigido di Roma, all'interno delle loro comunità fanno quello che in base alle loro convinzioni avrebbero da lungo tempo potuto compiere, ma che tra l'altro per rispetto nei confronti del dialogo con Roma avevano frenato: le Chiese luterane siglano la comunione con quelle metodiste, gli anglicani iniziano a ordinare donne, il mondo luterano ha nel frattempo diverse donne vescovo (e già da lungo tempo delle prevoste e delle sovrintendenti).
    La situazione appare attualmente alquanto arida per quanto riguarda una nuova comunione tra le Chiese. Eppure vi è tutta una serie di questioni di dettaglio, che - se solo si volesse - si potrebbero affrontare in maniera costruttiva e senza pregiudicare le domande teologiche ancora irrisolte. Non accade però nemmeno questo: da una più forte collaborazione nelle commissioni del Consiglio ecumenico delle Chiese - sebbene un'adesione formale non sia attualmente auspicata per motivi di politica ecclesiastica, in quanto per via delle quote proporzionali di rappresentanza essa minerebbe lo stesso Consiglio ecumenico delle Chiese, poiché in caso di votazioni la Chiesa cattolica, insieme a quelle ortodosse, metterebbe quelle riformate con le spalle al muro a una pastorale comune nel caso di matrimoni tra persone di diverse confessioni.
    E perché una buona volta il papa non elabora un'enciclica sui problemi attuali insieme a Ginevra, così come già esistono in Germania documenti comuni tra le conferenze episcopali evangeliche e cattoliche? Sullo sfondo di tale non-volontà si pone in definitiva ancora il rifiuto di considerare con il Concilio le Chiese della Riforma quali «Chiese e comunità ecclesiali» e di conseguenza di riconoscere il ministero in tali Chiese, in quanto è il ministero di una Chiesa che viene come tale riconosciuta. Se a ciò si aggiunge ancora l'attuale politica cattolica intraecclesiale questioni come le nomine dei vescovi, il rifiuto del nihil obstat per professoresse e professori di teologia contro il parere della facoltà e dei vescovi competenti -, allora anche da cattolici verrebbe a volte da suggerire ai responsabili delle Chiese evangeliche: aspettate per vedere come evolveranno le cose. Il rispetto per la «libertà del singolo cristiano» non è infatti attualmente molto di moda nella Chiesa di Roma.

