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    La giornata

    dell'ebraismo

    Carmine Di Sante

     

    Per la giornata dell'ebraismo 1995 - che si celebra ogni 17 gennaio - la chiesa italiana ha scelto, come oggetto di riflessione, il tema dell'elezione d'Israele. È questa un'occasione privilegiata per interrogarsi non solo sul senso teologico di questa categoria biblica così importante, ma anche su come sia stato possibile, per la tradizione cristiana, utilizzarla contro Israele, negandolo e sostituendosi ad esso, anziché esprimendogli gratitudine e riconoscenza.

    Alcuni testi

    Nel primo dei suoi discorsi rivolto al suo popolo prima di entrare nella terra promessa Mosè così lo ammonisce: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti i popoli, -; ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, - il Signore vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del Faraone, re di Egitto» (Dt 7,7-8).
    Il testo deuteronomico afferma che il legame unico e peculiare che esiste tra Dio e Israele — un legame «unico» e «peculiare» perché irriducibile al legame che gli altri popoli pensavano esistesse tra loro e i loro dèi — non dipende dal valore di Israele (di cui la pagina biblica si compiace sottolineare l'insignificanza numerica e la relativa inconsistenza: «non perché siete i più numerosi di tutti gli altri popoli», anzi: «siete il più piccolo di tutti i popoli ») ma dalla decisione sovrana e autonoma di Dio che, nel suo agire nei confronti di Israele, è motivato solamente da questa sua decisione, indipendentemente dall'essere, e dal pensare e dall'agire di Israele stesso. Si tratta pertanto di un legame che, voluto esclusivamente da Dio, colloca Israele in una paradossale condizione oggettiva indipendente dalla sua volontà che il versetto esodico scelto per la giornata dell'ebraismo esprime così lapidariamente: «Voi sarete per me proprietà (segullah) fra tutti i popoli» (Es 19,5). La peculiarità e la unicità di questo legame consiste nel fatto che Israele è «proprietà» di Dio, sua appartenenza o segullah, non per sua scelta ma per essere stato scelto.
    La coscienza dell'elezione è, originariamente, coscienza di questa scelta passiva di cui Israele è oggetto da parte di Dio e che si traduce, di fatto,in una prossimità di Dio e con Dio che nessuno e nessuna situazione storica può incrinare. Si tratta di una prossimità di Dio e con Dio che è irreversibile, appunto perché istituita dalla sua volontà; cioè di una comunione di Dio e con Dio eterna (cf. La Stella della redenzione di Rosenzweig) che non può essere messa in discussione dalla storia fattuale di Israele. Con l'elezione Dio dice a Israele: «Io ti sono sempre vicino, in ogni tuo presente, come ti sono sempre stato vicino, nel tuo passato e come ti sarò sempre vicino anche nel tuo futuro».
    Con l'elezione Dio dice a Israele e gli si rivela come Compagnia che mai abbandona anche quando è abbandonata, come Vicinanza che mai si nega anche quando è rifiutata e come Presenza che mai si allontana anche quando è tradita; egli si rivela come il Dio del «tetragramma» (Es 3,14 ss), il nome che non è né vuole una sua definizione metafisica, ma semplicemente l'affermazione della sua costante prossimità a Israele sempre e ovunque, in ogni momento della sua storia, dagli inizi a oggi.
    Questa coscienza di elezione si esprime anche in altri testi biblici, quali ad es. Dt 10,14-15, Is 46,4, Mal 3,17, Sal 135,4 ecc. e ad essa farà riferimento anche il Nuovo Testamento. Ma più che in alcuni testi —che è compito del lavoro esegetico ricostruire — la coscienza dell'elezione è l'anima stessa, a volte visibile altre volte più nascosta, di tutta la narrazione biblica e, cosa altrettanto importante, della stessa Torah orale del popolo ebraico, codificatasi nella Mishnah, nei due Talmud, nella raccolta dei Midrashim e in tutta la grande letteratura ebraica prodotta dall'epoca del Nuovo Testamento a oggi.
    Ma la cosa più importante da sottolineare è che questa coscienza di elezione non si traduce, per Israele, in coscienza passiva di autocontemplazione (la coscienza riflessiva che si guarda allo specchio e dice: «Che bello il fatto che Dio mi ha scelto e mi resta sempre accanto») ma incoscienza attiva di responsabilità radicale: la coscienza che si guarda allo specchio e dice: «Come Dio mi si è fatto prossimo per sua libera elezione, indipendentemente dal mio essere e dal mio agire, così anch'io devo farmi prossimo all'altro, per mia libera elezione, indipendentemente dal suo essere e dal suo agire».
    È proprio qui, in questa coscienza abitata dall'imperativo etico a farsi prossimità al lontano e all'estraneo (in termini concreti e antropologici: allo «schiavo», al «povero», all'«orfano» e alla «vedova»), che va individuata la sostanza dell'elezione biblica e l'orizzonte esigente della «giustizia» che essa instaura. Questa, in cui si racchiude l'intero messaggio biblico ed ebraico, non si oppone all'amore, come vuole uno stereotipo duro a morire, ma è l'instaurazione di un nuovo amore: non naturale, donato a chi è già prossimo per nascita, simpatia, cultura o religione, ma personale, non motivato dalla prossimità ma istitutrice essa stessa di prossimità: di una prossimità radicale che nessuna estraneità e nessuna inimicizia può annullare, essendo fondata sulla propria volontà di bene e non su quella dell'altro.

