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    Il Cristianesimo

    in dialogo con

    le altre religioni

    Anselm Grün


    Nel dialogo con le altre religioni è mia intenzione prima di tutto sottolineare gli aspetti comuni. Nel dialogo con ogni singola religione evidenzierò, invece, altri aspetti del cristianesimo e li presenterò in modo tale che i seguaci di altre religioni possano per lo meno comprendere quello che intendo dire. Solo successivamente passerò a descrivere la dimensione specifica del cristianesimo e a differenziarla rispetto alle altre religioni.
    L'apertura e la delimitazione sono necessarie, perché possa nascere un dialogo vero, in cui ciascuno rispetta l'altro. Non si tratta di convincere l'altro o di dimostrargli che la religione cristiana è la migliore. Ma piuttosto il dialogo ha bisogno del rispetto dell'altra religione e della disponibilità ad ascoltare quello che intende, e anche della disponibilità a imparare da essa, se noi cristiani abbiamo trascurato qualche aspetto della relazione a Dio.
    Ma nel dialogo dovremmo anche cercare di far comprendere a colui con cui stiamo dialogando ciò che riteniamo essenziale della nostra fede. Limitarsi a dire che crediamo tutti nella stessa cosa e che il nucleo di tutte le religioni è lo stesso sarebbe troppo poco. Annacquerebbe le religioni e non renderebbe giustizia alla loro specificità.

    Mi ricordo ancora di un'espressione di Karlfried conte Dürckheim, che da cristiano si è impegnato nel dialogo con il buddhismo zen. Sosteneva che ci è possibile dialogare con il buddhismo solo se abbiamo chiare le nostre radici, solo se siamo radicati nella nostra fede cristiana. Se non fosse così, il dialogo si rivelerebbe un annacqua-mento delle affermazioni e delle esperienze e un miscuglio che non sarebbe utile a nessuno. Sarebbe come nuotare e perdere terreno sotto i piedi.
    Per il dialogo reciproco fra le religioni vale quello che ha detto il cardinale J. Ratzinger in una conferenza: «L'incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che, poi, si presentano in maniera ancora più sicura di sé. La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l'uomo, ma lo consegna al calcolo dell'utile, privandolo della sua grandezza. Vanno incoraggiati invece il rispetto profondo perla fede dell'altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire. Va incoraggiata la disponibilità a cercare, dietro alle manifestazioni che ci possono sembrare strane, il significato più profondo che si cela in esse. Va inoltre incoraggiata la disponibilità ad abbandonare la ristrettezza del nostro modo di intendere la verità, così da comprendere meglio ciò che ci appartiene, imparando a capire l'altro e lasciandoci così guidare sulla strada del Dio più grande – nella convinzione di non possedere pienamente la verità su Dio e di essere sempre dinanzi a essa persone che imparano, pellegrini alla sua ricerca, su una strada che mai avrà fine» ((J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo 2000, pp. 71-72).

    Nel dialogo con l'ebraismo è importante per noi cristiani professare chiaramente le nostre radici ebraiche. Il Concilio Vaticano II lo ha detto in modo chiaro: «La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti» (Nostra Aetate 4).
    Nella lettera ai Romani, Paolo ha definito santa la radice ebraica a partire dalla quale vivono i cristiani. Paolo parla al pagano diventato cristiano e che in quanto cristiano partecipa della promessa fatta al popolo d'Israele: «Se ora alcuni rami sono stati tagliati via e tu, essendo un olivastro selvatico, sei stato innestato al posto lori, venendo così a partecipare della linfa che proviene dalla radice dell'olivo, non ti gloriare a discredito dei rami» (Rm 11,17-18).
    Insieme con gli ebrei leggiamo l'Antico Testamento. Con loro preghiamo recitando i salmi. E l'immagine di Dio che Gesù ci ha annunciato corrisponde all'immagine che hanno tratteggiato per noi i profeti dell'Antico Testamento. Quindi, abbiamo una radice in comune con gli ebrei. Gesù stesso era ebreo e ha pregato e pensato da ebreo. Per tale motivo non comprendiamo Gesù, se non studiamo la tradizione ebraica e non viviamo come Gesù a partire dalle promesse che Dio ha fatto ai padri.

    Molti ebrei al giorno d'oggi possono certamente vedere in Gesù un fratello, un rabbi particolarmente sensibile che rappresentava piuttosto la corrente moderata del fariseismo, ma hanno difficoltà con la nostra professione di fede cristiana, secondo la quale Gesù è il Messia e il Figlio di Dio.
    Quando parliamo con gli ebrei della figliolanza di Gesù, non dobbiamo usare espressioni scolastiche, come quelle che parlano dell'unione ipostatica di divinità e umanità in Gesù. È sufficiente parlare della figliolanza divina di Gesù Cristo in prima battuta con i concetti dell'Antico Testamento. Non per niente la liturgia cristiana interpreta festeimportanti come Natale, Epifania, Pasqua e Pentecoste con parole e immagini tratte dall'Antico Testamento.
    La liturgia della Notte Santa inizia con il versetto di apertura: «Proclamerò il decreto che il Signore ha pronunciato: "Mio figlio sei tu, io in questo giorno ti ho generato!"» (Sal 2 ,7). Certamente anche gli ebrei potrebbero applicare a Gesù tale versetto del salmo. Considererebbero Gesù particolarmente prediletto da Dio, lo vedrebbero come colui che per questo motivo Dio ha chiamato suo figlio, perché annunciasse in modo unico il regno e l' amore di Dio.
    Il giorno di Natale il canto d'ingresso dice: «Un bambino ci è nato, un figlio ci è stato donato; nelle sue spalle riposa l'impero» (Is 9,5). Di nuovo il mistero di Gesù come Figlio di Dio viene descritto con parole tratte dall'Antico Testamento. Dio stesso ci ha donato Gesù come suo figlio prediletto, che ha prescelto per annunciarci la buona novella. Anche gli ebrei potrebbero essere d'accordo sull' antifona con cui cantiamo il mistero di Gesù Cristo all'Epifania: «E Dio che disse: Brilli la luce dalle tenebre, è brillato nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza nella gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2Cor 4,6).

