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     Il servizio sacerdotale

    come servizio pastorale

    Walter Kasper


    Gesù Cristo, il buon pastore

    Negli anni del cambiamento postconciliare ho cercato di presentare il servizio sacerdotale come il compito di governare la comunità e, nel farlo, ho spiegato che il governo della comunità è un servizio pastorale nel senso biblico dell'espressione. Con l'espressione ministero pastorale indichiamo perciò la dimensione pastorale del servizio sacerdotale. Tale dimensione sta comprensibilmente in primo piano per molti confratelli; essa è la prima dimensione del servizio loro affidato. Ma che significa pastorale? Le risposte date a questa domanda sono diverse, a volte contraddittorie. Per gli uni l'aggettivo 'pastorale' è quasi una parola magica, per altri è una specie di ammorbidente, perché una cura d'anime orientata all'uomo è spesso concepita come una cura d'anime orientata unilateralmente ai bisogni umani ed è di conseguenza contrapposta a una pastorale ispirata alla parola di Dio e alla verità. Vale perciò la pena esaminare un po' più da vicino l'immagine biblica del pastore al fine di lumeggiare il vero e profondo senso del servizio pastorale.
    Il discorso biblico del pastore non ha nulla a che fare con un romanticismo bucolico e idilliaco. I pastori erano considerati in Israele, fin dal tempo dei patriarchi, come delle grandi figure di capi e di guide. Essi dovevano indicare la via, proteggere non solo il gregge, ma tutto il clan da pericoli di ogni genere e guidarli ai pascoli. Dovevano prendersi cura, con un amore sollecito, delle persone e degli animali e tener conto della loro condizione. Erano padroni e compagni nello stesso tempo.
    Nell'Antico Testamento Jahvé è detto pastore del suo popolo. Il Salterio descrive la guida e la sollecitudine di Dio con parole commoventi: «Il Signore è il mio pastore; non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce... Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male» (Sal 23,1-2.4). «Egli è il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce» (Sal 95,7; cfr. 78,52-54; 80,2). Il profeta dice di Jahvé: «Come un pastore egli fa pascolare il gregge, e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce piano piano le pecore madri» (Is 40,11).
    Dio, pastore sollecito, affida le sue pecore ai suoi servi: a Mosè (Sal 77,2), a Davide (Sal 78,70-72) e ad altri. Ma i pastori costituiti da Dio, anziché prendersi cura del gregge, hanno pascolato se stessi, hanno abbandonato il gregge e hanno permesso che si disperdesse (Ez 34,1-10). «Tutti i tuoi pastori saranno pascolo del vento» (Ger 22,22). Perciò Jahvé tornerà di nuovo a prendere nelle proprie mani il gregge (Ez 34,11-22) e a dargli pastori secondo il suo cuore (Ger 3,15; 23,4).
    In questo senso Gesù si sa inviato come pastore alle pecore perdute d'Israele (Lc 15,24; cfr. 10,6). Egli prova compassione quando vede che gli israeliti sono come pecore senza pastore (Mc 6,34). Si concepisce come il pastore che va in cerca della pecora smarrita e che, quando la trova, se la carica sulle spalle e la riporta pieno di gioia all'ovile. Egli sa che grande è la gioia per questo in cielo (Lc 15,4-10).
    Il vangelo di Giovanni ha elaborato tutta una cristologia del pastore (Gv 10). Gesù stesso si definisce come il buon pastore, cioè come il vero pastore; egli conosce i suoi e i suoi conoscono lui. Diversamente dai mercenari egli non abbandona il gregge quando vengono i ladri e i briganti, ma dà addirittura la vita per le proprie pecore. Le conduce, le mantiene unite e le guida a pascoli buoni, dove trovano la vita e la vita in abbondanza (Gv 10,10).
    Pure altri scritti neotestamentari riprendono il motivo del pastore. Essi chiamano Gesù Cristo il grande pastore delle pecore (Eb 13,20), il pastore supremo (1 Pt 5,4), il pastore e vescovo delle nostre anime (1 Pt 2,25). Egli ci conduce alle sorgenti della vita (Ap 7,17). Il motivo del pastore è pertanto un motivo ricorrente nel Nuovo Testamento. L'iconografia cristiana primitiva, soprattutto le rappresentazioni di Cristo nelle catacombe, mostrano che esso si impose come spontaneamente fin dall'inizio e che fu percepito come un motivo eloquente.

