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    Il dialogo interreligioso:

    una speranza per la

    liberazione dei poveri

    Carlo Molari


    Dopo un periodo di depressione attraversato alla fine del secolo scorso, la teologia della liberazione latinoamericana [1] ora sta fiorendo in una nuova primavera sotto il pungolo del dialogo interreligioso o macroecumenico, come alcuni teologi di quel continente preferiscono chiamarlo [2]. Nella sua prima fase, dagli anni Settanta in avanti, la teologia latinoamericana non aveva dato importanza al dialogo con le altre religioni e ai problemi teologici conseguenti. Si era quindi sviluppata nella convinzione tradizionale che la salvezza venisse offerta, in modo pieno, esclusivamente dalle Chiese cristiane, mentre le altre religioni erano considerate strumenti solo in quanto partecipi in qualche misura dei valori cristiani. È stato l'incontro con le religioni precolombiane in occasione della celebrazione del 500° anniversario della "scoperta" delle Americhe (1992) e successivamente il pungolo dei teologi asiatici nell'ambito dell'Associazione dei teologi del Terzo Mondo, a sollecitare la presa di coscienza dei teologi latinoamericani, che il dialogo con le altre religioni costituisce una componente essenziale della vita ecclesiale e quindi della riflessione teologica. Essi hanno così scoperto un ambito specifico di riflessione nelle tradizioni religiose dei loro popoli, soprattutto quelli di origine india o africana [3], e hanno preso coscienza di avere già esercitato, attraverso altre strade e con altri intenti, il dialogo con esperienze religiose e culture diverse da quella cristiana e quindi di avere già sviluppato una certa teologia delle religioni [4].
    Posta ora in modo consapevole di fronte al pluralismo religioso, la teologia latinoamericana è partita dalla legittima convinzione che anche le altre religioni, pure molto diverse dalla tradizione cristiana, possono costituire l'ambito dove la Parola di Dio e la forza dello Spirito hanno suscitato nel passato e suscitano tuttora esperienze spirituali preziose. Esse quindi non solo hanno una funzione salvifica per coloro che vi fanno parte, ma sono anche in grado di costituire uno stimolo per il cristianesimo, con l'offerta dei doni fioriti nella loro tradizione.
    Quando la Chiesa prende coscienza di questa situazione, il dialogo interreligioso diventa per lei un'esigenza imprescindibile. Si tratta infatti di riconoscere e accogliere quei beni spirituali che altre tradizioni hanno sviluppato per camminare insieme verso traguardi inediti di fraternità, di giustizia e di pace, offrendo quei beni che la tradizione cristiana nei due millenni della sua storia ha sviluppato.
    In ambito cristiano l'incontro con altre religioni in senso positivo era già iniziato da tempo, ma in forme ristrette e riservate a piccoli ambiti di credenti, soprattutto monaci e persone di elevata spiritualità. I primi atti pubblici e solenni celebrati già alla fine del secolo XIX suscitarono sospetti e reazioni negative nelle Chiese, anche perché non sempre accompagnati da un corredo teologico adeguato. I rischi paventati erano da una parte il relativismo e dall'altra il sincretismo. Questi timori sono riemersi quando i cambiamenti sociali e culturali hanno reso necessario un confronto inedito.
    In queste nuove condizioni le riflessioni sono già state impostate con rigore dalla teologia asiatica ed europea e hanno già trovato riflessi notevoli nei documenti del Magistero cattolico, che pure ha indicato limiti e ha avanzato riserve nei confronti di alcune impostazioni dottrinali e di iniziative pratiche. Il cammino della riflessione teologica, infatti, non procede in modo sempre spedito e armonico. Esige a volte confronti rinnovati e sollecita il ricupero non sempre facile di tradizioni.
    Vale la pena perciò richiamare alcune acquisizioni della teologia e indicare i problemi ancora aperti per offrire una chiave di lettura agli studi stimolanti raccolti nel presente volume.

    Il progetto di teologia del pluralismo religioso in prospettiva di liberazione

    Questo volume è il secondo di cinque programmati dalla Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo per realizzare un avvio di teologia del pluralismo religioso in prospettiva di liberazione [5]. I cinque volumi preventivati nella collana intendono percorrere tre tappe. La prima è limitata alla teologia della liberazione latinoamericana per delineare la linea di riflessione pluralista e pervenire con il terzo volume alla stesura di una teologia latinoamericana pluralista della liberazione. La seconda tappa vuole estendersi a tutti gli ambiti della teologia della liberazione ed offrire una sintesi completa di una teologia cristiana pluralista della liberazione (quarto volume). La terza tappa, infine, vuole tentare una teologia pluralista interreligiosa in prospettiva di liberazione. Essa vorrebbe offrire un'interpretazione del pluralismo risultante dalla confluenza di riflessioni provenienti dalle diverse esperienze religiose. Come esistono tentativi di una teologia ecumenica cristiana e la proposta di una teologia interreligiosa [6], così si avrebbe una teologia interreligiosa e pluralista della liberazione.
    Il primo volume Sfide del pluralismo religioso alla teologia della liberazione [7] ha esaminato i problemi che sorgono all'interno della teologia latinoamericana dal rapporto con le altre religioni e dall'esercizio del dialogo. Questo secondo volume vorrebbe affrontarli offrendo schemi di risposta nei diversi ambiti, per la costruzione di un nuovo paradigma teologico e per far compiere un passo avanti alla teologia latinoamericana in prospettiva interreligiosa.
    I teologi della liberazione, infatti, pensano che la teologia delle religioni e anche quella pluralista, come si è sviluppata nel mondo occidentale, non abbia tenuto conto in modo adeguato della condizione dei poveri del mondo. Per questo giudicano urgente avviare un nuovo capitolo di riflessione che definiscono teologia pluralista delle religioni in funzione della liberazione dei poveri. In tale compito credono, giustamente,
    di poter dare un contributo specifico accanto a quello offerto dai teologi africani e asiatici.
    Gli scritti qui raccolti rappresentano i primi passi di questo cammino. Non tutti hanno lo stesso valore; alcuni, infatti, presentano le problematiche senza offrire indicazioni positive di soluzione. Altri riprendono le soluzioni già anticipate nel primo volume. Non tutti, inoltre, tengono conto degli studi compiuti dalla teologia europea e asiatica in questo ambito. In alcuni capitoli essi vengono riconosciuti e utilizzati, ma in altri sono completamente trascurati. La teologia latinoamericana della liberazione ha un apporto specifico da dare al cammino teologico delle chiese, ma perché possa essere inserito in modo proficuo nel cammino ecclesiale, deve tener conto del lavoro già compiuto, dato che non può esistere oggi una teologia autosufficiente.
    Vorrei riprendere alcuni temi principali affrontati, per offrire una chiave di interpretazione delle problematiche esaminate. Non sempre, infatti, ai problemi posti con entusiasmo e chiarezza vengono date indicazioni sufficienti per una risposta. Il rifiuto delle formule tradizionali spesso è enfatizzato e acquista un rilievo molto più grande della proposta positiva, a volte completamente assente.
    Per il lettore italiano, poi, aggiungo anche qualche riferimento a pubblicazioni in lingua italiana per consentire un approfondimento di tematiche oggi urgenti. I problemi esaminati, infatti, non sono ancora tutti sufficientemente maturi nella loro impostazione e non possono perciò avere soluzioni se non dopo prolungata riflessione e dialogo attento. Esercitare la pazienza del tempo porta a conclusioni molto più complete e prudenti, ad un metodo più rigoroso e ad una maggiore fedeltà alla tradizione. Non sempre gli autori dei capitoli di questo volume ne hanno tenuto conto. Ciò appare in particolare a proposito di alcuni problemi. Richiamo quelli che considero più significativi: la terminologia del pluralismo, la cristologia, la Chiesa e la missione.