    La donna nella Chiesa

    Non vogliamo poi dimenticare di citare anche questo aspetto: più volte ci siamo imbattuti nel fatto che il tema «donna nella Chiesa» e anche le istanze di una «teologia femminista» non sono stati temi affrontati dal Concilio come si evince anche dal linguaggio «inclusivo», ovvero solo maschile, pure laddove si parli di uomini e donne. Senza alcun problema Roma e la fazione conservatrice del cristianesimo cattolico hanno potuto bloccare in maniera perfetta tale tema. Ogni ipotesi di un' ordinazione delle donne è stata esclusa dalla Congregazione per la dottrina della fede (ma ripetute volte anche da Giovanni Paolo II nei suoi interventi in maniera esplicita e con gli argomenti più discutibili. Alcuni vescovi tedeschi hanno mostrato di contro una simpatia e una crescente richiesta di assistenti pastorali donne. Sia che la cosa fosse consapevole o meno, ciò ottiene un effetto restrittivo, in quanto blocca in primo luogo ogni tendenza all'eliminazione dell'obbligo del celibato. Gli assistenti pastorali - come risulta dalla storia della nascita di questo nuovo ministero, affermatosi nella Chiesa a partire dalla fine degli anni sessanta - sono inevitabilmente la «riserva» dei futuri preti sposati. L'esclusione della donna dal ministero si esprimerebbe tuttavia in una tale palese discriminazione della donna, per evitare la quale non si potrebbero ordinare preti nemmeno gli assistenti pastorali, cosicché si tornerebbe a cementare, come è negli intenti, l'obbligo del celibato.
    Per dirla in breve e per non evitare di esprimere un chiaro giudizio: raramente nella storia dei concili una minoranza neppure qualificata (come spesso ricordato: fra i 300 e i 500 padri conciliari su 2.700) è stata tanto curata, addirittura con delicatezza e a spese dell' «immagine» pubblica del papa, arrivando ad accettare formulazioni contraddittorie o almeno non univoche dei testi conciliari. E di rado una simile minoranza ha in seguito sfruttato in maniera spregiudicata - per non dire vergognosa e cinica - le formulazioni non chiare da essa stessa ottenute per imporsi sui binari della tradizione, ignorando la chiara volontà della maggioranza dei rappresentanti della Chiesa universale.
    Se occorresse un esempio di ciò che dico, basterebbe pensare a come sono stati trattati da Roma i desiderata del sinodo comune delle diocesi della Repubblica federale di Germania, tenutosi a Würzburg, e che erano assai modesti, essendo passati per il severo filtro della Conferenza episcopale tedesca: il loro rifiuto si concretizzò in una semplice e mirata non-considerazione. Il principio dell'antico pietista Philip Jakob Spener, nato dalla fede e dalla speranza: «Aspettare tempi migliori!», lo si vorrebbe quasi cinicamente mutare in «Aspettare tempi peggiori!». Uno sguardo obiettivo sulle realtà attuali deve arrivare alla conclusione: l'apertura alla pluralità, la fluidificazione dello stile di guida centralistico e burocratico della curia romana - e delle curie «romane» al di fuori dell'Italia - si potranno aspettare solo se per tali istanze verranno tempi peggiori, nei quali non potranno più realizzare ciò che intendono imporre. Per tale ragione, ed è uno dei motivi più angoscianti dell'evoluzione postconciliare, i vescovi attualmente escono quasi del tutto di scena come partner per una discussione delle questioni dibattute nella Chiesa: essi si trovano (di nuovo) sotto una tale pressione lealista, da dover difendere tutto ciò che Roma prescrive, arrivando fino al rifiuto pubblico delle chierichette. E chi da contatti privati è a conoscenza del fatto che vari vescovi la pensano diversamente e sospirano - ma a volte anche imprecano - sotto il peso della mediazione tra la «Chiesa in loco» e il governo centrale della Chiesa, non può naturalmente rivelare certi dettagli, per non rendere ancor più duro il loro compito.
    Qualcosa di simile vale poi anche di nuovo per i professori di teologia presso le facoltà cattoliche: finché non ottengono una chiamata, devono tenere a freno la lingua (ragion per cui è oggi difficile coprire una cattedra di dogmatica o di teologia morale). Quando poi sono in carica, devono esprimersi in maniera equilibrata, per non perdere di nuovo la facoltà d'insegnare. Ci muoviamo di nuovo verso l'antico detto: «I cattolici sono falsi»?

    Solo «restaurazione»?

    Dove c'è molta ombra, ci deve essere anche della luce. Di fatto non tutto ciò che è avvenuto dopo il Concilio rappresenta un grande «roll back». Di nuovo ci esprimiamo quasi solo per parole chiave.

    a) La costituzione sulla liturgia è già quasi superata dagli ulteriori passi coraggiosi che nel frattempo sono stati compiuti con Roma e con la sua attiva promozione. Ricordiamo solamente la liturgia interamente nella madrelingua, che il Concilio non aveva ancora in vista, e la proposta ampliata - nonostante la riforma sia ora «conclusa» - di nuovi testi liturgici (e di antichi rivisitati), che rendono in maniera viva quello che è il meglio della grande tradizione liturgica. Dinanzi a ciò impallidiscono gli ultimi dettagli auspicati e non esauditi.

    b) Nella dichiarazione, di per sé oltremodo restrittiva, Mysterium Ecclesiae, del 1973 - che nella prospettiva di Roma rappresenta una chiara condanna delle tesi ecclesiologiche di Hans Kiing e di molti che la pensano in modo simile a lui, ad esempio nel team della rivista Concilium – si trova, per la prima volta in una presa di posizione del magistero, l'affermazione che anche le formulazioni dogmatiche hanno un carattere storico e dunque non portano in ogni tempo e in uguale misura a felice espressione quella che è la verità di fede. Anche solo per questa asserzione si deve considerare questa dichiarazione come una sorta di pietra miliare. Ed è oltremodo significativo che la già citata istruzione della Congregazione per la dottrina della fede «sulla vocazione ecclesiale del teologo», nonostante la sua tendenza restrittiva, riprenda e riaffermi, nel suo significato, questa affermazione.