    Gli ebrei riescono a comprendere che Gesù è stato prescelto da Dio in modo particolare, che in lui brilla la gloria di Dio e che è figlio prediletto di Dio. Ma non comprenderebbero Gesù come Figlio di Dio nel senso della nostra teologia scolastica. Non direbbero mai che Dio si è fatto uomo in Gesù. Nel dialogo con gli ebrei dovremmo adattarci al loro modo di pensare. Anche gli evangelisti e gli autori delle lettere neotestamentarie hanno parlato di Gesù ciascuno in modo diverso, in base agli interlocutori a cui rivolgevano le loro parole.
    Tuttavia, non possiamo affermare che la Chiesa abbia alterato l'immagine di Gesù, quando ne ha parlato facendo uso di concetti elaborati sulla base della filosofia greca. Quello che il Nuovo Testamento ci dice di Gesù diviene chiaro dal punto di vista concettuale nelle definizioni dei concili che hanno avuto luogo soprattutto in terra greca. Ma non dobbiamo spiegare a tutti l'esito delle discussioni dei primi concili ecumenici. Possiamo continuare a camminare insieme per comprendere il mistero di Gesù Cristo.
    Se gli ebrei sono aperti al mistero unico di Gesù, alla sua relazione particolare al Padre, allora ne comprendono un aspetto essenziale. Possiamo condividere con loro la «cristologia dal basso», che ci annunciano i vangeli, non possiamo però fissare Gesù alla «cristologia dal basso», ma dobbiamo rimanere aperti a una «cristologia dall'alto».

    Tuttavia, evidentemente Gesù stesso, a proposito della sua relazione a Dio, ha parlato in modo provocatorio per le orecchie dei contemporanei ebrei: «"Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?". Rispose Gesù: "Sì, sono io! E vedrete il Figlio dell'uomo, seduto alla destra della Potenza,venire con le nubi del cielo"» (Mc 14,62). Per il sommo sacerdote e gli astanti si trattava di una bestemmia.
    Per gli ebrei, nell'espressione «Figlio di Dio» non necessariamente risuona la consustanzialità di Gesù con il Padre, in quanto nella tradizione ebraica Figlio di Dio è piuttosto un concetto relazionale. Il Figlio ha una relazione particolare con il Padre. E Gesù rivendica per sé un'appartenenza particolare al Padre, appartenenza che per il sommo sacerdote e molti farisei rappresenta una bestemmia. Gesù comprende che essi interpretano la sua relazione al Padre in modo troppo ristretto ed esclusivo, con troppa consapevolezza e univocità.
    E gli ebrei non credono che Gesù sia il Messia. Per loro, il Messia non è ancora giunto. Lo aspettano ancora. Per loro è una bestemmia che Gesù affermi di sé di essere il Messia. Su questo aspetto certamente vi è una differenza fra ebrei e cristiani, differenza che non possiamo risolvere. Ma anche noi cristiani attendiamo di nuovo la venuta di Gesù nella gloria. E l'attesa, espressa nelle ultime parole del Nuovo Testamento, «Amen. Vieni, o Signore Gesù!» (Ap 20,20), presenta per lo meno una struttura simile all'attesa del Messia da parte del popolo ebraico. Per noi Gesù è il Messia, ma durante la sua vita è stato un Messia nascosto. Ha proibito agli uomini che guariva di raccontare della guarigione. Aveva paura che gli uomini proiettassero su di lui una falsa immagine messianica. Solo alla fine del mondo si manifesterà in modo definitivo come Messia, come salvatore di tutto e di tutti. E quindi anche noi, come gli ebrei, siamo in trepidante attesa della venuta del Messia nella gloria.
    Nonostante questo, non possiamo semplicemente aggirare le differenze che vi sono fra ebrei e cristiani. Non sarebbe onesto. E nel fare ciò non verremmo accettati dagli ebrei. Dovremmo condurre un dialogo aperto, nel quale possiamo sottolineare le radici comuni e il modo di vedere comune. Solo quando prendiamo in considerazione l'aspetto comune, possiamo parlare anche di quello che divide e degli aspetti particolari; ma anche qui lo dovremmo fare con parole e concetti che gli ebrei possono comprendere. E come cristiani abbiamo bisogno dell'amore appassionato dell'apostolo Paolo per il suo popolo Israele. Paolo dice: «Desidererei infatti essere votato alla maledizione divina ed essere, io personalmente, separato da Cristo in favore dei miei fratelli, che sono della mia stessa stirpe secondo la carne» (Rm 9,3).

    Oggi il dialogo con l'islam non solo è una necessità teologica, ma anche politica. Solo se ci mettiamo a dialogare con l'islam e con la sua vera dottrina, i gruppi radicali e fondamentalisti possono essere circoscritti.
    Il Concilio Vaticano II parla con rispetto dell'islam: «La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce» (ivi 4).