    Pluralismo

    Per inquadrare il problema e chiarire la terminologia usata proporrei [8] di considerare gli esiti delle accese discussioni degli ultimi decenni sul valore delle religioni in quattro modelli: esclusivismo, inclusivismo, pluralismo convergente e pluralismo relativista [9].
    I due estremi, oggi generalmente rifiutati in ambito cristiano, se si escludono ambienti radicali nell'uno e nell'altro senso, sono l'esclusivismo e il pluralismo relativista [10]. Il primo sostiene che solo i cristiani (o, per alcuni, solo i cattolici) possono pervenire a salvezza perché riconoscono Cristo, che è l'unico salvatore e appartengono alla Chiesa, considerata come la sola agenzia salvifica nel mondo [11]. Il pluralismo relativista afferma, invece, che tutte le religioni in ordine alla salvezza si equivalgono perché ciascuna traduce in modo diverso e in forme culturali proprie lo stesso nucleo essenziale, sufficiente per la salvezza. Mediatori di salvezza, perciò, sono ugualmente tutti coloro che hanno suscitato movimenti religiosi nella storia umana.
    Le opinioni più diffuse in ambito cristiano oggi sono l'inclusivismo e il pluralismo convergente.
    Gli inclusivisti, attualmente i più numerosi nelle comunità cristiane, pensano che tutti i beni salvifici delle religioni siano già presenti nel cristianesimo e siano comunicati a loro da Cristo, spesso anche attraverso l'azione della sua Chiesa [12].
    Presentano diverse interpretazioni del rapporto religioni/Cristo e religioni/Chiesa. Una prima forma ritiene che il compimento dei valori religiosi sia stato realizzato nel Gesù storico, per cui tutto ciò che in frammenti si trova altrove, si crede che debba essere già stato vissuto e presentato in pienezza da Cristo e possa anche essere rinvenuto nella Chiesa in modo compiuto (inclusivismo costitutivo) [13]. Una seconda modalità di inclusivismo presenta Cristo e/o la Chiesa come la norma definitiva per giudicare le altre forme religiose, per cui chi segue Cristo o in quanto appartiene alla Chiesa possiede il metro di valutazione per cogliere il bene presente nelle altre religioni e per individuarvi insufficienze ed errori (inclusivismo normativo) [14]. Una terza modalità riconosce una presenza attiva del Cristo glorioso o del Cristo cosmico nelle esperienze religiose dell'umanità, per cui tutte le ricchezze che si possono trovare nelle varie religioni sono ricondotte all'azione di Cristo e del suo Spirito (inclusivismo trascendente) [15]. Alcuni di costoro estendono in modo implicito o esplicito tale centralità salvifica anche al Gesù storico.
    I pluralisti convergenti sostengono che unica è la Parola rivelatrice e salvifica di Dio, come unico è lo Spirito divino che alimenta i processi della storia salvifica, ma molti sono i mediatori storici della salvezza e molte quindi sono le religioni salvifiche, anche se fra di esse vi sono notevoli differenze. I cristiani attraverso Gesù accolgono la Parola di Dio in una forma molto ricca, ma non ancora piena, compiuta e definitiva. Essi attendono, infatti, il compimento che si realizza progressivamente nella storia attraverso il dono dello Spirito che li conduce "alla verità tutta intera" (Gv 16,13). La ricchezza contenuta nell'evento Gesù e nell'annuncio del Regno con cui Egli ha iniziato la sua missione storica è talmente grande e profonda che non sono bastati duemila anni per svilupparla interamente e fino alla fine dei tempi ci saranno verità da acquisire e traguardi di santità da raggiungere. In questo cammino i cristiani hanno finalmente incontrato le altre esperienze religiose come ambiti attraverso i quali lo Spirito completa l'opera avviata da Gesù. I discepoli di Gesù, infatti, nella fedeltà alla loro tradizione sono in grado di cogliere le numerose sintonie con le altre parole storiche [16].
    Appare quindi evidente la necessità di distinguere con chiarezza tra il pluralismo relativista e il pluralismo convergente. Il primo considera le religioni compiute in sé stesse mentre il secondo le considera bisognose dell'apporto delle altre tradizioni religiose. Il primo considera le diverse religioni ugualmente significative in ordine alla salvezza, mentre il secondo sottolinea le molte differenze esistenti tra di esse. Il primo considera le religioni autosufficienti in ordine alla salvezza di tutti gli uomini, mentre il secondo le giudica valide solo all'interno di una determinata cultura e tradizione. Il primo considera il dialogo soprattutto come atteggiamento pratico per la realizzazione di progetti di pace e di giustizia nel mondo, mentre il secondo giudica il dialogo assolutamente necessario per il cammino salvifico della religione stessa.
    Queste distinzioni non sono utilizzate in modo coerente in questo volume. Lo stesso P.F. Knitter (un europeo che insegna a Cincinnati, USA), nel quinto capitolo imposta il dialogo tra la teologia della liberazione e la teologia del pluralismo religioso indicando nel nucleo mistico il dato comune a tutte le religioni: «Il rapporto tra religione e misticismo ci permette di intendere, più chiaramente e profondamente, tanto la nostra identità religiosa quanto quella degli altri. Questa affermazione implica che essere profondamente religioso significa essere ampiamente religioso. Quanto più penetro nella fonte mistica della mia religione, tanto più apprezzerò la fonte della tua religione» [17]. Queste osservazioni sono giuste, ma non risolvono il problema del rapporto da stabilire anche nell'ambito delle differenze e la consistenza delle differenze storiche che rendono necessario il dialogo e lo scambio di ricchezze spirituali. Spesso, perciò, parlando di pluralismo ci si riferisce al pluralismo relativista senza avvertire altre possibili soluzioni prospettive. [18]

    Cristologia

    Dalle riflessioni fatte sul pluralismo appare con chiarezza che il tema cristologico è il nodo centrale della teologia delle religioni [19]. Ma sarebbe errato semplificarlo ingenuamente e radicalizzarlo come si fa in alcune pagine di questo volume.
    Il problema per i cristiani sorge come conflitto tra la convinzione dell'unicità salvifica di Gesù Cristo, cui corrisponde la mediazione necessaria della Chiesa, legata anche al concetto di incarnazione e, dall'altra parte, la nuova sensibilità, maturata nel confronto con le diverse culture e nel dialogo con le altre religioni.