    c) Sebbene il nuovo libro delle leggi della Chiesa, il Codice di diritto canonico del 1983, a detta di canonisti critici, che al di là della giurisprudenza non hanno dimenticato la teologia, sia «una catastrofe», non si dovrebbero trascurare i sostanziali miglioramenti che esso ha registrato. E, ad esempio, buona cosa che il numero dei canones sia stato ridotto di un terzo rispetto al C/C del 1917: un piccolo passo in direzione di una Chiesa «libera da editti», laddove possibile. Ugualmente risulta limitato ciò che si riferisce alle pene. Soprattutto ci sono ormai solo pochi casi in cui la scomunica subentra da sé (excommunicatio latae sententiae), ovvero i casi in cui l'esclusione dalla comunità ecclesiale si verifica in maniera automatica quando si compie l'azione sanzionabile, un procedimento che finora non solo sottraeva la più grave di tutte le pene ecclesiali a ogni trasparenza, bensì la rendeva un procedimento di routine, dove erano già previsti dei moduli con la richiesta di assoluzione.
    Vi sono poi ampi miglioramenti a livello di diritto matrimoniale, sebbene sia rimasto il suo sistema problematico. Il che comporta che se, ad esempio, qualcuno è uscito dalla Chiesa cattolica con un atto pubblico e/o è entrato in un'altra Chiesa cristiana, nel contrarre matrimonio non è più tenuto, com'era finora, alla forma di celebrazione religiosa del matrimonio, mentre la normativa fin qui in vigore secondo il principio «una volta cattolico, sempre cattolico» rendeva possibili degli abusi assurdi e cinici.

    d) Anche nel dialogo ecumenico non tutto è irrigidito. E vero che l'incontro tra Philip Potter, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, e papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita a Ginevra nel 1984 è stato sufficientemente chiaro: Potter salutò il «vescovo di Roma» e il papa rispose spiegando in maniera amichevole, ma sufficientemente chiara, in che cosa consiste secondo la visione cattolica il suo ministero quale «vescovo di Roma». Eppure, mai prima un papa ha avuto tali parole di riconoscimento per Lutero e la Riforma come Giovanni Paolo II.
    Nelle deludenti prese di posizione nel corso del 1983, anno dedicato a Lutero, è apparso evidente che le formulazioni senz'altro più aperte espresse in occasione del giubileo della Confessione augustana e della prima visita del papa in Germania non derivavano da una conoscenza personale delle fonti da parte del papa. In simili circostanze dipendeva e dipende sempre da chi prepara lo schema del discorso. Eppure lui, il papa, ha pronunciato queste parole - e in parte le ha ripetute in seguito -. Nessuno può dunque tornare indietro rispetto a esse e bisognerà ricordarlo a tutti coloro che da esse sono interessati. Per la prima volta nella storia ci si può riferire a parole del papa, se non s'intende abbandonare tutto nel campo delle questioni del dialogo ecumenico. Sotto la protezione di simili affermazioni papali, oggi l'ecumenismo può far ricorso a tutte quelle cose ormai ovvie, che infondono coraggio nel futuro dell'ecumenismo.
    Al momento in cui viene scritto questo capitolo, la questione più acuta è quella di come reagirà la Chiesa al documento Lehrverurteilungen - kirchentrennend? (processo di confronto ecumenico conclusosi nel 1998 con la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione; ndr), che è stato indirettamente provocato dal papa. Nel 1980 egli aveva stimolato i membri della Commissione ecumenica mista composta da rappresentanti delle Chiese evangeliche di Germania e della Conferenza episcopale tedesca, che avevano incaricato il comitato ecumenico dei teologi evangelici e cattolici di elaborare questa valutazione sul permanere o meno della validità di tali «condanne» reciproche che erano state comminate nel XVI secolo. Diversi portavoce ufficiali delle Chiese evangeliche si sono nel frattempo espressi, in maniera differenziata, ma comunque positiva. Dalla modalità in cui la Chiesa (le Chiese) recepiscono tale documento e lo traducono in scelte ecclesiali, oppure rifiutano tale ricezione, si riconoscerà se ha ragione d'essere il vecchio sospetto che solo interessi di potere e incapacità di muoversi avrebbero impedito alle Chiese di fare dei passi significativi le une verso le altre. Eppure, anche nel caso che tali sforzi fallissero, il documento registrerà agli atti quale idea di unità delle Chiese realmente possibile avessero alla fine del XX secolo dei teologi ragionevoli e competenti, scevri da ogni sospetto di slealtà nei confronti delle rispettive Chiese.

