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    Il giubileo

    nell'esperienza

    del popolo d'Israele

    Carmine Di Sante


    Il senso del giubileo ebraico viene fatto emergere attraverso l'analisi del lungo capitolo 25 del Levitico consacrato alla istituzione dell anno sabbatico (vv. 1-7) e soprattutto dell'anno giubilare (vv. 8-55). Anche se nella Bibbia ebraica ci sono altri testi che fanno riferimento all'anno giubilare (secondo gli studiosi forse Ger 34,8-22; Is 61,1-3; Ez 46,17 e Ne 10,32), Levitico 25 resta comunque il testo per eccellenza da considerare come istitutivo e costitutivo del giubileo ebraico.
    l'analisi viene svolta in due momenti. Nel primo vengono individuati i contenuti fondamentali del capitolo del Levitico ricondotti fondamentalmente a quattro: 1) il riposo/shabbat della terra, lasciando ai poveri di nutrirsi di ciò che su di essa fiorisce spontaneamente; 2) la remissione dei debiti; 3) la restituzione dci terreni e delle case ai proprietari originari; 4) la liberazione degli schiavi. Nel secondo viene prospettato un abbozzo flue.- nemico del giubileo ebraico attraverso la duplice categoria della gratuità recettiva, che istituisce il mondo come dono, e della gratuità attiva, che introduce l'uomo nell'orizzonte della giustizia o responsabilità assoluta.

    Il testo biblico più importante per capire che cos'è il giubileo per il popolo d'Israele è il lungo capitolo 25 del Levitico consacrato alla istituzione dell'anno sabbatico (vv. 1-7) e soprattutto dell'anno giubilare (vv. 8-55). Riferimenti all'anno giubilare si trovano anche in altri testi biblici (secondo gli studiosi forse in Ger 34,8-22; Is 61,1-3; Ez 46,17 e Ne 10,32). Levitico 25 resta comunque il testo per eccellenza, per la sua ampiezza ed articolazione, oltre che per la sua ricchezza di informazioni. Istitutivo e costitutivo del giubileo ebraico, Levitico 25 può essere considerato come uno «scrigno» testuale entro cui si cela e custodisce lo sguardo d'Israele sul mondo, dono di Dio all'uomo da accogliere e da fruire nella responsabilità e nella giustizia.
    Il senso di queste note è di «intro-dursi» in questo «scrigno testuale», nel senso etimologico di portarsi dentro la sua struttura, intreccio e intrigo di fili letterari frutto di tradizioni plurisecolari che si perdono nella notte dei tempi e la cui forma attuale è fatta risalire ai redattori del Levitico, rappresentanti del clero di Gerusalemme del periodo preesilico o postesilico. Scopo di questa «intro-duzione» è di accedere al senso del giubileo e alla sua sorprendente attualità ancora oggi. Questa «introduzione» sarà fatta in due momenti: il primo dedicato a cogliere i contenuti fondamentali del brano del Levitico; il secondo a ritrascriverne l'altezza del messaggio con la categoria della gratuità recettiva ed attiva.

    1. Il testo del Levitico 25,8-55

    a) Quando e come celebrare il giubileo
    Innanzitutto il testo del Levitico fissa quando deve essere celebrato il giubileo: «Conterai... sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni» (v. 8). Secondo il testo, il giubileo va celebrato dopo sette anni sabbatici. Da notare l'insistenza sul numero sette, il numero con cui la Bibbia scandisce il tempo, utilizzando il sistema «settenario» e non decimale come facciamo noi oggi, e il cui significato si tramuta da numerico a teologico essendo il giorno sette il giorno in cui Dio «ha fatto sabato», si è cioè riposato, interrompendo la sua attività creatrice e affidandola all'uomo.
    Questa insistenza sul numero sette che coincide con il sabato/ shabbat non è un pura curiosità letteraria ma una chiave di lettura necessaria alla comprensione del giubileo, il cui contesto è dato dalla teologia del sabato e dell'anno sabbatico che, non senza significato, il capitolo 25 del Levitico fa precedere (vv. 1-7) ai versetti riguardanti l'istituzione giubilare (vv. 8-55). Scrive B. Carucci:

    Per riuscire a capire esattamente il concetto dell'anno sabatico è necessario prima riuscire a comprendere qual è il concetto del sabato. Si potrebbe proporre un'analisi concentrica: si parte dal sabato della settimana, si passa per il sabato dell'anno [uno dei nomi della festa di yom kippur secondo Lv 23, 32] e per l'anno sabatico, per arrivare al sabato degli anni sabatici, che è il giubileo e, in una tradizione talmudica che è molto interessante, si arriva, andando ancora più avanti, al mondo messianico che, non a caso -secondo molti maestri - è il mondo del settimo millennio. È una sorta di concentricità di sabati, la cui origine necessariamente è nel significato stesso del sabato [da trasferire] prima all'anno sabatico e poi al giubileo [1].