    «Vi manderò dei pastori»

    Gesù non è solo il pastore supremo, ma invia anche pastori. Secondo il Nuovo Testamento, egli li costituisce dal cielo nelle vesti di Signore glorificato (Ef 4,11). Tali pastori non sono altro che i presbýteroi e gli epískopoi (At 20,28; 1 Pt 2,25; 5,2), per cui il ministero di questi ultimi è concepito come servizio pastorale. Nel Nuovo Testamento questa è una cosa seria, perché alla fine i pastori dovranno rendere conto a Cristo, al pastore supremo (1 Pt 5,4); nel giudizio i presidenti delle comunità saranno addirittura chiamati in maniera particolarmente severa a rendere conto del loro operato (Eb 13,17).
    Il pastore deve anzitutto conoscere e indicare la deve indicare la meta e orientare. Pertanto deve invitare a prendere una decisione fra le due vie, tra la via stretta che porta alla salvezza e la via larga che porta alla perdizione (Mt 7,13s.; Lc 13,24; cfr. Did 1-6). Deve sapere e anche dire che soltanto Gesù Cristo è la via, la verità e la vita (Gv 14,6) e che l'amore è la strada maestra del cristiano (1 Cor 12,31). Soltanto la verità rende realmente liberi (Gv 8,32); soltanto essa è la luce della vita (Gv 3,21). Nel Nuovo Testamento il cristianesimo è detto la nuova via, cioè la vera e definitiva via (At 9,2; 19,9.23 e passim). Un servizio pastorale, che non indicasse più la via, sarebbe simile a un cieco che guida altri ciechi finché non cadono tutti quanti nella fossa. Esso finirebbe per meritare le parole sarcastiche di Nietzsche: «Chi governerà ancora? Chi ubbidirà ancora? Son due cose faticose. Più nessun pastore e più nessun gregge!».
    Ma appunto nella sua qualità di verità Gesù è anche la via; egli è il buon pastore che cammina con noi. Perciò non soltanto la vita in generale, bensì anche il cristianesimo è una via, e la chiesa è, in quanto chiesa pellegrinante, in cammino. I pastori non devono perciò essere duri di cuore, ma andare alla ricerca di coloro che hanno smarrito la via e si sono perduti, devono occuparsi di coloro che sono rimasti per strada e che vivono ai margini, devono riportarli all'ovile e sapere che proprio questo procura gioia in cielo (Lc 15,3-7). Devono vigilare contro gli intrusi che diffondono false dottrine e devono prendersi cura dei deboli (At 20,30s.35). Devono gioire con coloro che sono nella gioia, piangere con coloro che piangono (Rom 12,15) e farsi, come l'apostolo, tutto a tutti (1 Cor 9,22). In breve, devono dire la verità con estrema chiarezza, ma dirla con amore (Ef 4,15).
    Stando al modello Gesù, il servizio pastorale è una cura d'anime che và alla ricerca, non una cura d'anime che aspetta che la gente venga e entri. Quando ero vicario, compivamo ancora visite regolari alle famiglie allorché c'erano dei malati, moriva o nasceva qualcuno. Oggi in molti casi questo non sarà più possibile al sacerdote. Si potranno allora organizzare delle visite da parte di laici. Vescovi provenienti da paesi caratterizzati da una forte e talvolta enorme crescita delle cosiddette chiese pentecostali e delle sette mi dicono a volte: «Non appena c'è un'emergenza sono subito là e ci portano via i fedeli». E io rispondo regolarmente: «Perché non siamo anche noi là?». Il contatto personale è l'alfa e l'omega della cura d'anime e non può essere sostituito da nulla, neppure da lettere parrocchiali o diocesane formulate nella maniera più cordiale.
    Il buon pastore andrà soprattutto alla ricerca di coloro che soffrono fisicamente e spiritualmente, avrà un cuore soprattutto per coloro che sono materialmente e spiritualmente poveri, e che hanno bisogno del suo aiuto, della sua parola di incoraggiamento, del suo consiglio e del suo conforto. Non avrà sempre pronta, in tutte le situazioni difficili, una risposta e una soluzione concreta, ma dovrà ascoltare molto, perché anche l'ascolto può essere un aiuto. In questo senso Paolo può descrivere il suo servizio anche come un servizio paterno, fatto di amore e di vicinanza (1 Cor 4,15; Fil 2,22; Fm 10). Già quando eravamo in seminario ci fu in continuazione detto: può essere un sacerdote che vive celibe solo chi è anche capace di essere un buon padre e occuparsi in maniera paterna soprattutto dei piccoli (nel senso letterale e traslato del termine). Non per nulla in molte lingue il sacerdote è anche detto 'padre' (in inglese father , in francese père, in tedesco Vater) termine che esprime in ugual misura rispetto e confidenza.