    e) In un punto la Chiesa del postconcilio ha effettivamente proseguito e rafforzato quelle che erano le intuizioni del Concilio: nel complesso di questioni relative alla giustizia sociale e alla pace. Come si ricorderà, è proprio in merito a questo punto che sono state espresse le (quasi) uniche condanne da parte del Concilio, ovvero nei confronti della violazione della dignità umana da parte di strutture inique di ordine politico o economico, riguardo all'aborto e riguardo alla corsa agli armamenti con «armi scientifiche» e della guerra totale che con queste viene condotta. La disputa non ancora conclusa intorno alla teologia della liberazione e al suo influsso nella Chiesa in America Latina non deve ingannarci sul fatto che lì è in gioco solo la via verso la giustizia e la pace e le sue possibili premesse ecclesiologiche - cioè le «comunità di base» di fronte alla «struttura gerarchica della Chiesa». Non può però sussistere più alcun dubbio sul fatto che la Chiesa nel suo insieme si è posta al fianco dei poveri e diseredati. Non deve ingannarci lo sguardo che possiamo rivolgere alla Chiesa nella Repubblica federale (vecchia o nuova) di Germania: se è vero - ed è questione di valutazione politica - che la Chiesa da noi sta ancora dalla parte dei potenti, ciò manifesta solo che nel frattempo, all'interno del convoglio della Chiesa universale, rappresenta uno dei battelli più lenti.

    COMPITI CHE PERMANGONO A PARTIRE DAGLI IMPULSI DEL CONCILIO

    In uno dei suoi ultimi articoli Karl Rahner ha sollevato la domanda circa «gli stimoli dimenticati del concilio Vaticano II». Il Concilio si rivela dunque già una miniera che permette di fare delle nuove scoperte! Dopo la rapida esposizione che abbiamo cercato di fornire sull'epoca postconciliare, la cosa non ci sorprende affatto. Rahner pensa al riguardo sia a compiti che la teologia non ha ancora assolutamente affrontato, sia anche a riforme non ancora attuate. Rahner stesso afferma di voler citare solo alcuni di tali compiti. Essi risultano tuttavia esemplari e pertanto li voglio citare anch'io, lasciando ulteriori dettagli alla lettura del breve contributo di Rahner.

    La risposta all'ateismo

    Una risposta teologica alla rilevanza dell'ateismo ancora manca. Il Concilio ha infatti condannato l'ateismo in quanto dottrina e in una forma alquanto brusca («...contraddice alla ragione e alla dignità umana» ), lasciando però anche chiaramente intendere che nemmeno un ateismo consapevole dal punto di vista teorico esclude necessariamente dalla grazia di Dio, se tali persone rispondono alla propria coscienza. Cinquant'anni or sono era una tesi diffusa e indiscussa della teologia cattolica - un'eredità del concilio Vaticano I - che un ateo può rimanere tale senza colpa in forma provvisoria, ma non a lungo andare. Siamo allora - si chiede Rahner - a questo punto circondati da una schiera di persone malvagie? Chi risponde negativamente a tale domanda deve comunque considerare come risolvere il fatto che un ateo viva nella grazia di Dio, senza la quale non è possibile conseguire la salvezza. Con la sua formulazione sulle «vie che sono note a Dio solo» il Concilio non offre a questo riguardo una risposta, ma solo uno stimolo alla riflessione.
    Dietro a ciò si staglia inoltre il problema che Karl Rahner ha portato avanti per decenni: il rapporto tra una storia mondana in apparenza lontana da Dio e la storia della salvezza speciale di Israele e della Chiesa. Se il risultato della storia del mondo non dev'essere l'inferno, secondo una buona (o cattiva) lettura agostiniana, tranne il caso di pochi redenti, allora la teologia deve rendersi ragione di come la Chiesa possa essere «segno e sacramento» della salvezza per un 'umanità che nella sua schiacciante maggioranza non riesce a leggere tale segno o forse addirittura non vuole leggerlo.