    In comune con l'islam noi cristiani abbiamo l'etica religiosa, che predica l'amore per il prossimo, onora l'osservanza dei comandamenti divini e si esprime nell'ascesi. Tuttavia, la tradizione dell'islam si deve opporre con decisione alle tendenze violente.
    In comune con l'islam abbiamo anche la professione di fede in un unico Dio. L'unico e solo Dio è il creatore del mondo, il signore della storia e il giudice degli uomini. L'islam sottolinea l'onnipotenza, la maestà e la trascendenza di Dio. I comandamenti di Dio non possono essere messi in questione.
    Il dialogo con l'islam ci obbliga a non fraintendere la nostra immagine del Dio trinitario come rappresentazione di tre dèi diversi. Anche noi crediamo in un unico Dio, Padre di tutti gli uomini. Ma la nostra immagine di Dio è permeata dal mistero della Trinità. La Trinità non significa tre dèi diversi, che intrattengono un rapporto superficiale l'uno con l'altro, ma un unico Dio, che tuttavia è aperto a noi uomini.
    Il mistero della Trinità era così importante per la Chiesa primitiva, perché in esso si esprimono l'essenza di Dio e l'essenza della nostra relazione a Dio, che è un Dio aperto a noi uomini, ci viene incontro in Gesù, suo Figlio, e percorre con noi le nostre strade. Ci dona lo Spirito Santo, che ci accoglie e ci mantiene nella comunione con Dio. Dio non è lontano e irraggiungibile. Si è avvicinato a noi in Gesù. E nello Spirito Santo si è aperto a noi, in modo che nello Spirito Santo possiamo divenire uno con Lui. Lo Spirito Santo non è solo un dono divino, ma Dio stesso. Lo Spirito Santo è il Dio vicino, il Dio in cui siamo, da cui siamo pervasi e il cui amore ci colma e ci solleva in Dio.

    Nel Medioevo si è svolto un dialogo fecondo fra islam e cristianesimo, ma il dialogo è stato ostacolato di continuo da incomprensioni e violenza da entrambe le parti.
    Il dialogo deve essere improntato al rispetto per l'altra religione, senza tacere le differenze. Per noi Gesù non è semplicemente un profeta – come lo vede l'islam – ma il Figlio di Dio. Anche nel dialogo con l'islam possiamo parlare di Gesù come Figlio di Dio con le categorie ebraiche, senza tuttavia negare la dimensione profonda del concetto patristico-scolastico.
    Non si tratta di dire: Gesù è stato semplicemente un uomo che aveva una relazione unica e speciale con Dio. In questo modo banalizzeremmo la relazione di Gesù con Dio e la fisseremmo a un determinato livello. Nella definizione di Gesù come «Figlio di Dio», infatti, si sente risuonare qualcosa che non si può esprimere'solo con un'immagine.
    Ma l'interpretazione di questo concetto come appartenenza particolare a Dio non è opportuno assolutizzarla, anche se è possibile e legittima. Tuttavia, il concetto deve pur sempre rimanere aperto alle altre dimensioni.

    Se ci troviamo in una moschea e sentiamo la moltitudine di fedeli dire ad alta voce con grande fervore: «Allah è grande!», rimaniamo certamente affascinati. Da questa invocazione proviene una grande forza. Qui evidentemente l'aggressione viene integrata in modo positivo nella spiritualità.
    Naturalmente al giorno d'oggi soffriamo perché non esiste solo questa integrazione sana dell'aggressione, ma gruppi crescenti dell'islam diventano sempre più aggressivi e intolleranti. Nel dialogo con l'islam lo scopo è quello di prendere sul serio le affermazioni pacifiche e tolleranti del Corano e di difenderle e proteggerle contro l'interpretazione adulterante da parte di coloro che sono pronti a usare la violenza.

    Particolarmente fecondo potrebbe essere il dialogo cristiano con il sufismo. Il sufismo è la corrente mistica dell'islam, nella quale il punto centrale è l'amore di Dio. Il famoso mistico al-Halladj interpreta il suo amore a Dio quale emozione che plasma tutti i suoi sentimenti. Nell'islam i mistici hanno incontrato continuamente resistenza, soprattutto perché descrivevano le prescrizioni riguardanti il comportamento come dimensione esteriore dell'islam, mentre l'esperienza mistica sarebbe la sua dimensione interiore.

    Con i mistici sufi noi cristiani possiamo condividere il punto di vista dell'amore personale dell'uomo per Dio e la passione a donarci interamente a Dio. Ci sono bellissimi testi poetici di mistici sufi come al-Halladj o Rumi. Rumi chiama il nostro respiro il profumo divino dell'amore, con cui l'amore di Dio pervade il nostro corpo. Nel respiro sperimentiamo il delicato amore di Dio. E il più grande poeta persiano, Hafis [Hafez] (1317-1390), che ha tanto affascinato Goethe, scrive in una poesia:

    In principio disse il fulgore della tua bellezza:
    «Voglio avere inizio!».
    E l'amore è nato e ha portato nell'universo il fuoco.
    Il tuo volto ha rivelato il suo splendore
    E ha visto gli angeli senza amore,
    Allora ha posto il figlio della terra, rapito,
    Nel fuoco dell'amore.

