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    La peggiore risposta

    è la rassegnazione

    Wolfgang Seibel

    Questioni aperte

    (...) Il Vaticano II non ha trovato una risposta per tutte le questioni che si pongono alla Chiesa nel nostro tempo. Per far ciò non sarebbero certo bastate le quattro sessioni conciliari. I problemi essenziali che il post-concilio ha lasciato in eredità si possono dividere in quattro gruppi:
    1. Questioni affrontate durante il Vaticano II ma che non hanno potuto essere ulteriormente sviluppate perché Paolo VI le ha sottratte al Concilio e le ha riservate alla propria decisione. Si tratta del celibato dei preti nella Chiesa occidentale e - soprattutto - dei metodi di contraccezione. Il Concilio aveva spiegato chiaramente - a differenza di quanto veniva detto in precedenza – che la decisione sul numero dei figli spettava unicamente ai genitori. Paolo VI ha voluto risolvere la questione dei contraccettivi nell’enciclica Humanae Vitae del 1968. L’enciclica, che condannava per principio tutti i metodi di contraccezione cosiddetti “artificiali” e li dichiarava immorali, non è stata però recepita nella pratica dei cattolici; segno, questo, che il magistero della Chiesa può pure continuare ad assumere decisioni su questioni di fede e morale, ma non è più nelle condizioni di far valere tali decisioni. La questione del celibato è tuttora in discussione.
    2. Questioni che al Concilio sono state toccate in linea generale o anche affrontate nei dettagli, ma che nel frattempo hanno assunto una dimensione del tutto nuova: per esempio, il rapporto della Chiesa con le religioni non cristiane. Il Concilio ha offerto in generale una valutazione positiva delle religioni, sottolineando come in ognuna vi sia del bene e del vero. Ora però si pone ancora più acutamente la questione di come la molteplicità delle religioni si rapporti all’assolutezza del cristianesimo e se anche le altre religioni possano essere considerate come cammini di salvezza validi in sé. Su questo punto la discussione è in pieno corso, senza che appaiano all’orizzonte soluzioni convincenti.
    3. Problemi che al tempo del Concilio non erano acuti come oggi e la cui importanza, perciò, non è stata colta: si può citare, per esempio, la questione del ruolo della donna nella Chiesa. È vero che il Concilio ha condannato con forza, nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes), qualsiasi forma di discriminazione nei confronti delle donne nella società. Ma il fatto che anche nella Chiesa esistano a questo riguardo problemi gravi non è mai arrivato sotto gli occhi dei partecipanti al Concilio. Ed anche qui la discussione è in pieno corso, senza che si sia giunti ancora ad una soluzione convincente. Non era all’ordine del giorno nemmeno la questione dei divorziati risposati, per citare solo un altro esempio.
    4. La questione della nomina dei vescovi è stata affrontata, stranamente, solo da un relatore, senza alcuna risonanza. Eppure si trattava di un problema centrale della Chiesa. E se i vescovi avessero voluto abolire il centralismo, com’era loro intenzione, avrebbero dovuto interessarsi incondizionatamente alla questione della nomina dei vescovi. Ciò, tuttavia, non è accaduto, ed è rimasto un problema irrisolto. Il Concilio però ha compiuto un lavoro significativo riguardo a questi temi: ha, cioè, indicato la strada per la ricerca di soluzioni in relazione a questo e ad altri punti, vale a dire il dialogo, la ricerca del consenso nel quadro di un confronto aperto. Ciò costituisce qualcosa di totalmente nuovo rispetto all’unico modo di risolvere i problemi considerato valido e praticato prima del Concilio, cioè con direttive e decreti dall’alto. In questo campo ci troviamo ancora in alto mare, e il Concilio non è del tutto incolpevole per questa situazione.

