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    La gioia di annunciare

    il Vangelo

    Giovanni Cucci

     

    L’Esortazione apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium [1] ritorna su un tema fondamentale della vita della Chiesa, un tema che costituisce di fatto la sua ragion d’essere e la sua missione nel mondo. Ciò che più colpisce nella lettura di questo testo è il suo «tono», espresso già dal titolo: esso vuole evidenziare soprattutto la caratteristica di gioia profonda e di novità di vita proprie della diffusione della Buona Notizia. Alla luce di tale gioia vengono lette anche le numerose e complesse problematiche legate a questo tema.
    Considerata l’ampiezza e la ricchezza del documento, in questo contributo desideriamo soffermarci soprattutto sulla parte relativa all’annuncio del Vangelo.

    La gioia del Vangelo come offerta di senso

    La gioia che nasce dal Vangelo rende la vita umana degna di essere vissuta. Molti dei mali che caratterizzano l’uomo contemporaneo - presentato come ormai adulto e «vaccinato» dal bisogno di Dio, ma di fatto solo e smarrito, senza un fondamento e una ragione di senso - sono soprattutto legati all’impossibilità di accedere a una ragione di vita che la sofferenza, la prova e la morte non possono smentire: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi, non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene» (Evangelii gaudium, n. 2). Da questo rischio, precisa il Papa, neppure i credenti sono immuni, quando la loro vita non è ispirata al Vangelo.
    L’Esortazione si apre rilevando questo triste vuoto di senso - l’incapacità di gustare la vita - sempre più presente e diffuso, che evidenzia una drammatica crisi spirituale e di significato del vivere, in un mondo che paradossalmente sembra offrire sicurezza e possibilità materiali del tutto inedite alle generazioni precedenti [2]. Dietro questa preoccupazione si nota una profonda continuità con il magistero dei Papi precedenti. Nell’Enciclica Spe salvi Benedetto XVI rilevava nella virtù della speranza, strettamente legata alla fede, il motore alla base di ogni agire umano, capace di conferire senso ai suoi progetti e soprattutto a ciò che sfugge alla presa delle sue possibilità (come attesta l’esperienza del male in tutte le sue forme): questa richiesta di senso rimane irrinunciabile per poter continuare a vivere [3].
    Giovanni Paolo II, nella sua prima Enciclica, aveva ricordato come l’anelito all’amore, una delle più alte esperienze di senso che l’uomo possa compiere, è per lui questione di vita o di morte [4]. Allo stesso modo, non si possono non ricordare le splendide Esortazioni apostoliche di Paolo VI sulla gioia cristiana e sulla continua necessità di annunciare il Vangelo [5].
    Lo stesso Papa Francesco aveva trattato più volte il tema della gioia in occasione di Esercizi spirituali, di meditazioni e contributi offerti al clero e al popolo di Dio [6]. In questi testi la gioia cristiana viene caratterizzata come «la condizione abituale dell’uomo o della donna di fede» [7], è la fonte della consolazione spirituale, ben diversa dall’euforia o dall’emozione del momento, perché legata alla voce dello Spirito, che parla dal profondo del cuore e muove all’azione.
    Essa può essere insidiata e minacciata da una forma di torpore e di stanchezza spirituale nota come accidia, che i padri del deserto avevano ulteriormente suddiviso, aggiungendovi la tristezza. Infatti riconoscono la complessità e l’insidia di questo vizio capitale per la salute fisica e spirituale dell’uomo, costituendo esso un grave ostacolo anche per affrontare la realtà della vita [8].
    La gioia del Vangelo si manifesta invece anzitutto come ritorno sulle strade della vita: la consapevolezza di aver bisogno della misericordia del Signore come dell’aria che si respira, mettendo in secondo piano la difficoltà di riconoscere di non essere stati all’altezza dei propri ideali. Il tratto del Signore che soprattutto emerge e che consente di rialzarsi di fronte alle cadute senza disperare è senza dubbio la sua misericordia senza limiti (cfr Evangelii gaudium, n. 3). La gioia è davvero il filo conduttore che caratterizza gli eventi principali della rivelazione biblica: conoscendo il Signore, si diventa sempre più partecipi della sua gioia, che egli vuole condividere con noi per l’eternità (cfr n. 4; Mt 25,21).
    Sembrerebbe una cosa scontata, eppure rimane forte la spinta a rifiutare questa gioia, considerata come troppo grande per noi, al di fuori della nostra portata. Di fronte a questa offerta gratuita e spiazzante possono anche scattare meccanismi di difesa, di rifiuto, legati alla colpa, all’indegnità o alla paura di prendere sul serio qualcosa che a volte appare troppo distante dall’esperienza personale. Il documento, a questo proposito, mette in parallelo l’esperienza della gioia a quella del dolore, come una sfida circa la sua effettiva consistenza e valore. La gioia biblica è legata alla semplicità della vita e alla semplicità di un cuore capace di riconoscere ciò che davvero conta.
    Il Papa, entrando in merito a questi aspetti, non ha remore a riprendere la propria esperienza personale: «Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice. In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo» (n. 7).