    Tentativo ermeneutico

    Parlando della propria esperienza religiosa come «elezione», Israele oggettiva e tramanda nei suoi testi l'esperienza di un Dio altro dagli altri dèi, ad essi irriducibile. Questa irriducibile differenza tra il Dio di
    cui Israele fa esperienza e gli altri dèi va individuata in questo: nel fatto che mentre il dio delle altre religioni è personificazione delle forze naturali e culturali, il Dio biblico è persona che le trascende, per instaurare un nuovo orizzonte che è quello della libertà come volontà di bene. Affermando che Dio lo «ha eletto», Israele afferma che tra sé e Dio esiste un'irriducibile differenza o alterità; ma questa irriducibile alterità o differenza viene colmata per una sua libera iniziativa che è puro amore e pura grazia. La categoria dell'elezione, contestando il divino come principio e come totalità, lo instaura come alterità e come bontà che si china sull'uomo e lo ama gratuitamente, per pura grazia.
    Per capire la dimensione sconvolgente di questa nuova idea del divino nella storia umana, basti solo riflettere sul fatto che, nelle religioni naturalistiche e nella grecità, Dio, per es., può essere amato ma non può amare. La categoria dell'elezione, correttamente interpretata, è l'introduzione, nella storia delle idee umane, di un nuovo orizzonte, oltre la necessità e oltre la causalità: la gratuità. È questa — la gratuità — il grande tema rimosso dell'Occidente e della stessa riflessione teologica cristiana che ancora attende di essere pensato in tutta la sua provocante novità.
    Insieme a questa pista riflessiva, relativa a Dio soggetto dell'elezione, c'è da aggiungerne una seconda, relativa ad Israele, oggetto dell'elezione. L'affermazione di Israele come «popolo eletto» non va intesa in senso esclusivo («Dio elegge me al posto degli altri»), ma inclusiva («Dio elegge me nello stesso modo in cui elegge tutti gli altri»), superando così tutte quelle terribili ambiguità che intorno ad essa si sono costituite. Forse, la categoria migliore per ridire concettualmente il senso di Israele come «popolo eletto» è quello della « rappresentanza». Dio sceglie Israele come «rappresentante» dell'umanità; ciò che egli dice e fa a suo favore è quanto dice e fa per ogni popolo, ogni donna e uomo. La categoria del «popolo eletto» vuol dire, quindi, che ogni popolo è «eletto»: ogni popolo, allo stesso modo di Israele, è oggetto del suo amore incondizionato e della sua pros simità data gratuitamente e per sempre, ogni popolo, allo stesso modo di Israele, è abitato dalla grazia di Dio che ama incon dizionatamente e chiama a fare al trettanto.
    Se questa è l'accezione dell'elezione, se ne coglie subito la sua dimensione universale che, lungi dall'affermare la superiorità di un popolo su un altro (o, in chiave di individualizzazione, di un soggetto su un altro), istituisce la fondamentale uguaglianza di tutti i popoli di fronte a Dio: tutti ugualmente amati per grazia e tutti ugualmente chiamati con lo stesso movimento di grazia.
    L'elezione di Israele, così intesa, non cancella la sua singolarità: ma si tratta di una «singolarità» o di una «superiorità» paradossale, quella di chi, ad esempio, in una classe dove tutti si contendono il primato del più bravo, dicesse: «Bene, signori, vi dico che qui non c'è nessun primato perché siamo tutti uguali». Chi osasse un'affermazione simile, farebbe certamente un'affermazione unica rispetto a tutti gli altri, ma la singolarità e superiorità di questa affermazione risiedono proprio nella negazione di ogni singolarità e di ogni superiorità.
    Il dono di senso dell'ebraismo all'umanità è nell'instaurazione di un amore senza confini, neppure quello religioso, che è dato a tutti come gratuità.