    L'inculturazione della liturgia

    Per la «Chiesa universale» non può bastare una semplice traduzione della liturgia, rimanendo per il resto alla liturgia latina, ovvero alla liturgia della Chiesa occidentale e anzi, come abbiamo già accennato, a una forma di celebrazione orientata per lo più alla liturgia della Chiesa antica. Se si restasse a tale livello, non sarebbe facile controbattere in maniera credibile al sospetto di fondo secondo cui il cristianesimo non sarebbe altro che un prodotto d'importazione occidentale. Chi ha però avuto fin qui delle idee al riguardo o le ha richieste?

    La collegialità dei vescovi

    La collegialità dei vescovi con il papa non funziona, come abbiamo mostrato, e non solo dal punto di vista pratico. Non ci si è ancora accinti a chiarire, al livello della teoria teologica (ma forse nemmeno lo si desidera), come possano sussistere l'uno a fianco dell'altro due soggetti di suprema potestà nella Chiesa, senza che si frantumi l'unità della Chiesa. In merito a tale questione non ha alcuna importanza se accanto al papa si consideri il concilio oppure, per operarne un sottile indebolimento, il collegio episcopale come secondo soggetto. Dal punto di vista teorico una simile doppia responsabilità riguardo alla suprema potestà nella Chiesa non è di per sé inconcepibile. In proposito andrebbe però chiarito come possa accadere - in maniera evidente e senza che sia necessario compiere complicate distinzioni che anche quando agisce da solo, nel nome della Chiesa intera, il papa opera quale capo del collegio episcopale. Solo a quel punto perderebbe il suo carattere restrittivo l'asserzione secondo cui i vescovi non possono mai agire senza il loro capo, né al concilio né in altra forma. In che modo si può però verificare dal punto di vista giuridico, e ancor più normativo e morale, che il papa agisca in quanto capo del collegio episcopale e non contro di esso?

    Un parlare rivedibile

    Non si è ancora riflettuto a sufficienza sulle forme e condizioni secondo cui la Chiesa, anche in futuro, potrà attuare quanto con tanto coraggio per la prima volta ha fatto nel corso del Concilio, ovvero il fatto di parlare in forma provvisoria, rivedibile, ammettendolo e volendolo. Nella prassi magari tale problema non risulta poi così arduo. Quanti rivestono il magistero ecclesiale dispongono di un' ampia gamma di modi di esprimersi, anche di tenore giuridico, di differente peso. Se ne devono però poi anche trarre le conseguenze. Una forma di insegnamenti ecclesiali e di prese di posizione in linea di principio rivedibili in merito ai problemi attuali viene ad avere delle conseguenze per la forma di lealtà di cui i cristiani cattolici sarebbero debitori nei confronti di tali manifestazioni del magistero.
    Se ci si fermasse a riflettere su tale tema, si metterebbe in gioco tutto il rapporto tra il popolo di Dio (i laici) e la gerarchia e il concetto di popolo di Dio si farebbe concreto in un punto centrale e assai sensibile. Queste conseguenze non sono ancora prevedibili. Il Concilio, però, ci affida tale compito, anche se nel frattempo è stato quasi dimenticato! Per essere sinceri: le più recenti asserzioni magisteriali in merito (istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, giuramento di fedeltà, ricorrente sottolineatura della Humanae vitae) con la loro richiesta di obbedienza esterna e interna di fronte anche alle prese di posizione non definitive del magistero, fanno il possibile per non far emergere il pensiero di una simile lealtà differenziata.
    Per dirla in breve: il compito permanente, in base agli impulsi del concilio Vaticano II, consiste nel considerare preminente la domanda su come la Chiesa possa farsi concreta come Chiesa universale, quale si è mostrata pubblicamente al Concilio. Ciò va riflettuto dal punto di vista teologico e pratico. E così arriviamo a una considerazione conclusiva.