    Unico Salvatore

    L'unicità salvifica di Gesù è presentata in chiare formule bibliche: «In nessun altro c'è salvezza. Non vi è infatti, altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12); «Dio, nostro salvatore... vuole che tutti gli uomini siano salvati. Uno solo, infatti è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1Tim2,4-5). Certamente queste affermazioni riflettono le convinzioni maturate dagli apostoli e riportate fedelmente da Luca per l'affermazione di Pietro e dall'autore della lettera a Timoteo. Non siamo obbligati a pensare come i primi discepoli, ma dobbiamo sempre partire dalla loro testimonianza per scoprire la verità emersa attraverso la loro esperienza di fede, da formulare attraverso la nostra esperienza e l'ascolto della Parola di Dio risuonata lungo i secoli della Chiesa. Siamo in grado così di scoprire nelle stesse loro parole della tradizione verità più ampie e più ricche di quelle espresse nel passato. Dobbiamo tenere conto del loro modo di interpretare gli eventi, ma sappiamo che lo Spirito ci sollecita verso la verità tutta intera, partendo dalla stessa esperienza di fede. In questo modo oggi la Chiesa è giunta alla convinzione che l'unica mediazione del Verbo eterno e dello Spirito di Dio (e quindi di Cristo glorioso) che i discepoli di Gesù, per la comunicazione degli idiomi, attribuiscono al Gesù storico, si rifrange attraverso molte altre strutture religiose, per cui la Chiesa oggi riconosce che di fatto esistono nella storia umana molti mediatori di salvezza e molte strutture religiose, che non hanno rapporto diretto con il Gesù storico. Su questo tema la teologia cristiana ha fatto un lungo cammino che si è ramificato in sentieri diversificati. La riflessione che viene proposta in questo volume è a volte eccessivamente semplificatrice e non tiene conto delle acquisizioni dei teologi e dello stesso magistero ecclesiastico.
    José María Vigil, che si è assunto il gravoso incarico di scrivere il capitolo cristologico, dopo che molti altri avevano rifiutato [20], si mostra consapevole delle difficoltà e avverte che non intende «dare risposte complete e definitive a queste sfide, semplicemente perché forse tali risposte non esistono nemmeno». Egli parte dalla convinzione che «siamo in un tempo di ricerca, di recezione delle sfide e di prima elaborazione, di rielaborazione delle formule tradizionali, e siamo appena all'inizio, soprattutto nella teologia della liberazione» [21]. Anche il benedettino Marcelo Barros sviluppa un capitolo cristologico. Lo fa in chiave afro-amerindia e in uno stile molto particolare, dato che, forse per muoversi con maggiore libertà, assume la forma di preghiera [22]. Tuttavia i riferimenti che essi utilizzano sono incompleti e troppo datati. La riflessione teologica è andata oltre, e ha raggiunto traguardi più chiari. Alcune affermazioni poi sono inesatte e altre approssimative o unilaterali.
    Certamente, ad esempio, dal punto di vista storico non è esatto dire che «la Chiesa nel secolo V sostituì i quattro vangeli con i quattro concili ecumenici» [23], tanto meno questo è un argomento per mettere in dubbio il valore delle definizioni dogmatiche. Esse devono essere interpretate, ma partendo dal loro significato normativo. Nascono infatti dall'esperienza della Chiesa attraversata dall'azione dello Spirito, anche se è espressa attraverso i modelli culturali del tempo ed esige quindi una riformulazione, che è stata affrontata dal punto di vista storico e teologico, ben prima della teologia delle religioni. Non credo sia esatta, perciò, l'affermazione «la teologia del pluralismo religioso, da parte sua, chiede una riconsiderazione, un riesame» [24] del nucleo dogmatico, cristologico come è stato riformulato dai primi quattro concili. La cristologia in questo senso è già pervenuta ad un assetto delle formule cristologiche utilizzabile all'interno del dialogo interreligioso. Né credo sia esatto affermare che «la prassi, l'amore, le beatitudini, il Vangelo stesso... sono stati posposti al nucleo dogmatico nella consapevolezza cristiana abituale: per secoli, il credere con cieca e incrollabile adesione al dogma cristologico è stato considerato il fattore più importante della vita e della fede cristiane» [25].

    Incarnazione

    Un altro tema essenziale per una cristologia in prospettiva interreligiosa, qui trattato in modo inadeguato, è quello dell'incarnazione. Che il termine incarnazione sia una metafora, non vi è alcun dubbio. Che la metafora sia spesso intesa in senso non giusto e mitologico, ad es. come discesa di un essere celeste in forma umana, o come ingresso in un corpo in formazione di una persona divina, è ugualmente vero. Ma questi non sono motivi sufficienti per negare la realtà del profondo rapporto di Gesù con Dio, espresso appunto con la formula dell'incarnazione. In questo paragrafo Vigil procede in modo molto sommario e carente. Precisiamo i termini del problema.
    Prima di tutto si confonde l'incarnazione con il "racconto" della concezione e della nascita di Gesù. Scrive Vigil: «La cristologia della TL non è affatto ingenua riguardo ai generi letterari biblici né, concretamente, riguardo ai Vangeli dell'infanzia, ma non ha sentito la necessità di rivedere questo "megaracconto" dell'incarnazione. Inoltre, la TL è diventata famosa per la sua "ermeneutica del sospetto"... tuttavia la cristologia della liberazione non ha applicato tale atteggiamento critico o "ermeneutica del sospetto" al racconto dell'incarnazione» [26].
    Ora il modello incarnazionista non deriva dai racconti dell'annunciazione di Luca o della nascita di Matteo, bensì dal prologo del quarto Vangelo che delinea il cammino del Verbo eterno nella storia degli uomini fino a rivelarsi pienamente nella realtà umana di Gesù: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
    Inoltre si pensa all'incarnazione come ad un evento istantaneo, mentre è un processo attraverso cui nella successione degli anni la Parola divina diventa carne in Gesù: si esprime cioè, in pensieri, in desideri, in gesti umani di Gesù. L'incarnazione in questa prospettiva si sviluppa lungo tutta la storia di Gesù, il quale, accogliendo fedelmente la Parola del Padre e compiendo la sua volontà, giunge all'identità di Figlio di Dio. Nella risurrezione dei morti, secondo la formula di Paolo, Gesù «è stato costituito Figlio di Dio con potenza per opera dello Spirito» (Rom 1,4). Egli quindi nella sua natura umana non è diventato Figlio di Dio perché nato in modo miracoloso, bensì perché ha accolto con fedeltà la Parola del Padre fino ad esprimerla nel supremo atto di amore sulla croce. Lì è diventato «Spirito che dà vita» (1 Cor 15,45), ha donato lo Spirito che alimenta la vita dei figli; infatti «non c'era ancora lo Spirito perché Cristo non era ancora glorificato» (Gv 7,39). La nascita miracolosa eventualmente è un segno della sua elezione in ordine alla missione, ma non costituisce la sua realtà filiale.
    Il termine "incarnazione", perciò, è chiaramente metaforico; esprime, cioè, una realtà molto più profonda di un semplice evento miracoloso. Descrive infatti il rapporto che Gesù, nella sua fedeltà, ha vissuto lungo tutta la sua esistenza con il Padre al punto che Giovanni può esprimere la sua esperienza con le formule: «Non faccio nulla da me stesso» (Gv 8,28); «Le parole che io vi dico non le dico da me; ma il padre che è in me compie le sue opere» (Gv 14,10). Il fatto che il termine "incarnazione" sia metaforico non significa che non esprima una realtà. Anzi è proprio la metafora inventata da Giovanni che ha consentito lo sviluppo armonico della cristologia per la carica simbolica e la forza creativa che essa contiene. Appare molto ingenuo, perciò J.M. Vigil quando riferendosi a John Hick [27] afferma che «riesaminare il racconto dell'incarnazione per ridefinire il suo carattere realmente metafisico letterale o simbolico-metaforico, è una sfida alla quale la TL non ha finora prestato attenzione, ma dinnanzi a cui non può più restare indifferente. Probabilmente è stato per mancanza di tempo e per la "priorità della natura" che caratterizzavano fino ad oggi le maggiori urgenze della TL. Ma ora che la sfida è stata servita su un vassoio d'argento da un'altra teologia, non è più possibile continuare a non avere il tempo di affrontarla» [28].