    Successivamente il testo precisa come deve essere celebrato il giubileo: «Al decimo giorno del settimo mese, farai squillare la tromba dell'acclamazione; nel giorno dell'espiazione farete squillare la tromba per tutto il paese» (v. 9). L'inizio dell'anno giubilare deve essere proclamato con «la tromba dell'acclamazione», in ebraico shofar teruah che letteralmente vuol dire: «corno del [nel senso che produce il] suono»: il corno non di argento ma di montone o ariete oppure stambecco, con cui si annunciavano i grandi eventi assembleari. E poiché in ebraico «montone» si dice jovel o jobel, il «corno di suono di jovel» è diventato, per ellissi, semplicemente jovel, da cui i termini italiani: giubileo, giubilo, giubilare e «giubilazione», quest'ultimo con il significato di collocare a riposo un impiegato.

    b) In cosa consiste
    Il versetto più importante però è il successivo in cui viene condensato il senso teologico e antropologico del giubileo: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo: ognuno di voi tornerà nella proprietà e nella sua famiglia» (v. 10). Celebrare il giubileo è fare del cinquantesimo anno un anno diverso da tutti ili altri (è il significato di «santificare» che in ebraico rimanda all'idea ci «distinzione» e «separazione») e il senso di questa differenza è nell'istituire una liberazione che coinvolge tutti gli abitanti del paese. Di questo versetto così importante sono da sottolineare soprattutto questi aspetti:
    • che il processo di liberazione riguarda «tutti gli abitanti del paese»: non solo gli ebrei proprietari, ma gli stessi forestieri e lo stesso bestiame, come viene detto espressamente alcuni versetti prima quando si parla dell'istituzione dell'anno sabbatico: «Il settimo anno sarà come sabato, un sabato assoluto per la terra...non seminerai il tuo campo e non poterai la tua vigna... Ciò che la terra produrrà durante il tuo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto essa produrrà» (vv. 4-7; cf. pure Es 23,10-11; Dt 15,1-11);
    • che il comando è dato in forma di imperativo apodittico o incondizionato che, appunto perché tale, è assoluto, nel senso che nessuna situazione o ragione può annullarlo o relativizzarlo. Tale assolutezza emerge soprattutto dal fatto che a dare questo imperativo è Dio stesso: «Il Signore disse ancora a Mosè sul monte Sinai: «Parla agli israeliti e riferisci loro...» (Lv 25,1). Ciò vuol dire che la libertà, per la Bibbia, non diversamente dalla uguaglianza e dalla fraternità, non appartiene all'ordine del fattuale ma del prescrittivo. Per essa non esiste la libertà ma la responsabilità alla quale si è convocati per istituirla;
    • che il soggetto di questo imperativo non è solo il collettivo ma soprattutto il singolo nella sua unicità irripetibile. Leggendo il capitolo 25 del Levitico si rimane sorpresi per il passaggio continuo dalla for-
    ma singolare dei verbi («conterai», «farai squillare», «ciascuno tornerà in possesso del suo», «regolerai l'acquisto», ecc.) a quella plurale («farete», «dichiarerete», «sarà per voi», «non farete», ecc.). Questo continuo passaggio dal «tu» al «voi» e dal «voi» al «tu», più che essere il segno di una malriuscita cucitura di fonti e tradizioni di diversa derivazione, è la traccia della maturazione della coscienza d'Israele per la quale ogni processo vero di liberazione non inerisce al collettivo e alle sue strategie di cambiamento ma all'io nella sua singolarità di fronte all'altro del quale è chiamato a farsi responsabile;