    I limiti

    Per sincerità, non bisogna tacere i limiti del Concilio. Ne indico solo quattro.
    1. Il papa viene visto ancora come un monarca assoluto. I limiti del Vaticano I restano quasi inalterati. I vescovi sono, come prima, funzionari del papa sottoposti alle sue direttive. In compenso hanno ricevuto un maggiore potere nelle loro diocesi, dove sono diventati, in qualche modo, dei piccoli papi.
    2. Gran parte delle conclusioni del Concilio è rimasta ancora ferma al pensiero patriarcale. I laici sono ancora subordinati, oggetti passivi delle concessioni e delle comunicazioni degli ecclesiastici.
    3. Riguardo al rapporto del papa con i vescovi e dei vescovi con i preti e con il popolo della propria diocesi, il Concilio non ha dato norme giuridiche ed istituzionali. Solo i subordinati di turno hanno obblighi, soprattutto di obbedienza. Per i livelli più elevati esistono solo raccomandazioni e appelli. Quindi bisogna che i vescovi si avvalgano “volentieri” del Consiglio dei laici. Essi devono “considerare attentamente in Cristo” ciò che i laici presentano loro (LG 37). Se il Concilio sperava che fossero sufficienti tali raccomandazioni e quest’immagine ideale di una relazione familiare tra “pastori” e “gregge”, il suo non sarebbe altro che “un romanticismo lontano dal mondo reale” (Peter Hünermann). Finché non viene stabilito in modo vincolante quando e in che modo i vescovi devono accettare di essere interpellati o di dare spiegazioni sulle proprie decisioni, finché tutto dipende solo dalla loro personalità, se cioè intendono il loro compito in modo collegiale-dialogico o si comportano da despoti, non è possibile che cambi nulla. La ragione di questo limite del Vaticano II sta nella fiducia ingenua dei membri del Concilio che la Curia avrebbe permesso delle regolamentazioni in senso conciliare, e poi, soprattutto, nel fatto deplorevole e disastroso che a molti vescovi manca visibilmente il senso della necessità imperativa di norme giuridiche.
    4. Nei testi del Concilio si incontrano spesso espressioni contraddittorie non legate tra loro. Il motivo è nel fatto che le nuove formulazioni dovevano affermarsi contro le proposte precedenti e contro la resistenza di una minoranza influente. Ciò al prezzo di una discrepanza tra i testi. La maggioranza era pronta a fare concessioni, perché voleva raggiungere - come lo voleva anche Paolo VI – il consenso più ampio possibile. Accanto alle novità, che erano volute dalla maggioranza e si riflettevano nelle decisioni fondamentali, restarono così in piedi espressioni isolate che erano state accettate per andare incontro alla minoranza e che ancora riflettevano la teologia preconciliare.
    Per dirla alla maniera drastica di Otto Hermann Pesch: “È avvenuto raramente nella storia della Chiesa che una minoranza nemmeno qualificata... fosse trattata in un concilio in modo così attento, con tanta sensibile, accettando contraddizioni e ambiguità nelle formulazioni dei testi conciliari da questa imposte. E altrettanto raramente questa minoranza, diventata disinvolta - per non dire impertinente e sfrontata - ha approfittato dell’ambiguità dei testi conciliari per imporsi sulla chiara volontà della maggior parte dei rappresentanti della Chiesa mondiale attraverso l’uso dei binari tradizionali”. Quindi, in queste ambiguità legate a un’immagine di Chiesa preconciliare, gli avversari del rinnovamento conciliare trovavano - e trovano - un pretesto per far passare la loro interpretazione del Concilio, e questa è una radice fondamentale dei problemi di oggi. Ecco qui alcuni esempi che fanno capire quali siano i vari campi di battaglia nella situazione attuale:
    1. Chiesa come comunione / Chiesa come istituzione gerarchica.
    2. Collegialità / sottolineatura del primato, più ancora che nel Vaticano I.
    3. Sacerdozio comune / sacerdozio ministeriale.
    4. Sensus fidei del popolo di Dio / competenza unica del magistero gerarchico.
    5. Autorità unica dei vescovi / competenza assoluta del papa.