    Su questo punto Hafis si avvicina molto alla posizione della prima lettera di Giovanni, secondo la quale Dio è amore: «Chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Dato che Dio è amore, crea l'uomo e lo colma con il fuoco dell'amore.
    La mistica d'amore del sufismo assomiglia alla mistica d'amore caratteristica soprattutto della mistica femminile medievale. Molti sufi assomigliano a santi cristiani. L'amore che irradiano tocca anche noi cristiani. E in questo amore sappiamo di avere un legame con loro.
    Per noi cristiani, l'amore è divenuto visibile in Gesù Cristo. Il Medioevo amava molto l'immagine di Giovanni che poggia la testa in grembo a Gesù. Come il discepolo preferito poggia il capo in grembo a Gesù, così noi dovremmo costruire una relazione intima con Gesù Cristo. Questa relazione conferisce un sapore nuovo alla nostra vita: il sapore dell'amore.

    Il dialogo con l'islam sfida noi cristiani a vivere davvero la nostra vita a partire dalla fede. Molti musulmani ci fanno vergognare con la loro pratica religiosa e con la loro devozione personale. Per questo possiamo condurre un dialogo in modo davvero fecondo, se siamo consapevoli delle nostre radici e viviamo la nostra fede in modo coerente, cioè se rendiamo testimonianza della nostra fede anche pubblicamente.
    Quanto più chiaramente siamo riconoscibili come cristiani, tanto più seriamente veniamo considerati dai musulmani. Il fare memoria di Dio e il donarsi a Dio, che possiamo osservare in molti musulmani, rappresentano una domanda che ci viene rivolta: viviamo la nostra quotidianità a partire dalla realtà di Dio? Nella tradizione cristiana c'è sempre stata una risposta al fare memoria di Dio dell'islam. Si trattava della vita alla presenza di Dio.

    Del buddhismo il Concilio Vaticano II dice: «Nel buddhismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta odi pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l'aiuto venuto dall'alto» (ivi 2).
    Nel dialogo con il buddhismo, centrale è soprattutto la questione della redenzione e della via mistica e ascetica. Buddha interpreta l'intera vita degli uomini come sofferenza: «Nascere è sofferenza, invecchiare è sofferenza, la malattia è sofferenza, morire è sofferenza, essere uniti a una cosa sgradevole è sofferenza, essere separati dall'amato è sofferenza, non raggiungere quello che si brama è sofferenza» (H. Waldenfels, Phänomen Christentum: eine Welmeligion in der Welt der Religionen, Hender, Freiburg i.B.-Basel-Wien 1994, p. 136.).
    L'unico modo per sottrarsi a questa sofferenza consiste nello «spegnere la sete mediante la distruzione completa del desiderio, bandendo il desiderio, rinunciandovi, liberandosene, non concedendogli nessuno spazio» (ivi, p. 137). Sull'ottuplice sentiero il buddhista può superare la sofferenza:
    «È questa via di santità, che ha otto diramazioni: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retta forma di vita, retto sforzo, retta attenzione, retta pratica della meditazione» (ibidem).

    Anche nel cristianesimo il superamento della sofferenza è una questione importante. Il messaggio principale è, tuttavia, che Dio stesso in Gesù Cristo si è immerso nella sofferenza degli uomini e l'ha trasformata dall'interno. Ma anche nel cristianesimo c'è una via per superare la sofferenza: la via della negazione di sé. Quando prendo congedo dall'illusione che la vita si deve dispiegare secondo le mie rappresentazioni, la sofferenza perde la sua dimensione ossessionante.
    La sofferenza è per noi cristiani una sfida a spostarci dal piano del successo e del riconoscimento a un piano più profondo: il piano di Dio. La sofferenza ci vuole aprire a Dio e spezzare il nostro legame con il mondo. Ma la sofferenza non verrà estinta. Rimane. Il cristiano non la nega.
    Nella comunione con Gesù, tenendo lo sguardo rivolto all'autore della vita, si può sopportare la sofferenza e, così, aprirsi a Dio. Il cristiano non elimina la sofferenza allontanandosi dal mondo, ma passa attraverso la sofferenza, così come Cristo è passato attraverso la sofferenza per trasformarla dall'interno e colmarla di amore. Nel cristianesimo questo atteggiamento ha portato a una profonda solidarietà con chi soffre in tutto il mondo.
    La partecipazione emotiva viene tematizzata anche nel buddhismo, tanto che si rivela un buon punto di contatto per il dialogo. Ma la compassione cristiana rivela tratti più attivi rispetto alla partecipazione emotiva dei buddhisti e ha provocato un movimento di solidarietà e di impegno per i sofferenti. Ha sempre una dimensione sociale e politica.
    Sia la via ascetica, sia quella mistica, che il buddhismo ci descrive in esercizi concreti, si ritrovano nel cristianesimo. E in quanto cristiani possiamo davvero imparare dalle esperienze dei buddhisti.
    Quello che nel buddhismo-zen affascina molti cristiani sono le indicazioni chiare relative al modo in cui dobbiamo meditare e anche a quello a cui fare attenzione lungo il cammino. Soprattutto molti intellettuali sono attratti dalla meditazione zen, perché lì il loro spirito inquieto trova pace.
    Nel cristianesimo non siamo stati capaci di annunciare e vivere in modo invitante il nostro percorso interiore verso il silenzio. Chi percorre la via del silenzio, riscopre alcune espressioni della Bibbia. Scopre la dimensione profonda di queste parole. Le parole di Gesù, che sin troppo spesso ci sembrano incomprensibili, assomigliano a un koan, un aforisma di un maestro zen. Vorrebbero aprire il nostro spirito alla dimensione totalmente altra di Dio.
    Nel cristianesimo dovremmo concretizzare la nostra via mistica. Benedetto lo ha fatto con il suo «ora et labora».
    Qui sarebbero da ricordare la via della liturgia, la via della preghiera delle ore, della celebrazione eucaristica, della meditazione cristiana, la vita alla presenza di Dio. Ma sarebbe necessaria una descrizione ancora più chiara di queste vie e del modo in cui conducono a una esperienza di Dio sempre più profonda.
    Nell'esicasmo, una corrente del monachesimo orientale, venivano fornite indicazioni precise riguardo al modo di sedersi e di respirare e di collegare la preghiera di Gesù con ogni respiro. Nella Nube della non conoscenza, il libro di un domenicano del XIV secolo, riconosciamo molte analogie con la via percorsa dalla meditazione zen. Da questo punto di vista, un dialogo fra il buddhismo zen e la mistica cristiana è sicuramente utile, ma non dovremmo confonderli. Si tratta piuttosto di lasciare che ogni forma di mistica sia se stessa nonostante tutte le similitudini, altrimenti ci approprieremmo del buddhismo zen e non saremmo affatto disposti a confrontarci con l'esperienza completamente diversa dello zen.