    • che il termine ebraico corrispondente all'italiano «liberazione» («proclamerete la liberazione») è deror che i LXX traducono con aphesis e che la Vulgata con remissio e, a volte, indulgentia. Si tratta di un termine/categoria assolutamente importante che costituisce come il filo conduttore che dal giubileo ebraico porta al giubileo cristiano e attraverso il quale il Nuovo Testamento legge la vicenda di Gesù che dona la sua vita sulla croce «in remissione» dei peccati (Mt 26,28) e che, dopo la sua risurrezione, invia i suoi a proclamare nel suo nome la «remissione» dei peccati (Lc 24,27). Re-missio etimologicamente vuol dire «ri-messa», «ri-collocamento», «ri-costituzione» o «re-integrazione» di una cosa o di un soggetto nella sua situazione originaria. Il giubileo è la ricollocazione del mondo – il mondo che l'ebreo abita e in cui abita insieme ad altri – nella situazione originaria della creazione.
    Oltre ad annunciare la «liberazione per tutti i suoi abitanti», il testo del Levitico esplicita in cosa questa debba consistere praticamente:
    • nel riposo della terra: «Non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo; esso vi sarà sacro («inviolabile»); potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi [non lavorati] » (v. 1112). Si tratta di un imperativo capitale che, comandando il sabato della terra, che viene sottratta al dominio e allo sfruttamento, istituisce l'interruzione del rapporto di possesso dell'uomo con il mondo, sospendendo la sua volontà come volontà ultimamente di appropriazione;
    • nella remissione dei debiti: «In quest'anno del giubileo ciascuno tornerà in possesso del suo» (v. 13). Comandando di annullare l'indebitamento che i poveri avevano contratto pignorando i loro beni, il testo del Levitico istituisce l'azzeramento delle ingiustizie e sperequazioni sociali, interrompendo i meccanismi di pauperizzazione come destino o ana'nke [= necessità];
    • nella restituzione agli antichi proprietari di terreni o case: «Concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo. Se il tuo fratello, divenuto povero, vende una parte della sua proprietà...(e) non ha chi possa fare il riscatto... Se non trova da sé la somma sufficiente, ciò che ha venduto rimarrà al compratore fino all'anno del giubileo; al giubileo il compratore uscirà e l'altro tornerà in possesso del suo patrimonio» (vv. 24-28). Comandando di restituire la proprietà venduta – una seconda modalità di indebitamento più grave della precedente che consisteva nel vendere il proprio appezzamento di terreno o casa – il giubileo ebraico istituisce l'interruzione del processo di capitalizzazione incontrollato, mettendo in crisi la logica commutativa come logica intrascendibile e instaurando la solidarietà come legge ultima della coesistenza umana: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te. Non prenderai da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fa vivere il tuo fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura. Io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dal paese d'Egitto, per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio» (vv. 35-38);
    • nella liberazione degli schiavi: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo; sia presso di te come un bracciante, come un inquilino. Ti servirà fino all'anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri. Perché essi sono miei servi, che ho fatto uscire dal paese d'Egitto; non. debbono essere venduti come si vendono gli schiavi» (vv. 39-42). Comandando di rimandare liberi gli schiavi – la modalità di indebitamento più radicale cui ricorreva, vendendo se stesso, chi non aveva più né appezzamento di terreno o casa (un equivalente oggi può essere il caso di chi, per sopravvivere, è costretto a vendere un polmone o un rene!) – il giubileo ebraico istituisce l'interruzione del processo di alienazione o disumanizzazione, di cui l'indebitamento e la capitalizzazione sono le due figure più evidenti, infondendo la coscienza che non esiste situazione umana di gerarchizzazione e di ingiustizia che non possa essere modificata.