    «Bonum est diffusivum sui»

    La gioia scoperta ha inoltre una caratteristica «contagiosa», che mette in movimento chi la sperimenta dentro di sé avvertendo l’urgenza di comunicarla ad altri. Come nel racconto dei magi (cfr Mt 2,10), come nella parabola del tesoro trovato nel campo (cfr Mt 13,44-46), ciò che mette l’uomo in movimento, coinvolgendo la totalità del suo essere, è proprio la gioia: le difficoltà, pur presenti, vengono percepite come uno stimolo a dare il meglio di sé piuttosto che scoraggiare dall’impresa da compiere [9]. Di fronte a questo tipo di esperienza, le difficoltà sembrano anche stranamente appianarsi, ci si sente investiti da una forza che rende capaci di affrontarle con scioltezza e generosità. Uno degli aspetti dell’inatteso cambiamento di vita che più hanno colpito Ignazio di Loyola era il desiderio profondo di vivere in pienezza. Ripensando alla propria conversione, egli osservava: «Passava in rassegna molte iniziative che trovava buone, e sempre proponeva a se stesso imprese difficili e grandi; e mentre se le proponeva, gli sembrava di trovare dentro di sé le energie per poterle attuare con facilità» [10].
    Si tratta di un insegnamento assodato presso gli autori spirituali.
    Sant’Agostino parla del desiderio come di un «recipiente spirituale»: quanto più l’uomo vi si dedica, tanto più esso cresce, dilatandosi, e in tal modo Dio può manifestare la sua generosità, riempiendolo dei suoi doni. San Gregorio Magno interpreta allo stesso modo i molteplici tentativi di Maria Maddalena di cercare il Signore al sepolcro; essi manifestano la dinamica propria del desiderio spirituale, di crescere e rafforzarsi qualora si cerchi di attuarlo, scoprendosi capaci di superare prove e difficoltà: «Cercò dunque una prima volta, ma non trovò; perseverò nel cercare, e le fu dato di trovare. I santi desideri crescono col protrarsi. Se invece nell’attesa si affievoliscono, è segno che non erano veri desideri» [11].
    È anche una verità propria della teologia e della filosofia scolastica: bonum est diffusivum sui, dicevano i medievali; la caratteristica propria del bene è di farsi conoscere e di essere comunicato ad altri, gratuitamente, come sua ragion d’essere, senza altro scopo che questo.
    Chi viene privato del bene, cessa con ciò di esistere [12].
    Non si tratta solo dell’opinione di qualche teologo medievale. La psicologia sperimentale ha mostrato come il bene si dimostri diffusivo in maniera molto più efficace del male: la gioia e la contentezza «contagiano» molto di più della tristezza, trovando con più facilità persone disposte a diffonderla. Questo capita perché, quando si è felici, si possiedono indubbiamente molte più energie e motivazioni rispetto a quando si è depressi [13].
    Per questo, prosegue il Papa, «un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale» (n. 10). Sappiamo che questa è anche una delle critiche più forti rivolte ai fedeli da parte dei non credenti: i cristiani sembrano succubi delle medesime ansie e preoccupazioni di chi è senza speranza. È questo, ad esempio, il rimprovero amaro espresso dal filosofo Nietzsche: i cristiani hanno, appunto, «facce da funerale», sono portatori di morte, non di vita.
    Dice il filosofo: «Hanno pensato di vivere come cadaveri, vestendo di nero il proprio cadavere; anche nei loro discorsi io annuso il lezzo delle camere mortuarie. E chi vive vicino a loro, vive vicino a neri stagni, in cui il rospo canta la sua canzone con dolce malinconia.
    Dovrebbero cantarmi canzoni migliori, perché imparassi a credere nel loro Redentore; dovrebbero apparirmi più redenti i suoi discepoli!» [14]. In questa forte denuncia si nota tuttavia anche una sorta di rimpianto e nostalgia nei confronti di un tesoro prezioso che è andato perduto a causa del grigiore dell’esistenza di coloro a cui è stato affidato: se i cristiani devono essere i testimoni del Risorto, perché il loro volto è quello di un cadavere? Va tuttavia aggiunto che una prospettiva appiattita sulla mera dimensione terrena non può esprimere la dimensione profonda di questa gioia, e prima o poi si trova costretta a riconoscere che i desideri più profondi non hanno mai un adeguato compimento, come aveva ben riconosciuto Paolo VI: «Per uno strano paradosso, la coscienza stessa di ciò che costituirebbe, al di là di tutti i piaceri transitori, la vera felicità, include anche la certezza che non esiste felicità perfetta.
    L’esperienza della finitudine, che ogni generazione ricomincia per proprio conto, obbliga a constatare e a scandagliare lo iato immenso che sempre sussiste tra la realtà e il desiderio di infinito. Questo paradosso, questa difficoltà di raggiungere la gioia ci sembrano particolarmente acuti oggi» [15]. Senza una prospettiva ulteriore, ogni più forte aspirazione alla vita e alla sua pienezza, motore di ogni nostra attività o progettazione, rischia di rimanere perennemente frustrata e neppure più considerata come capace di rendere la vita degna di essere vissuta. Perché in tal caso continuare a vivere? Questo è anche il senso della risposta di Benedetto XVI all’ipotesi di una mera «religione della matematica» sostenuta da P. Odifreddi nel suo libro Caro Papa, ti scrivo: «Nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male. Mi meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il valore portante dell’epoca moderna. L’amore, nel Suo libro, non compare, e anche sul male non c’è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia queste domande fondamentali resta vuota» [16].
    Altre caratteristiche dell’evangelizzatore possono essere riassunte nei modi seguenti:

    Annunciare con la vita. L’annuncio del Vangelo diventa credibile, come ricordava Nietzsche, nel momento in cui diventa parte della vita di chi lo annuncia e si mostra capace di condividere la vita di coloro a cui esso viene annunciato. È diventata giustamente famosa l’immagine usata da Papa Francesco: «Gli evangelizzatori hanno “odore di pecore”» (n. 24).

    Una continua conversione. È degno di nota constatare come il Papa stesso sappia mettersi in discussione per primo in questo senso, preoccupandosi di rendere la propria persona sempre più trasparente al Vangelo, che non per sua iniziativa è chiamato ad annunciare: «Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati a un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione» (n. 32). E il Papa riconosce anche che questo desiderio «non si è pienamente realizzato» (ivi).

    Non stancarsi di trovare nuove vie. La lunga tradizione dell’annuncio cristiano può portare a una sorta di pigrizia dello spirito, divenendo persone incapaci di notare le novità dei segni dei tempi, trincerandosi in una tranquillità rassicurante, ma decrepita: «Invito tutti a essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia» (n. 33).

    Le insidie che minacciano l’evangelizzatore

    Il documento entra anche in merito ad alcune sfide/opportunità irrinunciabili dell’attuale contesto di evangelizzazione.
    Anzitutto la capacità di riconoscere la corretta gerarchia delle verità di fede. La preminenza che la misericordia dovrebbe occupare è spesso oscurata da altre preoccupazioni, che possono lasciare smarriti circa il cuore dell’annuncio evangelico: «Per esempio, se un parroco durante un anno liturgico parla dieci volte sulla temperanza e solo due o tre volte sulla carità o sulla giustizia, si produce una sproporzione, per cui quelle che vengono oscurate sono precisamente quelle virtù che dovrebbero essere più presenti nella predicazione e nella catechesi. Lo stesso succede quando si parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di Dio» (n. 38).
    Si deve inoltre considerare il canale di trasmissione del messaggio.
    In ogni epoca, ma in modo del tutto speciale nel nostro tempo, esso è l’elemento che può fare la differenza in ordine alla possibile accoglienza o rifiuto del contenuto proposto. Senza un annuncio efficace il Vangelo può, come il sale (cfr Mt 5,13), smarrire il suo sapore e apparire lontano dalla vita, privo di attrattiva. La preoccupazione per l’efficacia della comunicazione può tuttavia portare anche alla tentazione di annacquare il contenuto del Vangelo, o di ridurlo a comodi slogan, per ottenere facili consensi, scavalcando la centralità della croce, o rivestirlo di una serie di dettagli secondari (cfr nn. 42-43).
    L’accoglienza dei fedeli da parte dei pastori rimane a questo proposito un aspetto irrinunciabile della comunicazione, specie in sede sacramentale. Un’esperienza traumatica fatta da chi, con fatica, decide ad esempio di aprire la propria coscienza al confessore può allontanare per sempre la persona e favorire quella visione del cristianesimo come nemico della vita sopra ricordata: «Il confessionale non dev’essere una sala di tortura, bensì il luogo della misericordia del Signore, che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (n. 44).
    Ugualmente gravi, da parte degli operatori pastorali, sono il pericolo dell’individualismo, la mancanza di motivazioni, così come la rivalità, la disistima, la divisione interiore, la perdita del fervore (cfr n. 78).
    Vengono ricordati altri aspetti che possono costituire un grave ostacolo all’annuncio di fede: proposte spirituali ambigue, più legate alla magia, alla superstizione o alla moda del momento che al Vangelo, la mancata trasmissione della fede da parte dei genitori ai propri figli (cfr n. 70). Anche un’eccessiva fiducia nella pianificazione e nella programmazione, considerate come la bacchetta magica ultimamente risolutiva dei problemi, può essere espressione di una «mondanità spirituale», un modo per mascherare l’ansia di non saper gestire una realtà sempre sfuggente. È quello che il documento chiama il «funzionalismo manageriale», caratterizzato dall’essere «carico di statistiche, pianificazioni e valutazioni, dove il principale beneficiario non è il Popolo di Dio, ma piuttosto la Chiesa come organizzazione […]. In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio» (nn. 95-96).