    Guardando al buddhismo, scopriremo nell'immagine di Gesù tratti nuovi che la Bibbia ci descrive e che finora avevamo trascurati. Gesù è anche il maestro di sapienza, che ci introduce all'arte della vita e alla libertà interiore. Proprio nelle parabole, Gesù apre il nostro spirito al Dio totalmente altro. Gesù è una guida spirituale. Luca lo chiama «autore della vita» (At 3,15), guida a una vita riuscita.
    E Gesù nel vangelo secondo Giovanni è colui che – come Buddha – ci apre gli occhi alla verità, a Dio, che è il vero fondamento di tutto quello che vediamo nel mondo.
    Ma due aspetti differenziano la via cristiana da quella buddhista: da una lato la relazione personale a Gesù Cristo, e dall'altro l'aspetto della misericordia e dell'amore. Nel buddhismo, centrale è il vuoto. Dovremmo liberarci da ogni pensiero e sentimento. Questo è e rimane anche nel cristianesimo un aspetto importante della vita spirituale, ma nel cristianesimo lo scopo non è il vuoto, bensì la pienezza. Non si tratta della libertà da ogni pensiero e sentimento, ma dell'amore di Gesù Cristo, che dovrebbe colmare il nostro cuore e che noi dovremmo poi irradiare con tutto il nostro essere.
    Uno staretz russo si distingue da un maestro zen per la sua maggior cordialità e il suo maggior calore. Naturalmente ci sono anche meravigliosi maestri zen che irradiano mitezza e amore, ma tendenzialmente qui vi è una differenza.

    Spesso si rimprovera al buddhismo di essere una religione dell' autodissoluzione. Quest'accusa non è del tutto corretta. Anche nel buddhismo è in ultima analisi Dio che ci redime, quando ci apriamo alla sua azione nell'ottuplice sentiero, solo che l'azione di Dio non viene descritta in modo così attivo come nel cristianesimo.
    Per noi cristiani la redenzione avviene mediante Gesù Cristo; ma dal buddhismo possiamo imparare che dipende anche da noi crescere nell'atteggiamento del distacco, che Gesù ha vissuto in modo esemplare. La redenzione ha sempre anche a che vedere con il distacco da questo mondo e dai suoi criteri. Questo intende Paolo quando dice che per lui il mondo è stato crocifisso, cancellato, spodestato (cfr. Gal 6,14). I criteri del mondo non hanno più nessun potere su di lui.
    Romano Guardini, che durante i suoi anni berlinesi è entrato in contatto con la Casa di Buddha fondata da Paul Dahlke, nel suo famoso libro Il Signore: riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo fa affermazioni importanti riguardo al dialogo con il buddhismo, affermazioni a cui ancora oggi dovremmo prestare attenzione: Buddha «ha intrapreso qualcosa di inconcepibile, rimanere nell'essere e scardinare l'essere come tale. Quello che intendeva con nirvana, con il risveglio finale, con la cessazione dell'illusione e dell'essere, non è stato compreso e giudicato da nessuno dal punto di vista cristiano. Chi lo volesse fare, dovrebbe diventare completamente libero nell'amore di Cristo, ma contemporaneamente avere un legame di profondo rispetto con quell'uomo misterioso del VI secolo prima della nascita del Signore» (Citazione tratta da H. Waldenfels, cit., p. 142).
    .
    Un altro aspetto nel dialogo con il buddhismo si riferisce alla personalità di Dio. Nel buddhismo si sottolinea la dimensione impersonale di Dio. Come cristiani dobbiamo continuare a credere che Dio è anche persona, un tu che mi sta di fronte, e non solo un'energia che mi permea, o un'atmosfera che mi circonda.
    Ma, pur tenendo conto del concetto della personalità di Dio, il buddhismo ci insegna a prendere sul serio la teologia «apofatica» dei primi Padri della Chiesa. Questa teologia afferma che tutto quello che diciamo di Dio contemporaneamente deve essere negato, perché Dio è il totalmente Altro. Questo vale anche per Dio come persona. Possiamo dire che Dio è persona, ma contemporaneamente dobbiamo negarlo, perché Dio è persona in modo completamente diverso rispetto al modo in cui rappresentiamo l'uomo come persona.
    Invece di metterci contro la posizione del buddhismo, nel dialogo con il buddhismo scopriamo alcune radici cristiane importanti. Tuttavia, lo scopo del dialogo non è solo affermare che vediamo le cose esattamente come il buddhismo. Tenendo conto dell' alterità di Dio possiamo insistere che Dio ci viene incontro anche come persona, come un tu dall'esterno.
    Dio è in noi e fuori di noi. È la cosa più intima del nostro cuore. È colui davanti al quale ci inchiniamo per adorarlo. Ma anche il Dio che abita in me non è a mia disposizione. Non lo possiedo, ma è lui che vuole governare in me. Questo intendeva dire Gesù affermando che il regno di Dio è in noi. Il regno di Dio significa che Dio regna in me e permea e plasma ogni cosa in me. In Gesù il Dio incomprensibile ha preso un volto umano. In Gesù vediamo il Padre. Attraverso Gesù si apre a noi l'essenza di Dio, che ci guarda nel volto di Gesù e che ci viene incontro come quella persona che anche noi possiamo incontrare, per venire trasformati nell'incontro con lui.