    UN TERZO CONCILIO VATICANO?

    Di quando in quando si è fatto sentire l'appello per un prossimo concilio Vaticano III. Un giornale italiano aveva posto la domanda anche al card. Ratzinger, che rispose negativamente. Anch'io penso che non ci sarà così rapidamente un terzo concilio Vaticano. Non per il motivo addotto dal card. Ratzinger nel corso della citata intervista. Egli teme, infatti, che in tal modo una potente maggioranza conciliare conservatrice potrebbe tentare d'imporre che vengano annullati i risultati del Vaticano II. Nel caso questo non fosse un argomento dissuasivo oltremodo sottile - che consiste nel mostrare premurosamente ai sostenitori di un nuovo concilio gli «strumenti di tortura» -, non condivido questa motivazione per una messa in guardia di fronte a un nuovo concilio. Di sicuro succederebbe invece proprio quanto si è verificato al Vaticano II: nel corso della preparazione degli schemi e dei contributi per i dibattiti i padri conciliari conservatori cercherebbero, se necessario anche di nuovo con intrighi, d'imporre il loro punto di vista e la maggioranza schiacciante dell'episcopato mondiale non lo accetterebbe e probabilmente, in virtù delle esperienze fatte tra il 1962 e il 1965, non si lascerebbe più manipolare di nuovo come allora.
    Io vedo piuttosto un motivo molto più banale, ma del tutto realistico, che parla contro la speranza di un nuovo concilio: fino a quando vi saranno ancora dei sopravvissuti del Vaticano II, che possono cioè tener vivo il ricordo del lavoro massacrante svolto in quegli anni - e non intendo solo i padri conciliari, ma anche i contemporanei che vi sono stati coinvolti in maniera diretta o indiretta - si avvertirà un senso di impotenza di fronte a un'iniziativa così grandiosa. Nella misura in cui l'invocazione di un terzo concilio Vaticano si collega con l'utopia di fame un concilio dell'intera cristianità, le difficoltà si amplificano a dismisura.
    Tanto più sorprendente risultò così l'annuncio di un Sinodo straordinario dei vescovi per l'anno 1985, nel quale si doveva fare il punto, dopo 20 anni, dello sviluppo postconciliare in un mondo mutato. Secondo le informazioni a mia disposizione, si è trattato di un'idea spontanea del papa, venutagli due giorni, prima della partenza per un viaggio in America Latina. E stato allora quasi come con Giovanni XXIII per quanto riguarda il Concilio.
    L'idea di operare un bilancio senza convocare la struttura mastodontica di un concilio è stata senz'altro ragionevole. Se con ciò era collegata, o poteva essere collegata, l'intenzione - che allora ricorse in alcune prese di posizione - di mettere a fuoco soprattutto le conseguenze negative del Concilio e di fargli fare perciò in qualche modo marcia indietro, ciò non poté riuscire, come d'altronde nemmeno la manipolazione del Concilio stesso. I rappresentanti della Chiesa universale a Roma dovettero di nuovo sentire ciò che la Chiesa universale davvero pensa e che essi - come sempre - non volevano udire. Il risultato ha anche messo a tacere ogni critica previamente espressa. Il testo conclusivo del Sinodo - redatto da Walter Kasper, ora responsabile del dialogo ecumenico - elimina tutti i timori che il ministero ecclesiale volesse tornare indietro rispetto al Concilio. Il Sinodo straordinario ha mostrato infatti che il Concilio ha creato una consapevolezza che in quanto tale è duratura. Il popolo di Dio, divenuto maggiorenne, non può più venir reso minorenne, se non a prezzo di una totale perdita di fiducia nei confronti dell'autorità ecclesiastica.
    Il nostro sguardo ai risvolti negativi dell'epoca postconciliare non ci permette certo di darci a un euforico ottimismo. Così come stanno oggi le cose, può accadere che quella che inizierà il suo terzo millennio sarà una Chiesa polarizzata e carica di rinnovate tensioni conservatrici e ultraconservatrici. Anche tale situazione non farebbe però altro che riproporre, come in uno specchio deformante, il significato non più ritrattabile del concilio Vaticano II. In tempi passati i dissidenti sarebbero usciti dalla Chiesa o sarebbero stati allontanati dalla stessa. All'apparenza una Chiesa monolitica avrebbe continuato a seguire il suo papa e i suoi rappresentanti. Oggi gli amici del rinnovamento conciliare conducono la loro buona battaglia nella Chiesa e sperano nello Spirito Santo, che piega ciò che è rigido e bagna ciò che è arido. Si può di nuovo rimanere con coraggio nella Chiesa, anche se essa ci dà soltanto delusioni. Addirittura nella Chiesa si può sognare un'altra Chiesa.