    La «conversione» della Chiesa: dalla negazione alla riconoscenza

    Come Israele, anche la Chiesa ha una coscienza di «elezione» e vive e annuncia un amore che, rivelatosi definitivamente nell'evento della croce, è amore di gratuità e prossimità a tutti, soprattutto ai peccatori, ai lontani e ai nemici.
    Ma questa coscienza di elezione, invece di essere vissuta in comunione con l'elezione di Israele e in spirito di riconoscenza per questo dono impareggiabile, è stata vissuta contro l'elezione d'Israele, opponendosi a essa e cancellandola. Questo processo di opposizione - che è già rintracciabile nelle origini cristiane e che lentamente ha portato la coscienza cristiana a viversi come il nuovo e vero Israele che ha sostituito quello antico - ha prodotto, nella tradizione cristiana e nella cultura occidentale, una storia di antisemitismo violento sfociata, contro ogni-previsione, nell'indicibile orrore della shoah (olocausto). La Giornata per l'ebraismo, voluta dalla Chiesa italiana in sintonia con la svolta conciliare della Nostra Aetate, vuole e dev'essere, per le comunità cristiane, volontà di interruzione di questa storia di violenze: prendendo coscienza del proprio peccato e riscoprendo il proprio debito immenso nei confronti di Israele.
    Celebrare la giornata del giudaismo e interrogarsi, quest'anno, sul tema della elezione, deve significare la volontà di conoscenza di questo passato, non rimuovendolo ma assumendosene la responsabilità e interrogandosi su come esso è stato possibile, perché esso non si ripeta più per il futuro. La giornata dell'ebraismo non è giornata celebrativa ma penitenziale, in cui la coscienza cristiana è chiamata a prendere coscienza del suo peccato chiedendone perdono a Dio e ai fratelli ebrei.
    Oltre che dalla volontà di conversione, la giornata dell'ebraismo deve essere caratterizzata soprattutto dalla riconoscenza per il dono dell'elezione che Israele ha fatto e fa all'umanità e alla Chiesa. È da Israele che la Chiesa ha assunto e radicalizzato la sua coscienza di elezione ed è in comunione con Israele e con tutti i popoli della terra che essa è chiamata a viverla e a tramandarla: non in spirito di contrapposizione e di superiorità ma di riconoscenza e di dialogo.
    Paolo nella lettera ai Romani, a conclusione dei capitoli 9-11 consacrati al mistero d'Israele, afferma la permanenza di Israele, nonostante il fatto che la maggior parte degli ebrei non abbia conosciuto l'Evangelo: «Quanto al Vangelo, essi (gli ebrei) sono nemici, per vostro vantaggio: ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio, sono irrevocabili!» (Rm 11,28-30). Questa permanenza di Israele per Paolo è fondata sulla elezione e sulla chiamata di Dio che sono irrevocabili. Israele permane e sta per l'ama re di Dio che, gratuitamente, gli si fa, gli si è fatto e gli si farà prossimità incondizionata. È questo dono di prossimità o «elezione» la radice della «permanenza» di Israele, annuncio e segno della «permanenza» di ogni popolo della stessa Chiesa.
    «Ognuno di noi permane perché Dio ci ama, e non ci ama perché ci siamo» (Rossi de Gasperis). È questa la verità escatologica più creatrice e liberante sottesa alla categoria dell'elezione e che la Chiesa deve annunciare all'umanità in comunione con Israele e in spirito di conversione e di riconoscenza nei suoi confronti, essendo esso la «radice santa» sulla quale siamo innestati e dalla quale siamo portati (cf. Rm 11,16-18).

    (Rocca, 1 febbraio 1995, pp. 49-51)


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