    Se rispettiamo il punto di vista buddhista, dobbiamo anche sottolineare la ricchezza del nostro modo di vedere cristiano. Eugen Drewermann ha ribadito a ragione che il buddhismo può essere di grande aiuto per superare le paure di fronte ai giudizi degli altri nel caso di fallimento e così via, in breve: le paure nel mondo (E. Drewermann, Glauben in Freiheit oder Tiefenpsychologie und Dogmatik, Bd. 1: Dogma, Angst und Symbolismus, Walter, Solothurn-Dasseldorf 1993, p. 374).
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    Ma se l'esistenza stessa viene messa in questione e ci fa paura, allora abbiamo bisogno di una persona che ci tolga la paura, se ci affidiamo a lei con fiducia. La concezione personale di Dio, così come emerge dall'ebraismo e dal cristianesimo, è qualcosa di prezioso, perché ci aiuta a scoprire la nostra persona e a realizzarla pienamente. L'amore per Dio e per Gesù Cristo, così come lo hanno descritto i mistici cristiani, è una perla preziosa di cui dobbiamo essere grati. È un amore personale che, mediante l'incontro personale con Dio, spinge a quell'amore che è Dio stesso e che sgorga in noi come una fonte alla quale possiamo attingere sempre in modo nuovo.

    Nella storia del cristianesimo ci sono stati molti santi che si sono ritirati nella solitudine e nel silenzio e lì si sono aperti a Dio. Hanno mostrato in questo modo la forza della mistica cristiana. Per questo chi stava loro intorno è stato sempre toccato e contemporaneamente disorientato.
    Dove sono oggi i cristiani, che non solo insegnano una strada, ma anche la percorrono? Dove sono i cristiani che si ritirano dal mondo per dedicarsi completamente alla via spirituale? Dove sono i cristiani che percorrono la via del silenzio, senza volerla insegnare agli altri, che si ritirano nella solitudine, perché vogliono penetrare più profondamente nel mistero di Dio? Abbiamo bisogno di cristiani che percorrono la via radicale del silenzio, non solo per rendersi interessanti, ma piuttosto perché per loro Dio è la realtà vera. Oggi sarebbero dei testimoni credibili della mistica cristiana, più di molti autori che scrivono di mistica, ma hanno un'esperienza assai limitata della via della solitudine e del silenzio.

    Dell'induismo il Concilio dice: «Nell'induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica;sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza» (Nostra Aetate 2).
    Il concetto di «induismo» è stato coniato solamente durante il periodo coloniale inglese. Oggi gli studiosi di scienze delle religioni parlano piuttosto di «religioni indù», perché non esiste un induismo unitario, ma piuttosto diverse religioni che stanno l'una accanto all'altra e qualche volta si mescolano, come la religione veda, il visnuismo, lo shivaismo, lo shaktismo e altre.
    Caratteristico delle religioni indiane è in primo luogo il legame di religione e filosofia. In India la filosofia è «concezione religiosa e la religione è filosofia vissuta» (H.Waldenfels, cit., p. 127)". Per questo motivo la cultura e la religione non sono separate. In Occidente molto spesso si collega l'induismo a una determinata concezione di vita, per esempio all'atteggiamento di tolleranza, non violenza, volontà di pace e rispetto della natura.

    Le religioni indiane possiedono una concezione ciclica. Tutto si ripete. La concezione ciclica si esprime anche nell'idea della reincarnazione. La religione indiana non è una religione storica. Si fonda sui miti. Contrariamente al buddhismo, nell'induismo vi è una rappresentazione personale di Dio. Certamente l'induismo conosce molti dèi, ma li interpreta come figure mitologiche. In ultima analisi, lo scopo dell'induismo è donarsi all'unico Dio nell'amore.
    Gli scritti religiosi più antichi dell'induismo sono i Veda (redatti tra il 1200 a.C. e il 100 d.C.). Accanto a questi si trovano altri scritti di carattere religioso. Per esempio, particolarmente diffuse sono le Upanishad, nelle quali si trovano riflessioni di grande profondità sull'essenza dell'essere umano e del mondo.
    Tipico dell'induismo è anche il cosiddetto «inclusivismo»: si accoglie in sé tutto ciò che è estraneo, che tuttavia non rimane estraneo, ma viene fatto proprio e trasformato. Gli induisti possono accogliere anche Gesù, se considerato come un mito, ma se viene preso come un dato di fatto storico, che richiede una chiara reazione, Gesù rimane loro estraneo. E se qualcosa non si lascia assimilare, viene osteggiato, come emerge dall'atteggiamento spesso intollerante verso musulmani e cristiani.