    c) La ragione della liberazione
    Ma più che dall'affermazione della liberazione («proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti»), il centro del racconto del Levitico è occupato dalla ragione con la quale Dio la motiva: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (in ebraico: gherim vetoshavim; nei LXX: proselitoi kai paroikoi; nella Vulgata: advenae et coloni).
    C'è una interpretazione «ellenizzata» di questo celebre versetto biblico che lo fraintende completamente ed è quella secondo cui l'uomo è forestiero sulla terra perché la sua vera patria non è questa ma un'altra: quella celeste verso la quale tende e rispetto alla quale la terra se non un carcere, come voleva Platone con il suo dualismo, è però una «tappa» o uno «scalino». Questa lettura, che inizia già con Filone d'Alessandria, sarà fatta propria e radicalizzata dalla tradizione cristiana che leggerà e ancora legge la sua permanenza nel mondo come un momento intermedio per il cielo o come il momento penultimo rispetto a Dio che è l'ultimo.
    In realtà altra è l'interpretazione del testo del Levitico per il quale l'uomo è nella terra «forestiero» e «inquilino» non perché questa non è la sua vera patria, bensì perché questa non gli appartiene, essendo il suo proprietario Dio che ne rivendica il diritto: «La terra è mia». Se «proprietario» della terra è Dio, ne consegue che l'uomo può solo starci non con la coscienza di chi se ne appropria, dicendo «è mio», bensì con la coscienza di chi sa che gli è data, riconoscendo «è tuo, ti ringrazio»; può starci solo cioè con la coscienza di chi è ospite il quale ha tutto ma nella modalità non dell appropriazione bensì della donazione. In una parola: l'uomo è, nel mondo, «forestiero» e «inquilino» perché egli vi può stare solo nella modalità di chi accetta di essere ospitato. Una traduzione pertanto che volesse essere fedele al tenore del testo originario dovrebbe suonare: «Le terre non si potranno vendere per sempre perché la terra è mia e voi siete presso di me come ospitati che, per questo, non possono rivendicarne il possesso ("forestieri") pur abitandola e fruendone pienamente ("inquilini")».
    Appunto perché l'uomo vive nella terra come «ospite», in quanto ospitato da Dio che ne è l'ospitante, deve vigere su di essa un'uguaglianza radicale e le eventuali differenze che, sul piano fenomenico e storico, si istituiscono non possono essere assolutizzate ma vanno rela-
    tivizzate. Quando si è invitati ad un banchetto, infatti, non contano le differenze di partenza, l'avere molto, poco o niente, bensì l'essere og- getto della sollecitudine di chi invita e invitando costituisce tutti ugua- li - l'uguaglianza della fraternità e della sororità! - al di là delle pur legittime differenze. La ragione profonda che sottostà al giubileo ebraico e alla sua volontà di istituire una liberazione radicale riguardante non solo l'uomo ma gli stessi animali, con il divieto di servirsene come «strumento lavorativo», e la stessa terra, con il divieto di lavorarla, va individuata proprio qui: nella consapevolezza che, nel mondo, si è ospiti e, in quanto ospiti, tutti sovranamente liberi ed uguali.

    2. Proposta interpretativa

    a) L'orizzonte della grazia o gratuità
    Sempre nel capitolo 25 del Levitico, dopo il comandamento divino a istituire «lo shabbat della terra», a interrompere con essa cioè il rapporto di lavorazione («non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate»: v. 11), Dio stesso previene l'obiezione che sale dalla voce della logica e del buon senso: «Se dite: Che mangeremo il settimo anno, se non semineremo e non raccoglieremo i nostri prodotti?, io disporrò in vostro favore un raccolto abbondante per il sesto anno ed esso vi darà frutti per tre anni. Lottavo anno seminerete e consumerete il vecchio raccolto fino al nono anno; mangerete il raccolto vecchio finché venga il nuovo» (vv. 20-22). L'anno giubilare, come l'anno sabbatico, istituendo lo shabbat della terra che viene sottratta al possesso e al dominio umano, istituisce un ordine che è quello della grazia dove l'io vive non in forza di ciò che egli produce (dal momento che durante l'anno sabbatico è impossibile ogni tipo di produzione), bensì in forza di ciò che Dio gli dona indipendentemente da ogni sua forma di produzione: «Se dite: Che mangeremo?... io disporrò in vostro favore un raccolto abbondante... per tre anni». Il senso profondo del giubileo ebraico è in questo orizzonte di gratuità che esso dischiude e costituisce e al cui interno si comprende perché per tutti gli abitanti della terra deve essere proclamata la «libertà» (deror, aphesis e remissio), rimandando gli schiavi e condonando i debiti.
    Il giubileo cristiano non solo assume questo orizzonte di grazia ma lo radicalizza, come, ad esempio, mostra la nota parabola matteana degli operai, dove la figura del «padrone» che compensa allo stesso modo i lavoratori della prima ora e quelli dell'ultima è disvelamento della logica della bontà smisurata – senza misura –. A coloro che denunciano la sua ingiustizia mormorando: «Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e tu li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo» il padrone risponde sovranamente: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure il tuo occhio è cattivo («tu sei invidioso» secondo la traduzione della CEI) perché io sono buono? Così gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi» (Mt 20,13-16). Abbiamo qui la definizione più profonda e scandalosa della gratuità: abolizione – piuttosto che sovvertimento – dell'ordine dove l'io si definisce per ciò che fa e instaurazione di uno spazio – lo spazio della donazione e della recettività – dove il prius è ciò che all'io viene fatto da un Tu che gli è extra e che lo ama.
    Anche se la pratica delle indulgenze, che motiva il sorgere del giubileo cristiano, era e resta profondamente ambigua, per cui la riforma protestante la bollerà come mercimonio, non va comunque dimenticato che la veritas teologica che in essa permane e ancora riluce al di là delle sue forme contraffatte, è la gratuità divina che, come vuole l'ebraismo con il suo mirabile principio della imitatio Dei, deve diventare modello per l'agire stesso umano.