    La situazione oggi

    Mi limito all’atteggiamento e alla politica dei vertici della Chiesa, del papa e della Curia romana. Nelle singole regioni e soprattutto a livello di base è tutto molto diverso. Già dai primi anni del post-concilio, Roma ha continuato fondamentalmente ad agire come prima, e questo è un motivo essenziale del disagio che molti provano nella Chiesa di oggi. A parole viene sempre sottolineata la fedeltà al Concilio. In pratica, però, quasi tutti i documenti e le decisioni conciliari – ad eccezione di quello sulla libertà di religione – sono stati “bloccati” (Wolfgang Beinert) dalla Curia romana, e spesso semplicemente sostituiti da disposizioni contrarie. Alla chiusura del Vaticano II, Paolo VI aveva costituito delle commissioni per la messa in pratica delle decisioni del Concilio, scegliendone i membri tra i vescovi e i teologi conciliari, incaricati di elaborare le disposizioni applicative di quelle decisioni indipendentemente dalla curia romana. Ciò riuscì, però, soltanto per la riforma liturgica, e solo per alcuni anni. Tutte le altre commissioni vennero fin dall’inizio assorbite dalla Curia cosicché la maggior parte di esse non si riunì nemmeno una volta. Cosa ne è stato? In generale si può dire che ai vertici della Chiesa hanno preso il sopravvento le forze - le uniche che trovano ascolto - convinte che l’approccio del Concilio alla nuova immagine di una Chiesa del dialogo e dell’aper-tura dovesse essere rifiutato a favore della restaurazione di un’antica concezione di Chiesa in cui i problemi vengono risolti non attraverso una discussione aperta, ma soltanto tramite indicazioni dall’alto. E così è stato.
    Potrei citare numerosi esempi che confermano questa analisi, come il rifiuto di ulteriori riforme nel nuovo Codice di diritto canonico; il giudizio ancora negativo sulla modernità; il peggioramento della situazione dell’ecumenismo; la persistente ostilità nei confronti degli ebrei espressa nella preghiera del giovedì santo della vecchia liturgia, da poco reintegrata; l’emarginazione dei laici e soprattutto il costante slittamento dal concetto dell’uguaglianza di tutti fondata sul battesimo a quello della subordinazione gerarchica propria della precedente società a due
    Vorrei ora affrontare più da vicino due temi sintomatici di quello che Roma ha fatto del Concilio: il centralismo con il conseguente declino delle Chiese locali e la riforma liturgica. Oggi si può parlare sempre meno di un’autonomia delle Chiese locali. I vescovi ricevono de facto semplicemente gli ordini del papa e della Curia. Le decisioni del Concilio, secondo cui i vescovi sono “vicari e legati di Cristo” e “non devono essere considerati vicari dei romani Pontefici” (LG 27), nel nuovo Codice di diritto canonico vengono semplicemente omesse. Oggi i vescovi sono impotenti come non lo sono mai stati, e quasi non esistono in quanto “partner in una discussione aperta sulle questioni controverse nella Chiesa. La pressione che ricevono ad agire secondo le disposizioni è talmente forte che essi sono costretti a difendere tutto ciò che Roma ordina” (Otto Hermann Pesch). Questo è anche il motivo per cui si sottomettono per lo più senza resistenze al centralismo romano, lasciandosi passare sopra quasi tutto con rassegnazione alla volontà di Dio. Spesso non osano nemmeno far uso del loro potere, preferendo chiedere a Roma. In questo modo, sono loro stessi ad attribuire alla Curia romana competenze che non le spetterebbero, cosicché non sono del tutto estranei al fatto che il centralismo romano non è mai stato tanto forte come oggi. È proprio nel suo tentativo di eliminare il centralismo che il Concilio ha vissuto il suo massimo fallimento. Quanto poco siano tenute in considerazione da Roma le Chiese locali lo dimostrano anche le nomine episcopali, sulle quali esse non hanno alcuna influenza. Bisogna però anche riflettere sul fatto che in tutti i sistemi centralisti - soprattutto rispetto alla posizione del papa, assolutistica, non sottoposta ad alcuna limitazione o controllo istituzionale – il flusso di informazione dal basso verso l’alto è fortemente disturbato. Capita sempre più raramente che i vertici siano informati dei problemi e dell’atmo-sfera che regna alla base. Ed ogni sistema centralista ed assolutista è un punto di ritrovo per delatori, intriganti e adulatori.