    Nel dialogo con l'induismo possiamo scoprire in modo nuovo la teologia cristiana della creazione. Anche la Bibbia considera la creazione come il primo grande dono di Dio agli uomini. E anche per noi cristiani la creazione è pervasa dallo Spirito di Dio. Possiamo incontrare Dio anche nella natura.
    Gesù ci ha aperto gli occhi, in modo che nelle cose naturali possiamo vedére un'analogia della nostra relazione a Dio. Gesù si definisce la vera vite (cfr. Gv 15,5). Se medito sulla vite, riconosco qualcosa di essenziale di Dio e di Gesù Cristo e della sua relazione con me. Come il tralcio rimane nella vite e da lei trae la forza, così la mia vita sarà feconda solo se sono in Cristo e vengo pervaso dal suo Spirito.

    Dietro tutti gli dèi che gli Indiani conoscono, si intuisce facilmente la presenza di un Dio incomprensibile. La venerazione cristiana dei santi e la loro rappresentazione nelle nostre chiese sono forme di religiosità che hanno analogie con la concezione indù. Naturalmente noi cristiani nei santi non vediamo degli dèi, ma crediamo che Dio li abbia trasformati in modo particolare e che ce li abbia donati per intercedere per noi.
    Noi rivolgiamo le nostre preghiere sempre a Dio, ma possiamo anche invocare i santi perché intercedano a nostro favore presso Dio. Nel fare questo certamente viene esaudito un desiderio che si esprime anche nella religione indù: che Dio operi in concreto, che nella quotidianità ci circondino le potenze di Dio che ci aiutano, gli angeli che ci accompagnano, e i santi, che sono presso Dio, ma che nei nostri bisogni ci sono più vicini di Dio, così spesso percepito come lontano e sconosciuto.

    Anche il dialogo fra cristianesimo e taoismo si potrebbe rivelare fecondo. Il taoismo è la religione cinese. Risale a Lao-tze. Ma nel taoismo si sono riversate pure altre correnti religiose più antiche.
    Il taoismo mira all'unità di uomo e mondo, di macrocosmo e microcosmo. Il suo punto centrale è l'armonia. Il taoismo ha sviluppato molti modi con cui trovare l'equilibrio dell'uomo con il mondo. Entrambe le forze yin e yang producono con il loro aumentare e diminuire l'equilibrio interno nell'uomo, come anche nel mondo.
    Da un lato, il tao è una strada che l'uomo deve percorrere e la virtù che deve mettere in, pratica. Dall'altro, il tao è «il fondamento del mondo, una potenza spirituale, già presente prima del mondo, eternamente in riposo. Così... crea il mondo, lo colma, produce forma, forza e materia, ama e nutre il mondo come una madre, rimane in sé immutabile ed è privo di desideri» (M. Eber, Taoismus)'2. L'uomo dovrebbe lasciare agire in sé il tao, come Dio dovrebbe agire libero dalla fama e dall'egoismo e non fare nessuna violenza alle cose. Il tao è il divino e contemporaneamente il consueto che si esprime nell'organizzazione del quotidiano. Il tao agisce senza irrequietezza nella pace perfetta. «Così anche l'uomo non dovrebbe lasciarsi assorbire dalla battaglia della vita, ma adattarsi alla silenziosa azione della natura» (ibidem).
    Il taoismo ha una dimensione filosofica e una religiosa. Ha sempre avuto un legame stretto con la medicina. Si domanda come l'uomo possa vivere bene, in modo da corrispondere alla propria essenza e a tenere in equilibrio le proprie forze.
    Il taoismo è stato ripreso solo in parte nell'esoterica, senza che avvenisse un vero dialogo. Sono diventati famosi il Taiji e il Quigong, che attraverso esercizi di respirazione e movimenti del corpo vogliono condurre alla pace e all'equilibrio interiore.

    Nel dialogo con il taoismo sarebbe utile soprattutto ripensare la dimensione terapeutica del cristianesimo. Fra gli evangelisti, è Luca a mostrare la maggiore vicinanza al taoismo. Nel vangelo secondo Luca Gesù ci insegna l'arte della vita sana. Qui la spiritualità non si rivela solo nella preghiera e nella liturgia, ma soprattutto nel rapporto attento e autentico con le cose di questo mondo.
    Un versetto mi ricorda particolarmente il taoismo. Nella parabola del servo inutile, Gesù dice: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare"» (Lc 17,10). La spiritualità, quindi, si rivela proprio nel fare quello che dobbiamo a noi stessi, al mondo, a Dio in quel preciso momento. Nel fare quello che va fatto in quel momento. Questo atteggiamento corrisponde al taoismo, che sostiene che il tao è la cosa consueta. Né per Gesù, né per il taoismo, la spiritualità significa guardare gli altri dall'alto in basso e farsi belli con le proprie esperienze spirituali, ma fare le cose solite, senza mettersi in primo piano. Servire l'attimo, servire l'essere, sono tutti concetti che il taoismo e la spiritualità cristiana hanno in comune.

    E il taoismo sotto molti aspetti corrisponde a quello che Meister Eckhart chiama il lasciar andare. Quietudine significa per lui lasciare che le cose siano come sono, invece di volerle guidare sempre secondo il proprio volere. Il fare nel non fare, di cui parla sempre Lao-tze, corrisponde alla serenità che per Meister Eckhart è espressione di colui che si affida a Dio, e così si libera di sé e del proprio egoismo.
    Quietudine significa per Meister Eckhart anche liberarsi dalle immagini di Dio e abbandonarsi al Dio incomprensibile. Il taoismo non ha sviluppato particolari rappresentazioni di Dio, ma fa conto sul mistero indicibile di Dio.