    Valorizzare gli strumenti dell’annuncio

    La vera sfida dell’evangelizzazione richiede piuttosto l’accoglienza della propria fragilità e la docilità all’opera dello Spirito Santo, dando uno spazio adeguato - uno spazio soprattutto interiore, affettivo - ai canali da sempre preposti alla pastorale e all’annuncio del Vangelo: l’animazione della liturgia, la predicazione, la catechesi, l’accompagnamento, l’omelia. Considerando l’enormità e insieme l’importanza di questi temi, preferiamo soffermarci brevemente solamente sull’omelia, da sempre oggetto sia di interesse sia di preoccupazione e lamentela da parte dei fedeli: «L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo. Di fatto, sappiamo che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare. È triste che sia così» (n. 135). Questo problema richiama quella terribile frattura, rilevata da Paolo VI, tra il Vangelo e la cultura, una frattura particolarmente evidente nel nostro tempo [17].
    Tutto questo suscita interrogativi più generali ed esistenziali, soprattutto in sede educativa: perché il bene sembra essere noioso e il male invece appare così attraente? Il dizionario Webster definisce la predica «dare consigli religiosi in modo noioso»; l’omelia sembra essere diventata noiosa per definizione.
    L’allora card. Ratzinger, nel corso di un’intervista, aveva osservato ironicamente: «Povero Dio che ogni domenica deve sopravvivere a milioni di pessime omelie!». Ma, si potrebbe tranquillamente aggiungere: anche poveri fedeli! Le lamentele sulle prediche noiose non costituiscono certamente una novità, anzi questo è un male che ha da sempre attraversato la storia della Chiesa, non risparmiando neppure i più grandi santi. San Paolo predicava così a lungo che una volta un giovane morì, cadendo addormentato dalla finestra (cfr At 20,9). Come nota T. Radcliffe, questo episodio, paradossalmente, può diventare motivo di sollievo per il predicatore: «Quando predico nella chiesa di Blackfriars e vedo qualcuno che lotta contro enormi sbadigli, mi consolo dicendomi che la mia predica non l’ha ancora ucciso» [18].
    Spesso la gente rifiuta il Vangelo non perché lo ritiene falso, ma piuttosto perché lo ritiene noioso, non attraente, come qualcosa che non abbia a che fare con la propria vita. E così la parola del Vangelo, come il seme della parabola (cfr Mc 4,1-9), viene sciupata per la mancanza di abilità e di intelligenza da parte di coloro che sono chiamati ad annunciarlo. In questo senso può essere letta la parabola dell’amministratore disonesto (cfr Lc 16,1-13), una parabola che può inquietare perché sfida l’intelligenza: l’amministratore viene lodato non per la sua disonestà, ma piuttosto per la sua astuzia. Si tratta di un fatto riconosciuto anche dal Vangelo: i figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce. Per questo Gesù ci invita a prendere da loro lezioni di scaltrezza (non di disonestà!), in modo che anche l’intelligenza e l’astuzia possano essere messe a servizio del bene.
    In questa prospettiva, l’«astuzia» implica la capacità, da parte del predicatore, di unire la parola di Dio con la sua cultura e la sua esperienza.
    In questo modo l’omelia può davvero parlare al cuore e alla vita del popolo di Dio: «La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, e non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi, lì sta il tuo cuore. La differenza tra far luce sulla sintesi e far luce su idee slegate tra loro è la stessa che c’è tra la noia e l’ardore del cuore. Il predicatore ha la bellissima e difficile missione di unire i cuori che si amano: quello del Signore e quelli del suo popolo» (n. 143). Particolarmente significative risultano a questo proposito le indicazioni che emergono dal documento, in cui il Papa opera una sorta di rilettura della propria esperienza di pastore e di predicatore (cfr nn. 146-159).
    Ma questo dissidio tra il bene e il bello non è strutturale. L’Evangelii gaudium invita a ritrovare sempre nuove modalità di incontro tra queste due irrinunciabili proprietà dell’essere, riprendendo a questo proposito la celebre via pulchritudinis.