    Secondo la Costituzione conciliare sulla sacra liturgia (Sacrosanctum Concilium), le Conferenze episcopali sono responsabili della traduzione dei libri liturgici. Contrariamente, però, alle decisioni del Vaticano II, Roma, già poco dopo il Concilio, ha avocato a sé tutti i diritti di traduzione. L’autonomia delle Conferenze episcopali riguardo alle questioni liturgiche per Roma non esiste più. inoltre, essa insiste sull’uniformità del rito. L’applicazione degli articoli della Costituzione dal n. 37 al n. 40, che rendono possibile l’adattamento alle diverse culture, viene infatti impedita.
    L’offesa più grave alla riforma della liturgia è però la reintroduzione del rito antico nel 2007. Nel disporre una riforma liturgica, il Concilio aveva fornito delle linee guida. E la riforma era stata portata avanti secondo tali linee. Se ora il rito antico, non riformato, viene nuovamente permesso, siamo in presenza di una chiara sconfessione del Concilio. Il rito riformato riflette l’immagine di Chiesa come popolo di Dio propria del Concilio, mentre nel rito antico accade esattamente il contrario. L’autorizzazione del 2007 rappresenta pertanto anche una presa di distanza dalla Costituzione conciliare sulla Chiesa (Lumen gentium).
    Nel frattempo, occorre osservare come, rispetto alla comprensione della liturgia e della riforma liturgica, il clima sia cambiato non solo in alcuni ambienti molto conservatori, ma, con il nuovo pontificato, anche a Roma. Tutta una serie di elementi positivi della riforma liturgica – per esempio la posizione del prete verso il popolo, la liturgia in lingua vernacolare, la comunione in mano, la presenza delle chierichette e molto altro – viene considerata come un “indebolimento di ciò che è propriamente cattolico”, tanto che i difensori del rinnovamento religioso “finiscono sotto sospetto”. (Albert Gerhards). Colpisce soprattutto che il Vaticano, nel frattempo, vada talmente incontro al gruppo dei lefebvriani da rinunciare a chiedere loro il riconoscimento del Concilio Vaticano II. Tutto questo e molto altro sta ad indicare con chiarezza che il papa sembra pronto “a mettere a disposizione le acquisizioni del Concilio Vaticano II” (Klaus Nientiedt, HK 8/2008, 383).
    Se si riflette su tutto ciò, non si può più dubitare del fatto che il governo centrale della Chiesa ritenga necessario rifiutare le posizioni conciliari rispetto alla nuova immagine di una Chiesa del dialogo e dell’apertura, nella prospettiva di una restaurazione dello status quo precedente al Concilio, quello della vecchia idea di una Chiesa in cui i problemi non vanno risolti tramite il dialogo e la discussione aperta, ma esclusivamente con l’indicazione autoritaria dall’alto. Se ciò avrà successo, è naturalmente un’altra questione. Ma intanto questo atteggiamento spiega anche perché i problemi rimasti aperti al Concilio non siano stati finora chiariti.