    Nel dialogo con le altre religioni non si tratta di mescolare tutto, ma di riconoscere in modo più chiaro l'essenza del cristianesimo. A me il dialogo con il buddhismo e il taoismo è stato di aiuto per comprendere meglio alcuni passi della Bibbia e vederli in una luce nuova.
    La Bibbia stessa è già testimonianza di un dialogo riuscito fra le religioni, perché gli autori dell'Antico Testamento stabiliscono sempre un collegamento fra la fede ebraica in YHWH e le conoscenze che hanno trovato nell'ambientecircostante. Nei tardi scritti sapienziali dell'Antico Testamento la sapienza ebraica è legata alle posizioni della filosofia popolare greca.
    Nel Nuovo Testamento gli autori guardano a Gesù Cristo da punti di vista diversi. Matteo interpreta Gesù sullo sfondo della teologia ebraica. Marco lo vede piuttosto dal punto di vista dei Romani. Luca lo descrive in modo tale da interpellare e da affascinare i lettori di formazione greca. Giovanni delinea per noi un'immagine di Gesù che fornisce una risposta al desiderio forte della gnosi. Paolo parla sempre di Gesù a partire dalla sua formazione di fariseo e dialogando con la filosofia stoica. Le lettere tarde lasciano intravedere le influenze del modo di pensare ellenistico. L'ellenismo era influenzato da correnti religiose diverse, come la religione persiana, i culti misterici, la religione egizia e le concezioni e le pratiche delle scuole filosofiche greche, che non solo annunciavano la sapienza, ma conoscevano anche pratiche di meditazione e di direzione spirituale, come la scuola pitagorica.
    Quando guardiamo a Gesù da diversi punti di vista, si rivela a noi la pienezza della sua sapienza. Non lo confondiamo con altre religioni, ma comprendiamo piuttosto il suo mistero. Nemmeno noi cristiani possiamo affermare di aver compreso Gesù nella sua pienezza. Abbiamo una visione limitata di Gesù. Nel dialogo con le altre religioni e culture i nostri occhi si spalancano, perché possiamo riconoscere sempre più il mistero di Gesù Cristo e di Dio annunciato da Gesù.
    Gesù appaga il desiderio di ogni religione. Alcuni studiosi di scienze delle religioni hanno posto Gesù sullo stesso piano di altre figure religiose dell'antichità. Quando leggono della nascita virginale dei grandi eroi greci, allora il racconto evangelico della nascita di Gesù per loro non è nient'altro che un racconto analogo a quello che si può già trovare nell'ambiente contemporaneo alla Bibbia. Quando la sacra Scrittura parla di Gesù come Figlio di Dio, per loro non significa nient' altro che Gesù è stato un uomo dotato dal punto di vista religioso, come per esempio Buddha o Lao-tze.
    Ma lo possiamo vedere anche in modo diverso: la Bibbia risponde al desiderio intenso degli uomini che si esprime in molti miti e saghe, ma contemporaneamente testimonia che questo Gesù Cristo viene da Dio e che è la Parola unica di Dio agli uomini. Così la lettera agli Ebrei colloca l'operato di Gesù nella storia dei profeti e, tuttavia, mette in risalto l'unicità ela particolarità di Cristo: «Dio, che nel tempo antico aveva parlato ai padri nei profeti, in questa fine dei tempi ha parlato a noi nel Figlio, che egli costituì sovrano padrone di tutte le cose e per mezzo del quale creò l'universo. Questi, essendo l'irraggiamento della gloria e l'impronta della sua sostanza, e portando tutte le cose con la parola della sua potenza, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nei luoghi eccelsi» (Eb 1,1-3).
    In quanto cristiani non dobbiamo avere paura, quando dialoghiamo con le altre religioni. Possiamo essere grati per la ricchezza che troviamo anche nelle altre religioni.
    Come dicevano i Padri della Chiesa, Dio ha sparso il seme del suo Logos anche in altre religioni. E questo seme è sbocciato. La Chiesa primitiva ha accolto la ricchezza delle altre religioni nella propria liturgia e spiritualità. Ha interpretato Gesù sullo sfondo dei miti pagani. Ha ripreso anche le tradizioni spirituali dell'ambiente che la circondava e le ha reinterpretate. Allora i luoghi oracolari, a cui si recavano in pellegrinaggio i devoti, per dormire nel tempio e fare esperienza in sogno della sapienza e della guarigione provenienti da Asclepio, il dio della medicina, sono stati trasformati in luoghi di pellegrinaggio cristiano. Il cristianesimo non ha mai disprezzato la sapienza delle altre religioni, ma l'ha integrata.
    Per questo anche noi oggi, nel dialogo con le altre religioni, possiamo accogliere nella nostra fede ciò che rende più profondo il nostro amore per Dio e che arricchisce la nostra relazione con Gesù Cristo. Già l'apostolo Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, ha fornito un criterio per affrontare le tradizioni religiose dell'ambiente greco che li circondava e in cui venivano venerati dèi greci, romani e orientali: «Esaminate ogni cosa: ritenete ciò che è buono» (lTs 5,21).

    (La fede dei cristiani, San Paolo 2012, pp.151-181)


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