    Figli di Dio nel Figlio

    La stessa riflessione vale anche per la formula "Figlio di Dio" in rapporto sia a Cristo che a noi. Nella tradizione cristiana, notevole rilievo hanno avuto la consapevolezza di una chiamata rivolta a tutti gli uomini per diventare figli di Dio e la spiritualità che ne consegue. Gesù stesso l'ha vissuta in modo singolare e l'ha istillata nei suoi discepoli con insegnamento chiaro e insistente. Egli, secondo la tradizione ebraica, ha insegnato a invocare Dio come Padre. La filiazione di cui Egli parla non è costituita semplicemente dall'essere creati a "immagine e somiglianza sua" (cfr. Gen 1,26 s.), anche se questo è il terreno su cui il nuovo germe dello Spirito viene seminato. Quella di cui parla Gesù, infatti, è una figliolanza che si realizza nel tempo e si esprime in atteggiamenti specifici, quali l'amore per i nemici e la misericordia per i fratelli. «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla... e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,35 s.); «Pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del vostro Padre celeste... Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 44. 45.48). Il cammino per diventare figli è un processo che tende a un compimento, che «non è stato ancora rivelato» (cfr. 1Gv 2,3) se non nell'anticipazione di Cristo risorto, per cui non sappiamo ancora che cosa saremo. Sappiamo però chequelli «degni dell'altro mondo e della risurrezione dai morti..., essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Lc 20,36) e che saranno «simili a Lui» (cfr. 1Gv 3,2).
    La figliolanza divina nell'ambito del medio giudaismo designa la fedeltà alla Parola di Dio o la qualifica di uomo giusto. Quella per cui l'empio nel libro della Sapienza afferma: «tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo... Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore... Proclama beata la fine dei giusti e si vanta di avere Dio per Padre. Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà» (Sap. 2,12a. 13.16-18).
    Proclamare quindi Gesù figlio di Dio da una parte non significa richiamare la figliolanza eterna del Verbo, come nelle formule dei secoli successivi, e dall'altra non implica un appiattimento della figliolanza divina al semplice ambito della creazione. La figliolanza divina, come è intesa nel Nuovo Testamento, è ricondotta ad una qualità o perfezione ulteriore che fiorisce quando la ricchezza del rapporto vissuto con Dio raggiunge un livello superiore, dato che Egli è fonte della vita e che «tutti vivono per Lui» (Lc 20,38).
    Marcelo Barros riporta la domanda che alcuni fedeli hanno rivolto ai monaci che avevano espresso la propria fede in "Gesù Cristo, figlio unigenito del Padre" e la risposta di un monaco: «Per la nostra fede, egli è il figlio unigenito, nel senso che è l'unico generato da Dio. Noi siamo figli adottati"» [29].
    La risposta del monaco è certamente sommaria e insufficiente. Sarebbe stata un'occasione per spiegare la differenza tra la generazione del Verbo, che è il Figlio eterno del Padre, rivelatosi in Gesù, e la generazione per grazia, che riguarda Gesù e in Lui anche tutti coloro che accolgono la Parola di Dio e lo Spirito che egli dona. La generazione dei figli da parte di Dio si era già realizzata prima della venuta di Gesù Cristo, là dove il Verbo eterno di Dio era stato accolto, come afferma Giovanni nel prologo del Vangelo: «A quanti però l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome: i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono generati» (Gv 1,12-13). Dopo la "venuta nella carne" e "l'effusione dello Spirito" la generazione dei figli si è estesa sempre più e costituisce la trama del nuovo popolo dell'alleanza.
    Quando, però, si tratta di determinare qual è il fondamento e la ragione per cui tutti coloro che accolgono la Parola sono chiamati figli di Dio, nel Nuovo Testamento i modelli utilizzati si diversificano. Paolo parla di adozione; Giovanni e Giacomo preferiscono il termine generazione, la seconda lettera di Pietro giunge ad affermare che «partecipiamo alla natura divina» (cfr. 2Pt 1,4). La diversità dei modelli si spiega per il fatto che la realtà è più complessa delle nostre idee e che quindi è necessario ricorrere ad espressioni simboliche e a metafore, che vengono scelte secondo la sensibilità e la cultura.
    Il modello dell'adozione è molto chiaro e facilmente comprensibile. Paolo lo utilizza con frequenza. Per Paolo Gesù è venuto «perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,5). «Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abba, Padre". Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rom 8,14-16). Anche gli Israeliti avevano ricevuto "l'adozione a figli" (Rom 9,4) ma non "per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli... cioè non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa» (Rom 9,7.8). Anche i discepoli di Gesù diventano figli per la fede in Cristo (Gal 3,26) e per la forza dello Spirito che egli comunica: «E che voi siate figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio» (Gal 4,6-7). Ne derivano conseguenze operative: «Siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere» (Fil 2,15); «imitatori di Dio quali figli carissimi» (Ef 1,5).
    Il modello della generazione, preferito da Giovanni, è più forte e incisivo. Noi siamo veri figli di Dio perché generati da Lui in una nuova nascita, una nascita "dall'alto" (Gv 3,5). L'azione divina comunica una qualità nuova, offre una identità, cui corrisponde un "nome scritto nei cieli" (Lc 10, 20), suscita una dimensione spirituale che si prolunga oltre la morte e per questo è chiamata anche "vita eterna" (Gv 6,40.47.54). Ad essa corrisponde un particolare tipo di amore, che i primi cristiani hanno chiamato con il termine greco agàpe, già utilizzato dai traduttori in greco della Bibbia ebraica (i Settanta) per esprimere l'amore di Dio. Questo tipo di amore è accompagnato da una particolare conoscenza di Dio per cui il discepolo non ha bisogno di essere ammaestrato sulle cose divine (1Gv 2, 20.27). Dio stesso attraverso il suo Spirito conduce i figli alla vita e alla conoscenza. La condizione fondamentale per essere generati da Dio è la fede: l'accoglienza della sua Parola.
    Inesatta è perciò la riflessione del rabbino citato da Marcelo Barros, che sembra avvallarla: «Secondo la lettera agli ebrei, la filiazione divina è condizione comune a tutti» [30]. Occorre infatti aggiungere che è condizione comune solo a tutti coloro che "accolgono la parola e sono santificati", a coloro, cioè, che sono resi giusti dall'azione santificatrice dello Spirito divino.
    In questa prospettiva si capisce bene il senso della formula "figlio di Dio" e si spiega come essa nella tradizione cristiana venga attribuita a Gesù in un senso duplice: uno come giusto che ha santificato molti ed è perciò primogenito nei loro confronti; l'altro, in virtù della comunicazione degli idiomi, per il rapporto ipostatico con il Verbo eterno, Figlio unigenito del Padre. Quest'ultimo uso tuttavia è più tardivo ed è stato precisato in occasione delle eresie cristologiche.
    Una più corretta interpretazione dell'unione ipostatica secondo la formula di Calcedonia e quindi una più esatta distinzione nel Verbo incarnato tra la natura umana individua di Gesù, l'uomo sacramento di Dio, e la natura divina, Parola eterna del Padre, consente di riconoscere gli ampi spazi dell'azione divina nella storia e di superare l'esclusivismo salvifico delle strutture cristiane.
    Conseguentemente viene affermata con chiarezza la possibile funzione salvifica delle religioni e la loro convergenza verso una pienezza non ancora realizzata da nessuna di esse, neppure dal cristianesimo.