    Oltre che a prendersi cura dei perduti, dei poveri, dei deboli e dei perseguitati il pastore deve anche pensare a radunare e a mantenere unito il gregge. Pure questo è un suo dovere fondamentale. Il servizio sacerdotale è un servizio dell'unità. Tale compito è solo secondariamente un compito organizzativo. Nella sostanza è un compito spirituale. Il sacerdote deve infatti radunare tutti attorno all'unico pastore Gesù Cristo e mantenere unito il gregge nell'unica fede, nell'unico amore e nell'unica speranza. Nel fare questo deve tener conto della molteplicità dei carismi presenti nella comunità, deve provvedere a che ogni carisma abbia il posto che gli spetta e porti il suo contributo, e deve impedire che alcuni arraffino tutto. E meno che mai deve diventare lui il pomo della discordia nella comunità. L'unità, di cui deve preoccuparsi, sarà perciò un'unità nella molteplicità.
    Questo servizio dell'unità si spinge al di là del proprio gregge. Il sacerdote deve prendere a cuore le parole di Gesù, secondo le quali ci sono ancora altre pecore che non fanno parte del suo ovile; pure quelle egli deve radunare, affinché alla fine ci sia un solo pastore e un solo gregge (Gv 10,16). Perciò egli farà sua la preghiera indirizzata da Gesù la vigilia della sua morte al Padre e da lui lasciataci come testamento, «perché tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21).
    L'ecumenismo si unisce a questa preghiera e la fa sua. Esso sarà pertanto in primo luogo un ecumenismo spirituale e percorrerà la via della conversione, del rinnovamento e della santificazione; la preghiera per l'unità è l'anima di tutto il movimento ecumenico (UR 8). Esso è fondato sul testamento di Gesù e non è perciò un'occupazione pastorale secondaria e un lusso pastorale, ma è una parte essenziale del servizio affidato al sacerdote. L'ecumenismo è uno dei grandi cantieri della chiesa, da cui dipende il futuro di questa. La costruzione a cui esso lavora sarà naturalmente stabile soltanto se poggerà sul solido fondamento della verità nella carità (Ef 4,15).
    Nella prima lettera di Pietro ricorre una esortazione già citata, nella quale sono incisivamente descritti i doveri pastorali del sacerdote: «Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1 Pt 5,2s.). Secondo questo testo il servizio pastorale è tutt'altro che un ministero arrogante. Tali tempi sono – dovremmo dire: grazie a Dio – passati. Non dovremmo perciò lamentarci del fatto che oggi nella società il sacerdote non occupi di solito l'ultimo posto, ma non occupa neppure più il primo. Non diversamente successe pure a Gesù e all'apostolo Paolo, anzi a loro successe anche di peggio (1 Cor 4,9-13; 2 Cor 4,7-15). Il beato Charles de Foucauld scelse perciò, a ragion veduta, l'ultimo posto.
    Nel frattempo incombono nuove tentazioni. Una forma moderna di esercizio del potere si chiama burocratizzazione; essa è un pericolo e purtroppo anche una realtà specialmente nella chiesa della Germania, dove si vorrebbe regolare tutto con procedure il più possibile precise. Ma un sacerdote, che è diventato un burocrate o un manager della sua comunità o unità pastorale, è sia una caricatura del sacerdote, sia uno che si presenta come un autocrate arrogante. Con un esercizio burocratico o tecnocratico impersonale si finisce in fondo per oscurare il ministero spirituale. Il sacerdote deve infatti mostrare come pastore il suo volto personale. Deve esercitare la sua responsabilità personale non delegabile per il bene del suo gregge e per ognuno dei suoi componenti. Di lui si deve poter dire che è uno che conosce le sue pecore e che le sue pecore conoscono lui (Gv 10,14).
    L'altra tentazione consiste nel limitarsi a moderare gruppi ed è costituita da tutto il moderno cattolicesimo dei gruppi e delle sedute, mansione che assorbe in larga misura i sacerdoti oberati di lavoro e che non lascia loro più tempo per la cura d'anime reale. Ogni persona ragionevole sa che senza sedute, il più delle volte fastidiose, le cose non funzionano; ma un eccesso di sedute e di riunioni impedisce al sacerdote di dedicarsi al suo autentico lavoro pastorale e gli impedisce non di rado di dare personalmente la sua testimonianza. Ci si può infatti anche nascondere dietro i gruppi e dietro le loro decisioni. Questa è una falsa modestia pastorale e non è un segno di forza, ma di debolezza. Gesù non ha detto: Sedetevi insieme, ma mettetevi in cammino e andate!