    b) La gratuità recettiva o il mondo come dono
    Nel giubileo si esprime quindi una «visione» del mondo e delle relazioni da instaurarvi che può essere disegnata e tematizzata come gratuità o grazia. Gratuità innanzitutto recettiva, intesa come coscienza soggettiva che se l'io vive, vive non in forza di ciò che egli produce e realizza bensì in forza di ciò che gli è fatto e donato gratis da Dio. La Bibbia è il dispiegamento di questa gratuità recettiva che in Dio ha la fonte e in Israele, paradigma dell'umano, il destinatario ideale (ideale perché anche gli animali sono destinatari della gratuità divina, ma in quanto partecipano, per così dire, della relazione peculiare ed «eccezionale» tra Dio e l'uomo); ed è soprattutto la denuncia che, se la storia umana è di fatto storia di alienazione, cioè di ingiustizia e di violenza, ciò non è dovuto alla legge di natura e tanto meno alla volontà divina che, per la Bibbia, può essere solo volontà di bene, bensì alla negazione dell'ordine della gratuità da parte della volontà umana che, negandola, non solo nega l'ordine logico (come farebbe l'invitato che, di fronte al cibo che gli è donato, dicesse «è mio») ma perverte l'ordine reale, contraffacendolo e alterandolo, come vuole il racconto della caduta della Genesi nota come storia del peccato originale.
    Tra le modalità narrative attraverso le quali la Bibbia istituisce la gratuità come l'orizzonte escatologico, cioè ultimo, dell'umano c'è quella, ribadita dal Levitico, che consiste nell'affermazione che «la terra è di Dio» e che appartiene al nucleo stesso della rivelazione biblica per la quale Dio libera Israele dall'Egitto e istituisce con esso l'alleanza sul monte Sinai per introdurlo nella terra «promessa»: terra che non appartiene ad Israele ma a Dio, il quale ne dispone sovranamente sottraendola agli altri popoli e donandola ad Israele. In uno dei testi più centrali del Pentateuco, ritenuto dagli studiosi la «professione di fede» di Israele ed entrato a far parte del seder di Pasqua, il testo liturgico più importante dell'ebraismo, si legge:

    Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio ti darà in eredità e lo possederai e là ti sarai stabilito, prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nel paese che il Signore tuo Dio ti darà... ti presenterai al sacerdote e gli dirai: Io dichiaro oggi al Signore tuo Dio che sono entrato nel paese che il Signore ha giurato ai nostri padri di darci... Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione. Il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese dove scorre latte e miele... (Dt 26,1-11).

    Affermando che la «terra è di Dio» e comandando ad Israele di riconoscere che il paese dove egli vive nell'abbondanza («dove scorre latte e miele») gli è dato da Dio, la Bibbia non fa un'affermazione «mitica», nel senso deteriore di chi l'intende come ingenua e razionalmente insostenibile, ma dischiude il senso ultimo del mondo come suo dono al bisogno e alla felicità umana e il senso ultimo dell'umano come destinatario di questo dono in cui si trascrive e visibilizza la sua sollecitudine e il suo amore.
    Il senso primo del giubileo ebraico è di affermare che l'esistere e il coesistere degli umani si radica sull'evento del gratuito e che, al di là dei sistemi organizzativi e produttivi di cui ogni società non può fare a meno, c'è questo «di più» che li trascende e che, mentre li esige come oggettivazione necessaria, li relativizza denunciandone l'insufficienza e l'ambiguità.