    L'annuncio del Regno di Dio come criterio del dialogo

    Dal punto di vista teologico alcuni strumenti recenti hanno reso possibile la formulazione di criteri più corretti per stabilire un rapporto con le altre religioni. Ne ricordo alcuni.
    Il primo è l'importanza che ha avuto la predicazione del Regno nella missione di Gesù. Jon Sobrino, un gesuita spagnolo che opera in San Salvador, e rappresentante lui stesso della teologia della liberazione 31, nei primi anni Novanta osservava: «Per strano che possa sembrare adesso, la scoperta del Regno di Dio come ciò che è al centro della vita e dell'interesse di Gesù è relativamente recente, di poco meno di un secolo fa. Personalmente ritengo che tale scoperta sia stata la più importante negli ultimi secoli per la Chiesa e per la teologia, e le sue conseguenze si sono fatte notare in tutti i settori teologici fondamentali». Applicando la riflessione alla Chiesa attuale, egli osserva: «Proviamo a farci, in via puramente ipotetica, la seguente domanda: sarebbe identica a quella che è ora la missione della Chiesa, se Gesù, pur essendo stato risuscitato dal Padre e pur essendo stato proclamato dogmaticamente vero Dio e vero uomo, non avesse annunciato il Regno di Dio? La risposta è chiaramente no, ed è quanto dimostra la storia recente della Chiesa» [32].
    Un'altra pacifica acquisizione dell'attuale teologia è la distinzione tra il Regno di Dio presente e il Regno di Dio nella forma ultima. Scrive in merito J. Dupuis: «La teologia recente ha riscoperto il regno di Dio come realtà escatologica e il regno di Dio come è presente nella storia, ossia fra il "già" e il "non ancora". Dio ha stabilito il suo Regno nel mondo e nella storia per mezzo di Gesù Cristo; esso deve tuttavia svilupparsi finché non giunga alla pienezza escatologica alla fine dei tempi... Il Concilio Vaticano II fece sua naturalmente tale distinzione divenuta ormai indispensabile» [33].
    Una terza ragione del cambiamento è la distinzione tra Regno di Dio nel tempo e la Chiesa. Occorre ricordare che il Magistero centrale della Chiesa cattolica ha resistito ad accoglierla dato che, come ricorda J. Dupuis, «il primo documento ad affermare chiaramente una distinzione fra Chiesa e Regno di Dio già presente nel mondo è l'enciclica Redemptoris missio (1990) di Giovanni Paolo II» 34 che scriveva in quella enciclica: «Il Regno mira a trasformare i rapporti tra gli uomini e si attua progressivamente, man mano che essi imparano ad amarsi, a perdonarsi, a servirsi a vicenda. La natura del Regno è la comunione di tutti gli esseri umani tra di loro e con Dio» 35. La distinzione tra la Chiesa e il Regno ha reso possibile superare l'esclusivismo e anche l'inclusivismo ecclesiologico, perché ha fatto cogliere la presenza dello Spirito di Dio in azione ovunque.
    Occorre però ricordare che la distinzione tra Chiesa e Regno di Dio, prima di questi documenti del Magistero centrale, era già chiaramente affermata dalla teologia e anche da alcuni episcopati come la Federazione delle Conferenze dei Vescovi Asiatici (FABC) molto interessati al dialogo. D'altra parte la riscoperta centralità del Regno di Dio e la sua dimensione storica hanno spostato l'attenzione dalla rivelazione all'attuale azione dello Spirito, dalla tradizione ecclesiale alla lettura dei segni dei tempi, dalle dottrine all'esperienza di fede. La Chiesa ha così scoperto la relatività delle proprie strutture storiche (dottrinali, strutturali e operative), la necessità di accogliere le nuove parole di Dio emergenti nella storia e l'urgenza di leggere i segni dei tempi. È in questa ricerca che essa ha incontrato le ricchezze spirituali delle altre culture e religioni come dati imprescindibili. Il dialogo con loro, quindi, si è imposto alla Chiesa non per assecondare mode culturali, bensì per la fedeltà alla missione in un clima teologico nuovo.
    In questa luce si comprende come il necessario riferimento ai segni dei tempi (Lc 12, 56-57) consenta di superare l'esclusivismo ecclesiale, e la ricerca dei semina Verbi richieda il superamento di un esclusivismo della fede cristologica.
    Il rapporto stabilito dalle religioni con l'eterna Parola di Dio è diverso, e varia è, quindi, la loro funzione rivelatrice e salvifica, ma tutte possono avere un ruolo specifico nella storia della salvezza. Anche il documento Dialogo e annuncio afferma: «È attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza, che i membri delle altre religioni rispondono'positivamente all'invito di Dio e ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come il loro salvatore» [36].
    La dichiarazione Dominus Jesus riprende la stessa dottrina quando ammette che le altre religioni «contengono e offrono elementi di religiosità che provengono da Dio» [37]. Per cui «non si deve escludere l'opera di Cristo e dello Spirito fuori dei confini visibili della Chiesa» [38]. La ragione per cui: «I seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina» viene indicata nel fatto che «l'unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, che è partecipazione dell'unica fonte» [39]. Questa affermazione, che nel Vaticano II, qui citato, riguardava il ruolo di Maria nella storia, viene qui riferita alla "mediazione partecipata" che le religioni esercitano in ordine alla salvezza. In questa prospettiva si dice inoltre che «la teologia oggi, meditando sulla presenza di altre esperienze religiose e sul loro significato nel piano salvifico di Dio, è invitata a esplorare se e come anche figure ed elementi positivi, di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza» [40]. L'invito alla riflessione teologica viene più volte ripetuto. Riconoscendo che esistono «diverse spiegazioni teologiche su questi argomenti» sollecita i teologi a continuare la riflessione per risolvere le difficoltà esistenti [41]. Altrove afferma che «la teologia sta cercando di approfondire» i modi con cui la grazia giunge ai non cristiani e dichiara che «tale lavoro teologico va incoraggiato, perché è senza dubbio utile alla crescita della comprensione dei disegni salvifici di Dio e delle vie della loro realizzazione» [42]. Tale ripetuto invito è ammissione di problemi non risolti, ma esprime anche la convinzione di possibili acquisizioni attraverso la riflessione sull'esperienza del dialogo. Il che significa riconoscere l'insufficienza delle attuali posizioni ufficiali. A proposito del dialogo interreligioso si ripete che esso «fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa» e che implica «un rapporto di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento, nell'obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà» [43].
    Il tempo di riflessione che praticamente l'intervento della Congregazione della dottrina della fede ha imposto è certamente stato utile per preparare con cura un passo avanti. L'iniziativa dei teologi latinoamericani può essere una risposta a questa sollecitazione.