    La «via pulchritudinis»

    La bellezza rimane una delle vie privilegiate di questo annuncio: «Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta a incontrarsi con il Signore Gesù» (n. 167).
    Questa parola di vita, qualora venga perduta, può essere sempre ritrovata, perché risuona in qualche modo nel profondo del nostro cuore, e viene attestata sub contraria specie da coloro che la reclamano con nostalgia per poter continuare a vivere. Come notava Benedetto XVI, la bellezza ricorda all’uomo di ogni tempo che la pienezza cui anela non è illusione, ma il suo desiderio più vero e profondo, quello di incontrarsi con il suo Creatore: «L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere - egli dice - senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui” […]. La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza» [19].
    Per questo Papa Francesco insiste sul fatto che la celebrazione liturgica debba essere sempre preparata con cura; essa sa infatti parlare come nessun’altra cosa di questa bellezza all’uomo di tutti i tempi.
    Agostino, nel suo periodo di ricerca sofferta di Dio, combattendo con dubbi e interrogativi che non gli davano pace, notava come su tutti i suoi monologhi interiori scendesse il silenzio di fronte alla contemplazione stupita dei canti nella cattedrale di Milano: «Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene. Non da molto tempo la Chiesa milanese aveva introdotto questa pratica, consolante e incoraggiante, di cantare affratellati, all’unisono delle voci e dei cuori, con grande fervore» [20]. Questa bellezza sa essere molto più persuasiva di qualsiasi discorso e indagine.
    È un’esperienza che si ripete puntualmente lungo i secoli, e non cessa di interpellare e affascinare colui che vi assiste. Romano Guardini, partecipando alla veglia pasquale nella splendida cattedrale di Monreale, descrive la celebrazione con queste toccanti parole: «La liturgia si svolgeva in tutta la sua solennità. Si battezzavano bambini e si ordinavano sacerdoti. Dopo alcune ore io ero alla fine della mia capacità recettiva, lo confesso. Ma il popolo non lo era affatto. Nessuno aveva in mano un libro o un rosario, ma tutti erano vividamente presenti. A un certo punto io mi voltai e guardai tutti quegli occhi rivolti alla sacra funzione. L’aspetto di quegli occhi spalancati non l’ho più dimenticato; mi sono immediatamente distolto da essi, come se non fosse lecito guardarli. Là c’era ancora l’antica capacità di vivere guardando» [21].
    In questo stupore estatico la Bellezza rivela la sua componente salvifica, di comunione efficace con Dio, di partecipazione alla sua vita beata. È quanto attesta, questa volta in ambito orientale, Pavel Florenskij: «La lettura del canone pulsava ritmicamente. Qualcosa nella penombra tornava alla mente, qualcosa che ricordava il Paradiso, e la tristezza per la sua perdita veniva trasformata misteriosamente nella gioia del ritorno […]. Il mistero della sera si univa con il mistero del mattino ed entrambi erano una cosa sola» [22].
    In queste testimonianze emerge la peculiarità propria della celebrazione di mettere in comunicazione cielo e terra, coinvolgendo l’uomo nella sua interezza, lo spirito, l’intelletto, i sensi e gli affetti: si nota con stupore che l’impossibile è divenuto possibile, l’eterno si è incontrato con il tempo. In questo incontro l’uomo viene trasformato, non distrutto.
    Vladimir Solov’ëv notava che il diamante e il carbone sono fatti della stessa materia: essi hanno la medesima composizione chimica.
    Ciò che fa la differenza è l’ordine degli elementi che li compongono, che li porta a diventare trasparenti o opachi nei confronti della luce [23]. Gli elementi del diamante sono presenti in ciascuno di noi, ma è necessario riordinarli, togliendo incrostazioni e detriti che ne hanno oscurato il fondo. Questo lavoro di purificazione, strettamente legato all’esperienza della bellezza, può essere considerato come la dimensione artistica della vita spirituale.