    c) La gratuità attiva o giustizia
    L'affermazione che il mondo è «dono» e che in esso Israele vi è ospitato trascende, però, per la Bibbia ebraica, il livello cognitivo («so che tutto è grazia» e «sono grato per quello che mi è dato») e tocca il soggetto umano ad un livello più profondo ricreandolo come soggetto solidale: perché quella gratuità o disinteressamento che è dentro il mondo non gli si offre come un contemplabile («guardami» e «riconoscimi»), bensì come comandamento («imitami», «sii quello che io sono»).
    È a questo livello che l'affermazione biblica, secondo cui «la terra è di Dio» e in essa «Israele è «forestiero» e «inquilino», svela il suo senso ultimo. Con essa la Bibbia non intende promuovere un'operazione «logica» o «contemplativa» la cui realtà si esaurisce nello spazio della soggettività e dell'interiorità bensì instaurare l'orizzonte della solidarietà o amore gratuito dove il rapporto con i beni della terra non è il possesso ma la condivisione e dove il soggetto si vive come soggetto che, ospitato, si sente chiamato ad ospitare.
    Il termine che, nella Bibbia, corrisponde alla soggettività ospitale è zedaqah, la giustizia, la categoria che, per G. von Rad, costituisce l'asse portante dell'Antico Testamento e per E. Lévinas il cuore stesso della rivelazione biblica e di tutto l'ebraismo. La produzione teorica di questo grande filosofo francese è stata di disegnare un «nuovo pensiero» (das Neue Denken, per riprendere la terminologia di E Rosenzweig) che, come vuole il profetismo, innalzi al suo centro la giustizia intesa non come legge universale e impersonale bensì come relazione gratuita e asimmetrica nei confronti dell'«orfano», del «povero», della «vedova» e del «nemico». Nel capitolo 58 di Isaia, letto nel giorno di yom kippur, giorno caratterizzato dal grande digiuno e con il quale inizia l'anno giubilare, Dio rivela, attraverso il profeta, qual è l'agire autentico che gli è gradito:

    Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza mai sottrarti a quelli che sono proprio come la tua propria carne? Allora la tua luce sorgerà come l'aurora, la tua ferita si rimarginerà presto, davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà; implorerai aiuto ed egli ti dirà: «eccomi» (Is 58,5-9).

    Il giubileo con il quadruplice comandamento di non lavorare la terra – per lasciare ai poveri di nutrirsi di ciò che su di essa fiorisce spontaneamente – di liberare gli schiavi, di restituire terreni e case ai proprietari originari e, nella sottolineatura cristiana, di perdonare i nemici, è un modo di ricordare e incarnare il principio giustizia sul quale, per la Bibbia, si regge il mondo e senza il quale minaccia in ogni istante di riprecipitare nel caos, nel tohu-va-bohu antecedente la creazione.
    Non solo. Mentre ripropone la giustizia come orizzonte dell'umano, il giubileo ebraico annuncia e custodisce la condizione di possibilità per il suo realizzarsi: l'accesso alla logica del gratuito dove, come nel giardino dell'Eden, vige il divieto del possesso e della «miità». Un midrash vuole che, ogni qualvolta l'ebreo pronuncia la benedizione prima di mangiare (benedizione che consiste nel sottrarre il pane alla volontà di possesso di chi lo mangia per affermarne lo statuto di dono: «Benedetto tu, Signore nostro Dio, re dell'universo che estrai il pane dalla terra»), essa abbia il potere di suscitare angeli benefici, capaci di combattere gli spiriti maligni che si interpongono tra il cibo e gli affamati. Commenta E. Lévinas:

    Immagini di una retorica antiquata, e nient'altro? A meno che non siano una descrizione della incantevole società in cui viviamo, società della libera concorrenza e delle contraddizioni capitalistiche. Se si è d'accordo con quest'ultima proposta, si capisce meglio l'accostamento della benedizione alla battaglia. Ma come fa la benedizione a creare combattenti per la buona causa?'