    Chiesa

    Alla dottrina dell'unica mediazione di Cristo per la salvezza di tutti gli uomini ha corrisposto nei secoli della tradizione cristiana la necessità della Chiesa per la salvezza di tutti gli uomini e della insignificanza salvifica delle altre religioni. Questa convinzione è stata condensata nell'assioma tradizionale: «Fuori della Chiesa non c'è salvezza» e nell'immagine dell'unica barca di Pietro nel mare procelloso del mondo.
    Il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha avvertito il cambiamento in corso e ha posto le premesse per il cammino ulteriore. La Dichiarazione conciliare Nostra aetate ha aperto il cammino teologico del dialogo della Chiesa cattolica con le religioni. A venti anni dal Concilio, l'incontro del 27 ottobre 1986 tra rappresentanti delle diverse religioni del mondo, convocati dal Papa ad Assisi per una preghiera comune, è stato l'evento che ha espresso plasticamente il processo che tutti i credenti stanno ora vivendo [44].
    Ma per i cristiani queste esperienze non sono indolori, perché scardinano alcuni principi consolidati e mettono in crisi atteggiamenti inveterati. Per questo la teologia delle religioni è stata rivoluzionata e le posizioni hanno subito rapidi cambiamenti [45]. Il dialogo con le religioni ha richiesto una nuova analisi della pretesa veritativa, unica ed assoluta, che il cristianesimo avanzava nei confronti delle altre religioni.
    Nell'ambito cattolico la necessità del dialogo, come componente essenziale della missione, è oggi affermata chiaramente dal Magistero, ad esempio, nell'enciclica Redemptoris missio e nel documento Dialogo e annuncio [46]. Il fattore che rende difficile l'equilibrio fra le due dimensioni della missione (dialogo e l'annuncio) è la concezione della Chiesa. Essa viene considerata "serva del Regno" [47], ma poi è presentata anche come un fine della missione. Si continua a dire, infatti, che «i membri delle altre tradizioni religiose sono ordinati o orientati alla Chiesa, in quanto essa è il sacramento in cui il Regno di Dio è "misteriosamente" presente, giacché, nella misura in cui essi rispondono alla chiamata di Dio percepita nella loro coscienza, sono salvati in Gesù Cristo» (DeA 35). L'unicità della Chiesa come sacramento del Regno viene ricondotta a quella di Gesù Cristo. Il problema da chiarire quindi resta il senso dell'assolutezza e universalità della salvezza offerta da Cristo e del rapporto che si stabilisce tra questa e l'offerta delle Chiese cristiane e delle altre religioni. Si afferma tuttavia la convinzione che «il dialogo interreligioso è veramente parte del dialogo di salvezza iniziato da Dio» (n. 80).
    Anche nell'Enciclica Fides et ratio la riflessione dedicata all'incontro del cristianesimo con i mondi culturali e religiosi del lontano Oriente, in particolare dell'India, indica un principio generale molto chiaro: «Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci». L'enciclica precisa che: «Quanto è qui detto per l'India vale anche per l'eredità delle grandi culture della Cina, del Giappone e degli altri Paesi dell'Asia, come pure delle ricchezze delle culture tradizionali dell'Africa, trasmesse soprattutto per via orale» (FR, 72).

    Missione

    Non è esatto dire che il pluralismo (almeno quello convergente) rende inutile la missione. Ne cambia alcuni aspetti e modalità, ma la finalità resta l'annuncio del Regno e la conversione per la sua accoglienza. È necessario, infatti, che in ogni luogo comunità di credenti in Cristo testimonino l'efficacia del Vangelo in ordine alla salvezza e sottolineino la necessità di accogliere i suoi valori universali. Per questo è necessario che ovunque costituiscano comunità di testimonianza e insieme di accoglienza dei valori universali sviluppati dalle altre religioni. In questo modo, mentre offrono ad altri popoli le ricchezze emerse nella tradizione cristiana, secondo le loro modulazioni culturali, arricchiscono la Chiesa universale dei beni spirituali fioriti nelle altre culture.
    L'enciclica Redemptoris missio a proposito del rapporto con le altre religioni scrive:
    «È vero dunque che la realtà incipiente del Regno può trovarsi anche al di là dei confini della Chiesa, nell'umanità intera, in quanto questa viva i valori evangelici e si apra all'azione dello Spirito che spira dove e come vuole (cfr. Gv 3,8); ma bisogna subito aggiungere che tale dimensione temporale del Regno è incompleta, se non è coordinata col Regno di Cristo, presente nella Chiesa e proteso alla pienezza escatologica» [48].
    Il principio della incompiutezza dei "valori evangelici" vale anche per la Chiesa cattolica e per le altre Chiese e comunità cristiane che, come sottolinea il Papa, è protesa verso la compiutezza del Regno. L'incompiutezza deriva prima di tutto dalla condizione temporale della Chiesa che accoglie i doni di grazia a piccoli frammenti nella lunga successione dei secoli. In secondo luogo consegue dai modelli culturali utilizzati nella formulazione della dottrina e nell'impostazione delle attività pastorali, necessariamente prospettici e provvisori. In terzo luogo l'incompiutezza deriva dal peccato e dalle infedeltà della stessa Chiesa, bisognosa sempre di conversione.

    Conclusione

    Nel processo di adeguamento dei "valori evangelici" la chiesa incontra anche le ricchezze che il Verbo eterno e lo Spirito suscitano nelle altre religioni e nelle altre culture. Si potrebbe parafrasare la formula dell'Enciclica e dire che anche «la dimensione temporale del Regno presente nella Chiesa è incompleta, se non è coordinata col Regno di Cristo, presente nelle altre religioni».
    Il dialogo della Chiesa con le altre religioni, perciò, non è una scelta opzionale e contingente, bensì una componente essenziale della sua attuale missione. Trascurarla renderebbe la Chiesa incapace di accogliere pienamente la verità di Dio e di testimoniare quella efficacia salvifica del Vangelo, che rende possibile la diffusione dei Beni evangelici in tutti gli ambiti culturali.
    Per questo la Chiesa sente l'urgenza di costituire comunità evangeliche di ascolto e di testimonianza in ogni luogo in cui l'esperienza religiosa ha suscitato ricchezze spirituali e dove appare necessario trasmettere i valori specifici del Vangelo. Evidentemente, dopo secoli di rifiuto o di diffidenza nei confronti delle diverse religioni del mondo, il passaggio a un ascolto vero e quindi a'un dialogo effettivo non si realizza in modo facile, anzi trova ancora notevoli resistenze e difficoltà.
    Si richiede la crescita di generazioni che, oltre a una profonda fedeltà al Vangelo, siano in grado, attraverso la conoscenza diretta delle altre religioni, di superare i pregiudizi negativi, di acquistare quelle conoscenze necessarie per riconoscere le ricchezze che esse possiedono e di esercitarsi nel dialogo così da saperle interiorizzare e diffondere assieme a quelle fiorite nella tradizione cristiana. Così, nel comunicare ad altri le proprie ricchezze, la Chiesa supera la sua nativa incompiutezza.
    La sollecitazione che proviene dalle comunità ecclesiali latinoamericane a tenere conto dei poveri del mondo nel dialogo con le altre religioni non può essere trascurata dalle nostre Chiese spesso pigre e stanche. Per questa ragione la pubblicazione del presente volume si inserisce nel processo di rinnovamento delle Chiese occidentali, chiamate a rispondere in modo più evangelico alle attuali condizioni drammatiche dell'umanità.