    Una relazione personale con il Signore

    Si notava sopra, riportando la critica di un «maestro del sospetto», quanto sia decisivo che il messaggio possa essere detto anzitutto con la propria vita. L’evangelizzazione diviene credibile se è credibile l’evangelizzatore. Per questo l’auspicio del Papa, di fronte ai tanti problemi e alle sfide poste all’evangelizzazione, è di giungere a una relazione sempre più viva e intima con il Signore, una relazione affettiva che ha un posto giustamente rilevante nel Vangelo: «La soluzione non consisterà mai nel fuggire da una relazione personale e impegnata con Dio, che al tempo stesso ci impegni con gli altri» (n. 91). L’incontro con Gesù, morto e risorto per noi, trasforma la vita dell’evangelizzatore e dei suoi destinatari.
    Nei Detti dei padri del deserto, una raccolta greca del IV secolo di episodi e battute folgoranti e anche molto attuali, c’è un aforisma, provocatorio, ma molto significativo al riguardo: «Un tale andò da un padre del deserto e gli disse: “Padre mio, perché al giorno d’oggi così tanti abbandonano la vita religiosa?”. Il vecchio monaco rispose: “Vedi, succede come quando un cane ha visto la lepre. Si mette a correre dietro la lepre e abbaia forte. Altri cani sentono il cane che abbaia correndo dietro la lepre e anch’essi si mettono a correre: sono in tanti che corrono insieme, ma uno solo ha visto la lepre, uno solo la segue con gli occhi. E a un certo punto, uno dopo l’altro, tutti quelli che non hanno visto la lepre e corrono solo perché un altro l’ha vista si stancano e si fermano. Solo il cane che ha visto la lepre continua nella sua corsa, finché non l’acchiappa.
    Allo stesso modo - conclude il monaco - nella vita religiosa la perseveranza è impossibile senza un incontro personale con il Cristo crocifisso. Soltanto quelli che hanno fissato gli occhi veramente sulla persona di Gesù Cristo, nostro Signore crocifisso e risorto, continuano nel loro cammino fino alla fine”» [24].