    E subito continua:

    Non arrestiamoci alle immagini. È evidente che qui ci vengono proposte lotte pacifiche: il problema della fame nel mondo non si può risolvere se non a patto che il cibo non sia più considerato dai possidenti e dagli agiati una loro proprietà inalienabile, ma sia riconosciuto come un dono che si riceve, di cui si deve ringraziare e a cui gli altri hanno diritto. La penuria non è soltanto un problema economico, è un problema morale e sociale... occorre che ci sia un nazireato - una fonte di disinteresse - perché gli esseri umani mangino. Far mangiare quelli che hanno fame esige una elevazione spirituale... E inversamente, nutrire il mondo è un'attività spirituale (ivi).

    3. Conclusione

    Forse mai come oggi si è in grado di capire il grande dono di senso custodito nella istituzione e nella pratica giubilare, perché, nel processo di globalizzazione in atto, mai come oggi si assiste da una parte alla concentrazione dei capitali, dei beni, dei saperi e delle tecnologie in aree sempre più privilegiate del cosiddetto primo mondo, dove - è stato scritto - un cane consuma diciassette volte di più di un bambino del terzo mondo, dall'altra si assiste impotenti all'aumento di poveri, affamati, sottoccupati, disoccupati marginali, disgraziati esclusi e schiacciati dalle logiche del profitto e del mercato.
    In uno degli ultimi numeri della rivista internazionale «Concilium», dedicato a «Il ritorno delle grande piaghe», cioè dei grandi mali che affliggono l'umanità alla fine del XX secolo, Jung Mo Sung, un teologo coreano che vive in Brasile e lavora sui rapporti tra teologia ed economia, denuncia la strana logica che presiede all'economia di mercato per la quale è bene quello che una volta veniva considerato male e male quello che veniva ritenuto bene, come ad esempio assicurare piena occupazione, impiantare politiche sociali di sradicamento della povertà, superare le esclusioni sociali e diminuire le disuguaglianze sociali, che oggi invece sono considerate un affronto alla libertà di mercato e un intralcio alla competizione e alla modernizzazione. «Fuori del mercato non c'è salvezza»: è questo per Jung Mo Sung, il nuovo fondamentalismo, più insidioso e devastante del fondamentalismo stesso dei gruppi religiosi integralisti [3].
    Il giubileo ebraico è la messa in questione di questo fondamentalismo e impedimento alla sua pretesa di assolutizzazione e totalizzazione. Interrompendo la logica del «lavoro», del «mio» e dell'«appropriazione» e istituendo la priorità degli ultimi - debitori e schiavi - il giubileo ebraico è istanza critica che dentro le società costituite, vieta la rassegnazione alla peste della ingiustizia e della violenza. Esso denuncia come disordine qualsiasi sistema o ordine che non si lascia ridefinire dal grido degli affamati e degli emarginati e smaschera come idolatrica, cioè come fuga ed illusione, qualsiasi concezione del divino vissuto e tematizzato come consolazione invece che come elevazione alla responsabilità e alla giustizia. Sempre come scrive Lévinas:

    Porre il trascendente come straniero e come povero significa impedire alla relazione metafisica con Dio di attuarsi nell'ignoranza degli uomini e nelle cose. La dimensione del divino si apre a partire da volto umano. Una relazione con il Trascendente... è una relazione sociale. Solo qui il Trascendente, infinitamente Altro, ci sollecita e si fa appello a noi [4].


    NOTE

    1 B. CARUCCI, Il giubileo. Una lettura ebraica, in «Italia Francescana» 72 (1997) 3, p.14.
    2 E. LÉVINAS, Dal sacro al santo, Città Nuova, Roma 1985, pp. 76-77.
    3 J. MO SUNG, Il male nella mentalità del libero mercato, in «Concilium» 33 (1997) 5, pp. 46-57.
    4 E. LEVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1980, p. 76.


    NOTA BIBLIOGRAFICA

    AA.VV., Il giubileo. Storia e pratiche dell'anno santo, Vallecchi, Firenze 1995;
    B. CARUCCI, Il giubileo. Una lettura ebraica, in «Italia Francescana» 72 (1997) 3, pp. 11-40;
    C. DI SANTE, Il grande giubileo del 2000, Edizioni Lavoro-Editrice Esperienze, Roma 1998;
    ID., Responsabilità. L'io-per-l'altro, Edizioni Lavoro-Editrice Esperienze, Roma 1996.

    (Fonte: Credere oggi, 19 (2/1999), n. 110, pp. 21-33.


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