    Su questo tema, vorrei riportare qui due citazioni. La prima è del filosofo della religione Eugen Biser, che il 26 giugno 2000 scriveva: “Viviamo... in un periodo che... devo indicare come una fase di abolizione delle conquiste del Concilio Vaticano II. Ciò che il Concilio ci ha donato viene distrutto e ritrattato pezzo per pezzo. Ed una Chiesa che fa questo, che compie questo atto di autodistruzione, non ha più bisogno di nemici, perché è una Chiesa che da sola si rovina e crea le ragioni della sua mancanza di credibilità”. La seconda citazione è dell’esperto di teologia fondamentale Hansjürgen Verweyen, che nel 2007 ha affermato: si può parlare “di un ‘momento fatale dell’umanità’ (Stefan Zweig) prima del quale i discepoli di Gesù erano ancora addormentati (cfr. Mt 26,40)”.
    Si tratta di un’immagine relativamente cupa della situazione attuale della Chiesa. Ma bisogna guardare in faccia la realtà, perché non ha alcun senso farsi illusioni. Questa analisi, tuttavia, non può costituire l’ultima parola. La Chiesa non è composta solo dal papa, dalla Curia romana e dai vescovi. Nulla impedisce, laddove la Chiesa sia veramente vitale, cioè alla base, nelle comunità, di richiamarsi alle direttive del Vaticano II e di conformare la vita secondo le spinte al futuro da esso fornite. Nessuno è obbligato a considerare giuste o definitive le decisioni dei vertici della Chiesa contro le proprie convinzioni. E a nessuno può essere disconosciuto il diritto di fare di tutto, nell’ambito delle proprie possibilità, affinché tali decisioni siano corrette. Per il resto, nel corso di tutta la storia della Chiesa, le idee nuove, le iniziative utili per il futuro, le richieste di riforma sono sempre venute dal basso, mentre la Chiesa ufficiale era occupata a frenare e a controllare per quanto era possibile. La convocazione del Concilio Vaticano II è stato il primo caso nella storia della Chiesa in cui l’iniziativa, in termini di novità, è venuta dall’alto, dal papa stesso. Ma l’iniziativa del papa è consistita nel solo ed unico fatto di convocare il Concilio e di difendere tale decisione contro ogni resistenza della Curia romana. Ma se il Concilio ha potuto avere successo in quella misura è soltanto perché tutte le strade erano state spianate dalla base. Mi limito a citare soltanto i progressi teologici della prima metà del XX secolo, i tentativi di rinnovamento della liturgia, il movimento biblico, il movimento ecumenico, quello dei giovani e molto altro. Questi sviluppi hanno avuto luogo soprattutto in Francia, in Belgio, in Olanda e nel mondo germanofono. Qui esisteva, per così dire, un campo di sperimentazione in cui veniva concepito e studiato il nuovo, e ciò non con il sostegno ma anzi con la resistenza delle autorità romane. Il grande servizio del Concilio è stato quello di aver raccolto tutto ciò che era stato elaborato in questo ampio processo e di aver dato ad esso il sigillo della massima autorità ecclesiale. A chi conosceva già questi sviluppi, il Concilio non portò nulla di essenzialmente nuovo. La vera novità consisteva nel fatto che ora tutto diventava magistero ufficiale e prassi della Chiesa, e che si apriva la strada nel vasto corpo della Chiesa a ciò che era già vitale e che si era già affermato.
    La peggiore risposta all’attuale corso degli eventi ai vertici della Chiesa sarebbe quella della rassegnazione. Vorrebbe dire semplicemente fare il gioco degli avversari del rinnovamento conciliare. Bisogna, piuttosto, sperare ed agire. Non restare a braccia conserte, non limitarsi a piangere e a lamentarsi, per quanto ve ne sia motivo. È molto più importante fare tutto il possibile perché le iniziative del Concilio non vengano insabbiate, ma diventino parte integrante della vita nella Chiesa.
    Per riassumere tutto nella formula contenuta nel titolo della mia relazione: a Roma c’è “la fine della nuova canzone”. Ma alla base si può sempre ricominciare. Qui le strade verso un nuovo sviluppo ed un rinnovamento della Chiesa nel senso del Concilio Vaticano II sono aperte, se solo si ha il coraggio di agire in modo deciso. È qui che la Chiesa vive ed è qui che il futuro viene plasmato.


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