     

    NOTE

    1 Le altre forme di teologia della liberazione, l'africana, l'asiatica e quella delle minoranze nere, indios e femministe, hanno avuto fasi alterne, spesso legate allo sviluppo della teologia latinoamericana nell'ambito dell'Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Asett/Eatwot, cfr. nota 5). Il problema del dialogo con le religioni nella prospettiva dei poveri era già stato affrontato in Asia; cfr. ad es. A. PIERIS, Una teologia asiatica di liberazione, Cittadella, Assisi 1990.
    2 Cfr. le indicazioni di J.M. Vigil all'inizio del capitolo quarto del presente volume a p. 65 ss. Quando, tuttavia, nel 1992 il termine fu lanciato riguardava «le religioni indigene e le religioni afro del continente, nonché i militanti "atei o non credenti" dei movimenti latinoamericani dell'epoca. Questo spiega, come vedremo, perché molti temi e concetti oggi di moda nel "dialogo interreligioso" fossero allora assenti nel MEL» (=Macroecumenismo latinoamericano).
    3 M. BARROS osserva nel capitolo decimo: «A partire dalla Conferenza dell'episcopato latinoamericano a Medellín (1968), si è cercato un nuovo modello di pastorale indigenista. Questa denunciò la mancanza di rispetto verso le religioni e le tradizioni indigene, difese il diritto degli indios ad avere religioni proprie e non si pose come obiettivo un servizio missionario per convertire gli indios al cristianesimo. Perciò si vide obbligata a elaborare una missionologia aperta al pluralismo. Lo stesso avvenne con gli agenti di pastorale consacrati ai gruppi e alle comunità nere» (p. 177 ss.).
    4 J.M. VIGIL, Macroecumenismo: teologia latino americana delle religioni: «Il MEL era inclusivista dal suo punto di partenza conciliare, ma non lo era consapevolmente, e nutriva in seno opzioni e virtualità che lo avrebbero reso capace di andare ben oltre» (qui a p. 71). Ricordo che la sigla MEL corrisponde a Macro Ecumenismo Latinoamericano.
    5 L'Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Asett/Eatwot), pensata e organizzata nel 1975, ha tenuto il Congresso di fondazione nel 1976 a Dar-es-Salaam (Tanzania) conclusosi con il Manifesto di Dar-es-Salaam, «che può essere considerato come l'atto ufficiale di nascita della "teologia del terzo mondo"». Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, (BTC 69), Queriniana, Brescia 1992, p. 484. Per i diversi congressi e le tendenze è di particolare interesse tutto il capitolo XV: Teologia del terzo mondo, pp. 481-522.
    6 C. GEFFRÉ, Verso una nuova teologia delle religioni, in AA. Vv., Prospettive teologiche per il XXI secolo (a cura di R. Gibellini), Queriniana, Brescia 2003, pp. 352-372, in particolare pp. 368-372.
    7 Por Los Muchos Caminos de Dios. Desafios del pluralismo religioso a la teologia de la liberacion, Verbo divino, Quito 2003; ed. brasiliana, Pelos muitos caminhos de Deus. Desafios do pluralismo religioso á la Teologia da Libertação, Editora Rede, Goiús, 2003; ed. italiana I volti del Dio liberatore. Le sfide del pluralismo religioso, EMI, Bologna 2004. !.
    8 Alcuni seguono altri criteri nel distinguere le diverse posizioni teologiche. Diffusa e seguita anche da alcuni autori di questo volume è la distinzione in tre ambiti: ecclesiocentrico, cristocentrico e teocentrico. Ma tale criterio non sembra adatto a delineare le differenze specifiche delle diverse posizioni in ambito cristiano. J. DUPUIS osserva: «La questione decisiva... è sapere se una teologia delle religioni che vuole essere cristiana abbia la possibilità di scelta tra una prospettiva cristocentrica... e una prospettiva teocentrica... In altri termini, un teocentrismo che non sia cristocentrico può essere un teocentrismo cristiano: ...la teologia cristiana è cristocentrica in quanto geocentrica». Cfr. Introduzione alla cristologia, Piemme, Casale Monferrato, 1993, pp. 241 s. Un'ampia bibliografia in questa prospettiva si trova in E. SCOGNAMIGLIO, Il volto di Dio nelle religioni. Una indagine storica, filosofica e teologica, Paoline Cinisello Balsamo 2001, pp. 160-177.
    9 Generalmente questo modello viene presentato in tre moduli: esclusivismo, inclusivismo e pluralismo. Ma questa forma conduce ad ambiguità notevoli a proposito del pluralismo. Seguono la triplice distinzione molti teologi tra cui ricordo: A. RACE, Christians and Religious Pluralism: Patterns in the Christian Theology of Religions, SCM Press, London 1983; G. D'COSTA, Theology and Religious Pluralism: The Challenge of Other Religions, Basil Blackwell, Oxford 1986.
    10 Esempio chiaro di questa posizione è J. HICK di cui ricordo La non assolutezza del cristianesimo, in AA. Vv. (a cura di J. Hick e P.F. Knitter), L'unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Cittadella, Assisi 1994, pp. 80-110.
    11 Esempio di una simile posizione presentata con sensibilità moderna è H. KRAEMER, The Christian Message in a non-Christian World, Edimburg House Press, London 1947; ID., Why Christianity of All Religions?, Lutterworth Press, London 1962.
    12 Non è completamente esatta la facile riduzione dell'esclusivismo salvifico all'ecclesiocentrismo, tradotto nella formula: «Fuori della Chiesa non c'è salvezza», e dell'inclusivismo al cristocentrismo (fuori di Cristo non c'è salvezza). J.M. Vigil opera una semplificazione quando scrive: «Si ritiene in questo nuovo paradigma... che la salvezza, ogni salvezza, è stata conseguita da Cristo, e anche se raggiunge gli esseri umani che sono oltre le frontiere della Chiesa, non cessa di essere "quella conseguita da Cristo", salvezza che può raggiungere perfino gli esseri umani più lontani "per strade conosciute solo da Dio" (GSp 22). Si dice per questo che l'inclusivismo sia teologicamente equivalente al cristocentrismo: non è più la Chiesa ad essere il centro (come nel caso dell'esclusivismo), ma Cristo» (p. 164). Anche l'esclusivismo è cristocentrico. Afferma, infatti, che solo per l'azione continua di Cristo e del suo Spirito la Chiesa esercita il suo influsso in vari modi. Inoltre, anche l'inclusivismo ammette che l'azione della Chiesa nella storia è più ampia di quella esercitata al suo interno e ha quindi delle componenti ecclesiocentriche. Sia l'esclusivismo che l'inclusivismo, quindi, hanno una dimensione cristo-logica ed una ecclesiologica.
    13 Cfr. ad es. G. CANOBBIO, Chiesa perché. Salvezza dell'umanità e mediazione ecclesiale, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1994, pp. 182-183; B. FORTE, La Chiesa della Trinità, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 105119, in particolare p. 115.
    14 Cfr. ad es. M. BORDONI, La cristologia nell'orizzonte dello Spirito, Queriniana, Brescia 1995, p. 182.
    15 Cfr. ad es. A. AMATO, Gesù e le religioni non cristiane. Una sfida all'assolutezza del cristianesimo, in AA. Vv., Gesù è il Signore. La specificità di Gesù Cristo in un tempo di pluralismo religioso, LAS, Roma 1992, pp. 45-79. Cfr. anche ID., Cristologia e religioni non cristiane. Problematica e attualità: considerazioni introduttive, in «Ricerche teologiche» 1(1990), pp. 143-168; ID., Bibliografia su Cristo e le religioni non cristiane, in «Ricerche teologiche» 4(1993), pp. 197-237.