    NOTE

    1. Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013.
    2. Per un approfondimento di questo tema, cfr G. Cucci, Abitare lo spazio della fragilità. Oltre la cultura dell’«homo infirmus», Milano, Àncora - La Civiltà Cattolica, 2014, soprattutto 19-60.
    3. «Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole o più grandi: risolvere questo o quell’altro compito che per l’ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro impegno dare un contributo affinché il mondo diventi un po’ più luminoso e umano e così si aprano anche le porte verso il futuro» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 35).
    4. «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore - come è stato già detto - rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso. Questa è - se così è lecito esprimersi - la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l’uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità» (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptor hominis, 4 marzo 1979, n. 10).
    5. «La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale» (Paolo VI, Esortazione apostolica Gaudete in Domino, 9 maggio 1975, I; cfr Id., Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 47).
    6. Ricordiamo solo alcuni contributi recentemente tradotti in lingua italiana: J. M. Bergoglio, In Lui solo la speranza. Esercizi spirituali ai vescovi spagnoli (15-22 gennaio 2006), Milano - Città del Vaticano, Jaca Book - Libr. Ed. Vaticana, 2013, 74 s, n. 2; Id., È l’amore che apre gli occhi, Milano, Rizzoli, 2013.
    7. Id., Aprite la mente al vostro cuore, Milano, Rizzoli, 2013, 22.
    8. «Abbiamo conosciuto numerose vittime dell’accidia: coloro che vagheggiano progetti irrealizzabili e non portano a termine ciò che concretamente potrebbero fare. Coloro che non accettano l’evoluzione dei processi e si aspettano la generazione spontanea. Coloro che ritengono che ormai si sia già detto tutto e non occorra fare di più […]. Coloro che non sanno più sperare e perciò divengono elementi disgreganti a causa della loro stessa chiusura alla speranza. L’accidia è divisione, perché ciò che unisce sempre è la vita» (ivi, 28).
    9. Questa «gioia» è nominata da Matteo con un preciso termine, charas, che compare soltanto in questi passi. L’evangelista intende evidenziare un tipo di gioia che nessuna realtà umana potrebbe dare e per cui si è disposti a qualunque sacrificio.
    Entrambe le situazioni, apparentemente così diverse, indicano la medesima realtà: è la gioia di chi ha trovato il Signore. Questo incontro, che non si potrebbe prevedere e nemmeno immaginare, richiede tuttavia la prontezza di mettersi in cammino, perché una simile opportunità potrebbe non presentarsi più: «Chi non approfitta dell’occasione è uno stolto, il quale è ancora senza cucchiaio anche quando arriva la pappa» (J. Gnilka, Il Vangelo di Matteo, vol. I, Brescia, Paideia, 1990, 733).
    10. Ignazio di Loyola, s., Autobiografia, n. 7. Ripensando anche a questa esperienza egli, nelle regole per il discernimento, ricorda come sia caratteristica propria dello Spirito Buono «dare coraggio ed energie, consolazioni e lacrime, ispirazioni e serenità, diminuendo e rimovendo ogni difficoltà, per andare avanti nella via del bene» (Esercizi spirituali, n. 315).
    11. Gregorio Magno, s., Omelie sui Vangeli, II, XXV, 2, in Opere di Gregorio Magno, vol. II, Roma, Città Nuova, 1994, 313.
    12. Cfr Agostino, s., Le confessioni, VII, 12; Tommaso, s., Summa contra Gentiles, I, 37, § 307; Sum. Theol., I, q. 5, a. 4 ad 2um; De Pot. q. 3, a. 15, ad 12; B. Blankenhorn, «The Good as Self-Diffusive in Thomas Aquinas», in Angelicum 79 (2002) 803-37, in particolare 810.
    13. Cfr A. Hill, «Emotions as infectious diseases in a large social network: the SISa model», in Proceedings of the Royal Society, 2010, https://rspb.royalsocietypublishing.org/content/277/1701/3827.
    14. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, vol. I, Milano, Adelphi, 1984, 109. Eppure qualche pagina prima il medesimo autore notava con una grande tenerezza tutta la sofferenza di un Dio che cerca in tutti i modi di amare l’uomo: «Così una volta mi disse il demonio: “Anche Dio ha il suo inferno: cioè il suo amore per gli uomini”. E recentemente l’ho udito pronunciare queste parole: “Dio è morto; la sua compassione per gli uomini lo ha ucciso”» (ivi, 106).
    15. Paolo VI, Esortazione apostolica Gaudete in Domino, cit., I.
    16. https://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/societa/2013/09/24/ news/lettera_ratzinger_a_odifreddi-67140416/ 17. Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, cit., n. 20.
    18. T. Radcliffe, Perché andare in chiesa? Il dramma dell’eucarestia, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2009, 70 s.
    19. Benedetto XVI, Discorso all’incontro con gli artisti, 21 novembre 2009.
    20. Agostino, s., Le confessioni, l. IX, 6, 14 - 7,15.
    21. R. Guardini, Scritti filosofici, vol. II, Milano, Fabbri, 1964, 169 s.
    22. P. Florenskij, «Sulla collina Makovec, 20 maggio 1913», in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1999, 261. Per un approfondimento del tema, cfr G. Cucci, Tracce del divino. La bellezza via all’Assoluto, Milano, Paoline, 2012, 99-132.
    23. Cfr V. Solov’ëv, Sulla bellezza nella natura, nell’arte, nell’uomo, Milano, Edilibri, 2006, 43.
    24. Collezione anonima Coislin 126 – Nau (N), in Detti editi e inediti dei padri del deserto, Magnano (Bi), Qiqajon, 2002, 43 s.

    © La Civiltà Cattolica 2015 II 30-44 | 3955 (4 aprile 2015)


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