    Chi è un buon pastore?

    Chi è dunque un buon pastore, che prende seriamente il suo servizio e la sua responsabilità pastorale? Limitiamoci a menzionare alcuni suoi tratti:
    – Un buon pastore è uno che guida e che ha il coraggio di indicare, alla luce della fede, una chiara e affidabile direzione di'marcia. Questo è più che mai necessario proprio oggi, perché molti sono come pecore disorientate. Le chiacchiere vuote e l'adattamento a ciò che molti amerebbero ascoltare non sono un atteggiamento pastorale, ma un fallimento pastorale. Inoltre, il pastore è anche uno che non reagisce con durezza, bensì mostra comprensione, sensibilità e pazienza verso coloro che non tengono il passo, che rimangono indietro e sono deboli. Il pastore è uno che sa dire la verità con amore.
    – Un buon pastore è un amico della vita, uno che dischiude ad altri le sorgenti della vita, che fornisce loro del nutrimento spirituale lungo il cammino della vita, uno che li accompagna con il suo consiglio, il suo conforto e il suo incoraggiamento lungo il cammino della vita e che li aiuta a trovare la vera vita e ad averla in abbondanza in Gesù Cristo.
    – Un buon pastore è uno che non si intrattiene solo e sempre nella cerchia di coloro che già frequentano la chiesa, ma uno che va anche alla ricerca di coloro che hanno sbagliato strada, che si sono perduti, che si sono allontanati o che vivono in qualche altro modo ai margini; egli cercherà di tirarli fuori dal ginepraio in cui sono finiti anche se nel farlo si ferirà e si escorierà. Una volta tiratili fuori, se non sono ancora o non sono più in grado di camminare da soli, se li caricherà sulle sue robuste spalle e li riporterà a casa.
    – Un buon pastore è uno che, senza puntare indiscriminatamente il dito contro i benestanti, ha un cuore per i poveri, i piccoli, i deboli, i bambini, i malati e i disabili, in breve per tutti coloro che in qualche modo non ce l'hanno fatta e che vivono ai margini; egli si farà portavoce dei loro diritti e della loro dignità e si batterà perché ci siano giustizia e possibilità di vita per tutti.
    – Un buon pastore è uno che vigila, che richiama l'attenzione del suo gregge sui pericoli e che lo difende quando incombono calamità esterne o interne. Nelle situazioni difficili, ad esempio in caso di persecuzione, non fugge, non cerca di mettere al sicuro se stesso e la sua pecorella, ma affronta il pericolo con il gregge a lui affidato.
    – Infine un buon pastore non pasce se stesso, non cerca il proprio vantaggio, non si risparmia, ma dà la propria vita e la spende per gli altri. Il servizio pastorale non è perciò limitabile alle ore di ufficio, impegna tutto l'uomo e tutta la persona e in situazioni estreme può anche esigere il sacrificio della vita. Anche se, grazie a Dio, queste esigenze e pericoli estremi da noi oggi non esistono e non si profilano per il momento all'orizzonte, tuttavia ci sono attualmente non pochi paesi del mondo dove la persecuzione e l'oppressione sono una realtà.
    Grandi 'santi pastori d'anime' possono concretizzare quanto abbiamo detto. I Padri della chiesa non furono solo grandi teologi, per la maggior parte furono anche vescovi e, come tali, pastori d'anime delle loro comunità. Dopo la riforma protestante Carlo Borromeo fu fautore di un grande rinnovamento pastorale. Filippo Neri è considerato, con il suo apostolato della strada e dei giovani di strada, il secondo apostolo di Roma. Giovanni Bosco inaugurò, con il suo apostolato giovanile fatto di gioia e di amicizia, un nuovo, stile di pastorale. Don Luigi Orione fondò la cura d'anime nella periferia di Roma e si prese cura dei più abbandonati e dei più lontani tra i lontani da Dio. Dopo la scomparsa della vecchia chiesa di stato Klemens Maria Hofbauer percorse a Vienna nuove vie della pastorale individuale e del movimento dei laici. Tra le due guerre mondiali Rupert Mayer e Carl Sonnenschein divennero, rispettivamente a Monaco di Baviera e a Berlino, precursori dell'odierna city-pastoral. Pure oggi ci sono, grazie a Dio, molti santi pastori d'anime.
    Sono convinto che esistono non pochi giovani, i quali percepiscono questo servizio pastorale come una sfida e una vocazione, e che sono sufficientemente generosi e disponibili per dire «Sì, sono pronto». Naturalmente non li convinceremo con una immagine del sacerdote a prezzi scontati; convincente è solo un servizio sacerdotale vissuto in maniera completa e integrale.

    (Servitori della gioia. Esistenza sacerdotale - Servizio sacerdotale, Queriniana 2007, pp. 87-99)


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