    16 CH. DUQUOC, Messianisme de Jésus et discrétion de Dieu, Génève, 1984, p. 141. C. MOLARI, Salvezza universale, introduzione a J. AUER, Gesù il salvatore. 1° Cristologia, Cittadella, Assisi 1993, pp. 5-35; ID., La fede cristiana in tensione tra lo specifico e l'universale, Introduzione a AA. Vv., (a cura di J. Hick e F. Knitter), L'unicità cristiana un mito? cit., pp. 11-49, in particolare p. 37 ss. dove propongo la formula pluralismo relazionale o convergente; ID., Le ragioni dell'universalità cristiana, Introduzione a AA.VV (a cura di G. D'Costa) La teologia pluralista delle religioni: un mito? L'unicità cristiana riesaminata, Cittadella, Assisi 1994, pp. 1137. Nei suoi ultimi scritti J. Dupuis ha, difeso con impegno e successo questa posizione a cui era pervenuto dopo aver difeso l'inclusivismo nelle sue prime opere. Egli ha risposto con puntiglio alle accuse che gli erano state rivolte dai censori della S. Congregazione per la Dottrina della fede. Cfr. una sintesi in J. DUPUIS, Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all'incontro (GdT 283), Queriniana, Brescia 2001, pp. 189 ss.
    17 P. F. KNITTER, Religioni, misticismo e liberazione, qui a p. 85.
    18 Questa confusione appare chiaramente quando, riferendosi a J. Hick, J.M. Vigil, uno dei curatori, afferma che «la teologia pluralista consiste esattamente in questo: nel superamento dell'inclusivismo, nel passaggio a un paradigma sostitutivo dello stesso, il paradigma del pluralismo, che riconosce la salvezza presente in altre religioni, ma non dipendente dalla salvezza cristiana e, pertanto, senza la necessità della mediazione universale di Gesù» (p. 165).
    19 A proposito della teologia cristiana delle religioni, Jacques Dupuis scrive: «Una conclusione è ormai certa: il problema cristologico ne costituisce il nodo centrale» (Introduzione alla cristologia, cit., 1993, p. 241).
    20 Si tratta del capitolo nono: Cristologia della liberazione e pluralismo religioso, pp. 161-171. Vigil scrive all'inizio: «Va subito precisato che si tratta di un tema difficile, pericoloso e, comunque, estremamente delicato... Molti teologi latinoamericani a cui abbiamo chiesto questa riflessione sulle "sfide del pluralismo" alla cristologia della TL, ci hanno risposto negativamente». Significative sono le diverse risposte dei teologi ivi riassunte.
    21 J.M. VIGIL, in questo volume (p. 162).
    22 Il capitolo decimo scritto da Marcelo Barros è intitolato Cristologia afro-amerindia. Una discussione con Dio. Inizia con una preghiera di un mistico sufi orientale, tradotta liberamente, e prosegue in forma di preghiera a Dio per mezzo di Cristo nello Spirito. È più documentato del capitolo precedente ma elementare e a volte inesatto.
    23 J.M. VIGIL (p. 163). Altro è dire che i quattro concili possono essere paragonati ai quattro vangeli, altro è dire che sostituiscono i quattro Vangeli. Gregorio Magno, d'altra parte, morì all'inizio del secolo
    24 Ibidem, p. 164.
    25 Ibidem, p. 163. Allo stesso modo, affermare che «si considera tabù la sola possibilità di sottoporre a uno studio le formule che esprimono il dogma cristologico» (p. 163) è inesatto.
    26 Ibidem, p. 167.
    27 J. HICK, The Methaphor of God Incarnate. Christology in a Pluralistic Age, John Knox Press, Luisville 1993.
    28 J.M. VIGIL., qui a p. 168.
    29 M. BARROS, cap. 10, qui a pp. 178-179.
    30 M. BARROS, qui a p. 179, cita Eb. 2,10-11: «Ed era ben giusto che colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza. Infatti colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli» (Eb 2,10-11).
    31 JON SOBRINO ha curato assieme al confratello gesuita I. ELLACURIA il volume Mysterium liberationis, tr. it. Cittadella/Borla, Assisi/Roma 1992. 1 suoi scritti di cristologia non vengono valorizzati in questo volume.
    32 J. SOBRINO, Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1995, pp. 185 e s.
    33 J. DUPUIS, Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all'incontro, Queriniana, Brescia 2001, p. 368
    34 Ibidem, p. 369, dove il teologo gesuita riassume l'analisi fatta nel volume precedente Verso una,teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997, pp. 452-458.
    35 GIOVANNI PAOLO Redemptoris missio (7 dicembre 1990, 250 anniversario del Decreto conciliare Ad gentes) n. 15. Cfr. PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO (a cura di. F. Gioia), Il dialogo inter-religioso nel magistero Pontificio. Documenti 1963-1993, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994.
    36 Dialogo e annuncio, n. 29.
    37 Dominus Jesus, n. 21. È un documento importante per la serietà e il rigore con cui affronta il problema del pluralismo religioso ed è per questo uno strumento da utilizzare. Innegabilmente ha molti limiti, ma propone un punto di vista che non può essere trascurato.
    38 Dominus Jesus, n. 19 cita l'enciclica Redemptoris missio, n 18.
    39 Dominus Jesus, n. 22 l'ultima espressione è una citazione della Costituzione del Vaticano II sulla Chiesa LG 62.
    40 Dominus Jesus, n. 14.
    41 Dominus Jesus, n. 18.
    42 Dominus Jesus, n. 21.
    43 Dominus Jesus, n. 2. Anche Benedetto XVI da cardinale parlava dello stesso annunzio del Vangelo come di un "processo dialogico": J. RATZINGER, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, p. 73.
    44 Cfr. Commissione Pont. `Justitia et pax', Assisi: giornata mondiale di preghiera per la pace (27 ottobre 1986), Tip. poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1987.
    45 Una esposizione dettagliata del cammino compiuto dai teologi si può trovare in J. DUPUIS, Il cristianesimo e le religioni: dallo scontro all'incontro, (GdT 283), Queriniana, Brescia 2001, pp. 96-188; ID., Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, (BTC 95) Queriniana, Brescia 1997, parte prima: una panoramica di approcci cristiani alle religioni pp. 45-271. Dello stesso autore ricordo anche Cristo incontro alle religioni, Cittadella, Assisi 1986, nel quale egli difendeva una posizione più tradizionale.
    Tra i vari scritti in italiano ricordo inoltre: AA.VV. (a cura di C. Cantone), La svolta planetaria di Dio. Dalla "esperienza religiosa" alla "esperienza secolare" di Dio, Borla, Roma 1992. AA .VV., Cristianesimo e religioni, in «Filosofia e Teologia» 6(1992) 1, pp. 3-123 (Atti di un Convegno tenuto a Torino (ottobre 1991) per iniziativa di tre Università statali italiane: furono invitati anche teologi non italiani come Geffré, Pannenberg e Hick. Resoconto di M. VERGOTTINI, Singolarità del cristianesimo e pluralismo religioso, in «Teologia» 16(1991), pp. 306-315); AA.VV., Cristianesimo e religioni in Dialogo, (Quaderni teologici del Seminario di Brescia 4), Morcelliana, Brescia 1994; AA.Vv., Cristianesimo e religione, Glossa, Milano 1992; AA.Vv., (a cura di M. Farrugia) Universalità del cristianesimo. In dialogo con Jacques Dupuis , S. Paolo 1996.
    46 PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO E CONGREGAZIONE PER L'EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, Dialogo e Annuncio (19 maggio 1991) AAS 84(1992), pp. 414-446.
    47 «La missione della Chiesa è far crescere regno del Signore nostro e del suo Cristo' (Ap 11,15), di cui è serva»: Dialogo e Annuncio (DeA), n. 35
    48 GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, n. 20.


    (Fonte: "Postfazione" a: AA.VV., Verso una teologia del pluralismo religioso, EMI 2005, pp. 239-267)


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