    UN SOGNO DELLA CHIESA

    Negli ultimi anni una serie di illustri contemporanei, teologi e non, hanno espresso pubblicamente il loro «sogno della Chiesa». lo non sono illustre, ma ho anch'io i miei sogni sulla Chiesa e una volta un simile sogno l'ho anche pubblicato. Dato che quella pubblicazione è nel frattempo esaurita, mi permetto di sognare ancora una volta questo sogno al termine del nostro racconto del Concilio.
    Sogno una Chiesa che dica in maniera chiara e aperta di esistere per il Vangelo e per la fede degli uomini.
    Sogno una Chiesa che né nella teoria né nella prassi ritenga di dover aiutare la potenza del Vangelo sui cuori con dei «provvedimenti».
    Sogno una Chiesa che nella sua propria autoconsapevolezza e nella sua immagine tenga insieme, in una feconda tensione, gli elementi migliori della concezione di Chiesa cattolica, luterana, riformata e ortodossa.
    Sogno una Chiesa che reagisce alla burocratizzazione nella misura in cui le circostanze oggettive lo consentono, e che si rapporta con le persone in maniera diversa da come suole fare l'amministrazione statale.
    Sogno una Chiesa in cui nessuno più debba aver «paura della soglia» quando entra in un ufficio parrocchiale.
    Sogno una Chiesa in cui non si può «diventare qualcuno» se non un testimone del Vangelo.
    Sogno una Chiesa che nella sua vita comunitaria riesce a proporre in maniera credibile alla società moderna, con le sue tensioni, l'immagine alternativa di un convivere affatto diverso.
    Sogno una Chiesa che è in grado anche di sostenere i conflitti e di risolverli in maniera diversa da come fa «il mondo» e nella quale nessuno sfrutti la questione della retta interpretazione del Vangelo per affermare la propria persona.
    Sogno una Chiesa nella quale nessuno abbia più timori per il Vangelo e la fede, se in tutto il mondo le cose non vanno esattamente come in un determinato luogo.
    Sogno una Chiesa che intenda la propria «sacramentalità», la vittoriosa presenza in essa della grazia divina, come la libertà liberante di poter pregare ogni giorno con fiducia, con riguardo a persone e a strutture: «Rimetti a noi i nostri debiti!».
    Sogno una Chiesa cosciente del proprio reale ruolo vicario, ovvero che nella dottrina e nella vita chiarisca che essa stessa non è la Gerusalemme celeste, bensì è destinata a scomparire quando verrà il regno di Dio, ovvero quando rimarrà solo ciò per cui la Chiesa terrena sta preparando la strada e a cui deve rimandare, ovvero la comunione con Dio e tra gli uomini.
    Risvegliarsi dopo un simile sogno è sempre duro, anche a una certa distanza temporale dal Concilio. Senza sogni non vi sono però visioni guida. E senza visioni guida non c'è alcuna via che conduca nella terza epoca della storia della Chiesa.

    (Il regno-attualità 20/2005 705-713)


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